Premessa
C’è
solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori;
e un sogno di
ciò che potrebbe essere visto se la finestra si aprisse.
Fernardo Pessoa
"I am half sick of
shadows," said
The Lady of Shalott.
Alfred Tennyson
La Signora di Shalott è una leggenda legata al ciclo
arturiano.
Le informazioni su cui ho basato la mia storia le ho ricavate dalla
ballata di Alfred Tennyson, The Lady of Shalott, e dal blog La Torre di
Vetro. Ecco cosa si racconta: Elaine di Astolat è una maga
ma
prima di tutto una giovane bellissima, che vive reclusa nella sua
torre, non lontano dalla famosa Camelot. Ella fu condannata a non poter
uscire dal suo castello, a meno di voler morire, dalla maledizione di
Morgana la Fata, a seguito di una visione che la sorella di
Artù
ebbe e che le mostrava come la Signora di Shalott, facendo innamorare
di sé Lancillotto, intralciasse i piani di Morgana stessa
per
governare al fianco del re.
Elaine passava le sue giornate a tessere una magica tela in cui erano
rappresentate le vicende del mondo esterno che le osservava attraverso
uno specchio.
Benché questa storia fu ideata piuttosto in fretta, ogni
elemento, sia che concordi con la versione di Tennyson, sia che se ne
discosti, è significativo per comprenderla. La mia versione
della leggenda è decisamente introspettiva e spero che i
miei
scopi risultino chiari a tutti i lettori.
Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
La Signora di Shalott
Il mondo era oltre una finestra.
Una finestra dall’arco romano, intagliata nelle pietre che
avevano assorbito la luce per diventare così chiare,
nascosta
tra le tende di pesante seta che riparavano dai rigori invernali e
dagli ardori del sole estivo. La balia, ogni tanto, accostava con
premura quelle tende: sentite, le diceva, il vento fuori è
troppo forte, potreste ammalarvi, oppure è una giornata
tanto
calda, un po’ di frescura vi farebbe bene.
Ed il mondo scivolava nella stanza in un raggio di sole sui fiori di
pietre dure che si intrecciavano in ghirlande nel pavimento.
Ma la Signora di Shalott lasciava libera la finestra, sempre. I
mormorii, i cinguettii, i fruscii dall’esterno entravano
liberamente, come le foglie dorate d’autunno, gli uccelli
che,
ritrosi e timidi, la spiavano nella sua stanza in primavera ed il vento
in tutte le stagioni.
Da che ricordava il suo mondo era racchiuso dentro il cerchio perfetto
della sua torre. Il resto era oltre.
Ancora bambina aveva chiesto a sua madre cosa fosse quel raggio di
luce, quei suoni insoliti e quei colori accesi che osservava con
meraviglia e curiosità dalla sua finestra.
Sua madre, pallida e odorosa dell’odore caldo di madre, le
diceva
di non preoccuparsi, che andava tutto bene, ma che fuori, fuori no, ci
sono tante brutte cose che una bella bambina non dovrebbe mai vedere.
Sebbene non dubitasse delle sue parole, sua madre non le piaceva.
L’abbracciava troppo stretta e all’improvviso,
mentre lei
stava giocando, quasi la soffocava tra le sue forti braccia aliene.
La balia, invece, così dolce, così gentile
l’avvolgeva col suo corpo morbido e accarezzava i riccioli
dei
suoi capelli. Ascolta tua madre, le diceva. E se le chiedeva cosa
fossero quelle brutte cose, di cui sua madre non voleva parlare, le
bisbigliava i segreti oscuri del fuori.
Alle storie di terrore lei rabbrividiva, ma la sua balia, cara,
carissima balia, la consolava con la stessa premurosa gentilezza di
carezze.
Da un giorno all’altro sua madre non venne più. E
ancora
adesso, mentre le veniva in mente la sua assenza, la Signora di Shalott
provava lo stesso stupore di quando le raccontavano qualcosa che era
successo tempo prima e che lei aveva dimenticato. Davvero? Era successo
proprio così? Era esistita quella donna, memoria sbiadita di
abbracci affannosi e di dolore?
La signora di Shalott scosse la testa, mentre con lo sguardo
accarezzava la stoffa. I suoi occhi vagarono sulle figure abbozzate,
sull’intreccio di foglie, tenere nella loro verde primavera,
che
formavano la cornice con un sospiro di soddisfazione.
Erano passati anni da quando per la prima volta le sue mani toccarono
il telaio. Aveva consumato i suoi giochi preferiti, le bambole, persino
gli animaletti di legno intagliato che dei parenti di cui non conosceva
il viso le avevano mandato in dono; aveva imparato a memoria i
racconti, sapeva ormai alla noia le canzoni e non aveva libri nuovi da
sfogliare. Crida, che era la sua cameriera preferita e che le
raccontava i pettegolezzi di corte, era stata mandate via.
