Sand's memories: childhood

di Ita rb
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Note: Salve a tutti!
Avevo in mente di protrarre questa raccolta ancora per molto, ma alla fin fine non sono riuscita a cavare un ragno dal buco con altri characters e ho deciso di postare l’ultimo capitolo che, tra l’altro, ho scritto anticipatamente con l’idea di voler chiudere la raccolta proprio con lui.
Quella di cui parlerò in questo capitolo è la storia personalissima che ho voluto dare a Kan’yu, perciò è probabile che non abbia molto a che vedere con quella pensata dalla Minekura, ma lo scoprirò solo andando avanti e sperando che come per Hazel gli dedichi un piccolo spazio nelle sue opere.
Si collega, ad ogni modo, alla serie in cui l’ho inserita, con particolari riferimenti a Kaze no Uta che è ancora in pubblicazione e che ho già terminato di scrivere da un pezzo.
Spero davvero che vi piaccia *blushes*
Xoxo

Ita rb

K E N ' Y U
 

Essere se stessi è una virtù dei bambini,
dei matti
e dei solitari.1
 
Le pagine dei libri che aveva di fronte a sé sapevano di mistero, una sensazione che aveva imparato a conoscere sin dai primi anni di vita, quando, osservando la figura dei suoi genitori, aveva compreso quanto fosse lontano il loro mondo dal suo; eppure nessuno di questi si era mai preoccupato di stargli troppo accanto – tanto da fargli provare la sensazione di essere completamente solo.
Ogni cosa valeva più di lui, perfino la luminescenza che proveniva dallo schermo del computer acceso in salone, dove sistematicamente s’intervallavano gli adulti, parlottando tra loro di cose strane e inverosimili, davvero sconosciute ai suoi occhi.
Sfiorando la carta increspata delle pergamene che si trovavano nello studio del padre, Ken’yu aveva compreso quale fosse realmente il suo cruccio più grande, vale a dire quello di non riuscire a decifrare cosa vi fosse scritto – e se per lo stesso motivo i suoi genitori si sentivano turbati tanto quanto lui, allora avrebbe fatto di tutto pur di aiutarli.
L’impegno, la sagacia e la retorica sarebbero diventati padroni del suo stesso essere fino ad annichilirlo, tanto che lui avrebbe racchiuso in se stesso tutte le tre essenze sopracitate.
«Mamma, puoi leggermi una storia?» Domandò un giorno, arrivando di fronte a lei con lo sguardo basso, mentre sentiva il tocco leggero e frenetico delle sue dita sui tasti del computer; allora aveva compreso che non fosse stata