“Una così cara ragazza,”
giustificò la sua
assenza la balia, quando chiese notizie. “Ma con la testa
piena
di sciocchezze che una brava bambina come te non dovrebbe
ascoltare.” Lei protestò che si annoiava, che
voleva
qualche nuovo giocattolo. E allora la balia, paziente, le aveva
insegnato a ricamare e a tessere,
Benché il telaio si fosse dimostrato una piacevole
attività, ogni tanto le mancava ancora Crida. Le altre
cameriere
erano troppo timide o troppo poco propense ad aprire bocca, limitandosi
ad assecondarla. Non rimanevano che gli sguatteri e la cuoca, che la
turbavano per il loro comportamento grossolano e che vivevano nella
parte più dimenticata del castello, e la balia che aveva
ormai
esaurito le sue storie. Anche se le piaceva ascoltarle, avevano perso
la loro novità.
“Parlami dei cavalieri,” aveva chiesto una volta a
Crida.
Aveva letto una storia dove apparivano i cavalieri ma non aveva
compreso bene cosa fossero.
“Sono uomini, e vanno a cavallo.”
“E basta?” aveva commentato delusa.
“Ma no, mia signora,” aveva riso la giovane Crida.
E aveva
preso a spiegare che alla corte ce n’erano molti, anzi una
volta
ne aveva visto persino uno da vicino, che erano al servizio del re, che
portavano delle armi così scintillanti che un uomo, se le
avesse
fissate a lungo, sarebbe rimasto cieco. Che erano belli – e
qui
sorrise ed arrossì, sotto lo sguardo ardente della giovane
Signora di Shalott che la incitava a proseguire –, che erano
valorosi e gentili.
“Quando combattono, prendono un dono dalla loro dama, e se
vincono, si inginocchiano e le proclamano eterna devozione e la
chiamano la più bella. E lei accetta i loro voti di
fedeltà.”
“E sono così belli?” chiese la piccola
signora, sebbene non avesse idea di cosa fosse la bellezza.
Crida ridacchiò, dandole un buffetto sulla guancia.
“Ma
sì, ma sì. Un giorno li vedrete anche
voi.”
La Signora di Shalott sospirò per cacciare via quei
desolanti
pensieri: perché lei non aveva mai visto un cavaliere
né
mai qualcuno l’aveva proclamata la più bella. Con
lo
sguardo accarezzò le figure pallide, quasi inconsistenti
sotto
il peso delle armature forti e lucidate a specchio dei cavalieri che
vivevano nel tessuto sul telaio. Chissà se erano
così,
come li aveva visti Crida un giorno lontano alla corte del re. La
servetta non era lì per confermarlo, e questo rendeva triste
la
Signora.
La balia era stata molto decisa su questo argomento.
“Crida dice delle sciocchezze,” aveva detto mentre
scuoteva
la testa, come per rafforzare l’idea di quanto fossero
sciocchi i
discorsi della cameriera. “I cavalieri servono il re e lo
proteggono dai nemici. Non vanno di certo dietro alle donne! Mia
signora, sono certa che non vorrete mai avere un cavaliere alle vostre
calcagna.”
“Ma perché?”
“Piccola mia, i cavaliere uccidono,” e
quella parola
sconosciuta si impresse in un sussurro carico di orrore nella mente
innocente della bambina. “E non c’è cura
per la
morte.”
“Allora sono cattivi?” chiese in un singhiozzo la
Signora, ormai prossima alle lacrime.
La balia, in risposta, l’attirò contro il suo seno
confortevole e l’abbracciò, perché non
doveva avere
paura, dentro il castello sarebbe stata al sicuro.
Col tempo la Signora di Shalott non aveva più chiesto dei
cavalieri, né della corte del re. Ma ogni tanto, seduta
accanto
alla finestra o mentre al telaio creava una scena con
l’intreccio
dei fili colorati, ecco che da lontano giungeva un clop-clop di zoccoli
sulla ghiaia del sentiero che costeggiava il fiume e salivano voci
allegre e piene di vitalità, non quelle più cupe
dei
contadini, che parlavano poco e nel loro dialetto aspro e grossolano.
Lei trasaliva e reprimeva l’impulso di spiare oltre le tende
per
la strada.
Erano momenti rari che capitavano sempre meno: gli estranei si
allontanavano in fretta per la loro strada, fino a quando ella sentiva
morire le loro voci e gli zoccoli dei loro cavalli, e nessuno si
avvicinava al fiume che circondava il castello.
La Signora di Shalott si era dimenticata della sua infantile passione
per le storie sui cavalieri, fino al giorno in cui non spiò
per
caso la conversazione fra le cameriere, mentre queste si ristoravano,
ignare che la loro padrona fosse in ascolto.
“A corte è arrivata…”
“Quando ?”
“Ieri. E’ andata subito dal re.”
“Spudorata! Con tutte le voci che girano su di lei, ha del
coraggio a farsi vedere a Camelot!”
Le altre zittirono la temeraria cameriera, inducendola a non
pronunciare discorsi avventati, che se l’avessero sentita,
sarebbero stati guai.
“Di chi state parlando ?” si intromise una nuova
voce.
“Di Morgana la Fata,” bisbigliarono questo nome
tanto
debolmente che la Signora faticò non poco a capirlo. Eppure
lo
ricordò con chiarezza, rigirandolo nella mente come una
canzone
che non la volesse abbandonare e continuasse a suonare nei
suoi
pensieri. Con tanta insistenza quel nome la istigava, che ella volle
saperne di più.
Quando si decise a chiedere alla balia, la donna si portò le
mani alla bocca e allargò gli occhi in preda ad un grande
spavento.
“Vi prego, non pronunciate il suo nome,”
esalò in un sussurro.
“Ma perché, cara balia! Cosa vi succede? Non vi
sentite
bene?” chiese la Signora di Shalott, inginocchiata al suo
fianco
e prendendo una mano rugosa della donna fra le sue.
“Chiedere una cosa simile proprio ora…”
“Ho sentito…”
“Mia signora, vi posso dire solo questo. E’ la
sorella del re e una maga molto potente.”
Gli occhi della giovane si accesero a parole che rivelavano un
così importante lignaggio.
“Hanno detto che è molto
bella…”
“Bella?” la vecchia balia rise in un modo
sprezzante che
sconcertò la Signora di Shalott. “Molto bella, ma
voi lo
siete di più, piccola mia.”
Ella si strinse le mani al corpo, quasi si fosse accorta in
quell’istante di possederne uno. “Io…
bella…”
“Sì,” affermò con decisione
la balia,
prendendole il viso tra le dita callose. “La più
bella.”
Ma non sembrava contenta di questo, anzi ne era spaventata.
La Signora di Shalott, dopo che ebbe lasciato la balia, corse allo
specchio. Era una lucida lastra d’argento, così
polito che
ogni particolare della sua intera stanza vi era riflesso, ma ora era
occupato dal suo viso e dal suo corpo, mentre insistentemente si
fissava come per la prima volta.
Allora, era questa la bellezza. Erano queste guance pallide, appena
colorate di rosa come i fiori teneri di primavera, lisce come le sete
orientali; erano queste mani dalle dita lunghe ed agili, con le unghie
come madreperle, e quei capelli di un nero lucido come
l’ebano,
mollemente raccolti in una treccia che le scendeva fino alla vita, e
quella stessa vita snella come un fuso, che si allargava verso
l’alto per uscire fuori dal corpetto simile al fiore sullo
stelo.
La bellezza. Più di Morgana la Fata, sorella del re, maga a
corte.
La Signora di Shalott sorrise di un sorriso dolce come i frutti estivi
troppo maturi, pronti a guastarsi.
Il retrogusto di quei frutti era amaro.
Le sue dita agilissime facevano volare il pettine, mentre la spola
correva veloce a eguagliare il ritmo delle sue mani . Filo dopo filo,
intrecciato l’uno all’altro, la tela si formava. La
Signora
di Shalott cantava antiche canzoni di gesta mentre tesseva. Quindi
l’ago sostituì il telaio. Punto dopo punto, si
formavano
le figure sempre più compiutamente nei loro particolari.
L’opera proseguì ancora per molti giorni, senza
che ella
si stancasse, anzi infervorata proseguiva con sicurezza, dimenticandosi
dello scorrere del tempo. Quando concluse, si tirò da parte
e
accarezzò con sguardo amorevole il frutto delle sue mani e
della
sua mente.
Uomini riccamente vestiti, donne dalle lunghe vesti di lana e dai
capelli adornati di gemme, cavalli bardati a festa, servitori che
portavano vino e damigelle che accompagnavano in gruppi le loro
signore, persino contadini con i loro strumenti in mano e grassocce
matrone con ceste di frutta, si affollavano tra le cornici floreali sul
prato, si aggiravano tra i cani da compagnia, gli uccelli che
volteggiavano sulle loro teste e i fiori dalle corolle dischiuse.
L’intera corte del re si era radunata. I loro volti, i loro
occhi stranamente vacui si fissavano su un punto ben preciso.
Al centro il re incoronato si riconosceva per la fierezza con cui
portava i simboli del suo potere, ma più in alto di lui, con
audacia e con eleganza sedeva una donna, il viso soffuso di una luce
chiarissima, i lunghi capelli scuri che ricadevano come un mantello.
Era a lei che si rivolgevano gli sguardi della corte: lei, sorella del
re, Morgana.
La Signora di Shalott sospirò al pensiero di questa donna,
il
cui nome si osava appena sussurrare tanto grande era il suo potere. Un
cavaliere nella sua armatura lucida come il suo specchio
d’argento ma senza armi era inginocchiato ai piedi del trono,
dove ella sedeva, e le porgeva il proprio volto e le proprie mani in
adorazione.
Dopo lungo tempo passato ad osservare la sua tela, la giovane signora
si staccò bruscamente, tentennò un poco confusa
per poi
dirigersi con passo incerto in avanti, verso la finestra aperta. Da
lontano si vedeva Camelot, coronata dalle sue torri, scintillante come
una pietra lustra e levigata sotto il sole. Di notte essa era come un
faro, poiché mille fuochi brillavano dalle sue mura, e
spesso la
Signora di Shalott si era attardata a contemplarla dalla sua finestra,
quando già le sue ancelle dormivano, e le sembrava di udire
i
canti, la musica e le voci che la raggiungevano, sola nella sua torre.
Allora ella tremava, prima di chiudere con un gesto deciso le tende.
Ma alla luce del giorno Camelot era più bella; eppure
così lontana, tanto che lei non poteva toccarla…
Tesseva e cantava, da così tanto tempo, e ogni tanto gettava
un’occhiata allo specchio, dove il suo volto le sorrideva. E
subito riprendeva il lavoro, quando un rumore inatteso le giunse da
lontano.
Un nitrito forte di un cavallo focoso la distrasse e voci sempre
più vicine la fecero sobbalzare sulla sedia. Da tanto non
sentiva qualcuno avvicinarsi al suo castello!
La Signora di Shalott si alzò e senza un pensiero in
più,
si accostò prudentemente alla finestra, spiando la
verdeggiante
foresta di foglie. Ecco, sempre più vicine venivano le
voci… e con un senso di sgomento si accorse che
appartenevano a
degli uomini. Nascosta dietro una tenda, spiò sul bosco.
Quanti
erano? Tre… no, due. Non riusciva a vederli ma li sentiva
parlare sempre più forte, riusciva a riconoscere le
parole…
Un cavallo sbucò fulmineo sul sentiero, e il cuore dalla
giovane
mancò di un battito. Spavento o meno, si accostò
più vicino alla finestra. Un giovane comparve in sella, i
capelli biondi che volavano nell’ebbrezza della corsa, le
mani
che stringevano con decisione le redini e l’armi che
mandavano
bagliori infuocati quando erano colpite dai raggi del sole. Rideva e
cantava allegro un motivetto. Ma bruscamente si fermò, e la
Signora di Shalott, tutta spaventata, si domandò se per caso
non
l’avesse vista. Si nascose dietro il muro e udì da
lontano
una voce chiamare il giovane.
“Lancillotto… non andare da quella
parte!”
Sentì una risata. “Cosa c’è
di tanto pauroso, mio Galvano? E’ solo un vecchio
maniero.”
“Avanti! Ci aspettano a Camelot…”
Quando la giovane donna decise a guardare, il cavaliere era
già
sparito e solo l’eco lontano degli zoccoli del suo cavallo si
sentiva ancora.
Ella si aggrappò alla tenda,
l’attorcigliò tra le
mani tremanti pur di non cadere a terra. Sentiva il volto scottare come
in preda alla febbre. L’immagine del cavaliere,
così come
le era apparso appena uscito dal bosco, vigoroso e avvenente sopra il
suo cavallo, non la lasciava in pace: lo rivedeva continuamente.
A poco a poco si riprese. Ma non riuscì a pensare ad altro,
il
lavoro al telaio non la interessava più, anzi lo guardava
persino con astio. Si accostò più volte allo
specchio,
mentre fissava ogni tratto del suo corpo.
Così bella, tanto bella…
Il cuore le rimbombava nella testa come un tamburo, cosicché
non
riusciva a riflettere. Il suo sguardo cadde sull’arazzo,
cadde
sulla coppia del cavaliere e della dama, lui così implorante
e
lei così maestosa.
Una speranza? O una tentazione?
La Signora di Shalott si erse in tutta la sua altezza e
mandò a
chiamare le sue ancelle. Alla richiesta di preparare cavalli e scorta
esse fuggirono impaurite, un comportamento che le procurò
un’immensa rabbia e non pochi dubbi.
Ma quando arrivò la balia, trafelata per la corsa, ella era
già vestita con il suo abito più bello, i capelli
intrecciati con le gemme e un lungo mantello sopra le spalle.
“Parto per Camelot,” disse la Signora di Shalott, e
la sfidò con lo sguardo.
La donna lanciò un grido atroce come se fosse in punto di
morte, e la giovane si impaurì.
“Mia signora… vi prego ! Non dite questo.. voi non
sapete…”
“Cosa? Avanti rispondete: cosa io non so?”
“Non me lo chiedete! Vi prego, farò ogni
cosa… ma non chiedete questo, e non andate.”
“Voglio sapere,” replicò la Signora di
Shalott,
benché un terrore ignoto attanagliasse il suo cuore: una
parte
di lei non voleva conoscere, ma essendosi spinta tanto avanti, non
poteva tornare così vigliaccamente indietro.
La balia tremò, tentennò ma infine cedette.
“Voi siete maledetta, mia signora. Fin dalla nascita. Non
potete uscire da questo luogo altrimenti morirete.”
La Signora di Shalott impallidì. Con lucidità
dolorosa
vide e ricordò e capì: ogni momento della sua
vita, anche
il più insignificante, ogni parola acquistò senso
e si
saldò insieme alle altre.
“Chi mi ha maledetto ? Parlate !” gridò.
“E’ stata Morgana la Fata.”
A quel nome la Signora avanzò e con sguardo terribile,
stracciò la tela con la dama ed il cavaliere che lei stessa
aveva tessuto. Quando alzò lo sguardo allo specchio, vide
che
esso era rotto per la sua intera lunghezza.
Anche il suo corpo era rotto, anche il suo viso…
La Signora di Shalott scappò via, lasciandosi indietro le
grida
sempre più acute della balia che straziavano come uncini il
suo
cuore.
Più andava avanti, più non pensava a dove andare.
Eppure proseguiva, senza accennare a fermarsi.
Se si fosse fermata…
Giunse al portone, lo vide spalancato davanti a sé. La luce
esterna si riversava in fiotti illuminando
l’oscurità
umida che regnava all’interno. Ella rallentò, fino
a
giungere sulla soglia.
Un altro passo, un altro solo. Non riusciva a vedere nulla oltre,
poiché la luce l’accecava e la sua vista la
tradiva,
annebbiandosi per colpa del suo tumulto interiore.
Avrebbe voluto correre indietro, fino a gettarsi tra le braccia della
balia, lasciarsi stringere al seno e consolare dalla voce gentile, come
quando era piccola ed un rumore o il buio la spaventava e andava a
rifugiarsi nel suo abbraccio consolante, caldo, sicuro. Era al riparo
tra quelle mura, nulla le avrebbe fatto mai male.
Ritornare al suo telaio, alle sue canzoni… ai suo giochi di
bambina…alla sua finestra…
Ma oltre la finestra, c’era Camelot.
Fece un passo, un altro ancora. E quando ricominciò a
pensare
con lucidità, il sole le riscaldava il volto, la brezza
primaverile le arruffava i capelli, l’acqua deliziosamente
fresca
scorreva tra le sue gambe e le sue mani erano affondate tra manciate di
soffice terra.
Per la prima volta la Signora di Shalott pianse.
Quando alzò il volto, da lontano si levò la
turrita
Camelot; ed era come la stella che guida i viandanti tra le fronde di
una foresta immersa nella notte più cupa.
Riprese a correre lungo la strada dove aveva visto sparire il giovane
cavaliere. Vedeva ogni cosa con una chiarezza così intensa
che
ne era impaurita; così splendenti le apparivano gli alberi,
le
fronde, le foglie ed i fiori, le pietre del sentiero, che ne rimase
accecata.
Così luminoso, così vicino… eppure,
come mai la
sua vista si stava annebbiando? Come mai il mondo si sdoppiava e si
oscurava lentamente? E le sue gambe, perché tramavano? Il
suo
fiato perché le usciva in rantoli affaticati?
Perché tutto scivolava via da lei?
Così vicino…
Nonostante tutto, continuava a correre; nonostante il fiato le mancasse
ed il cuore le balzasse in gola, sorrideva. Anche quando
inciampò, anche quando cadde e non riuscì
più a
rialzarsi, la gioia non l’abbandonò.
Fino all’ultimo il suo sguardo rimase fisso su Camelot.
Maggio 2006 c) Laurie |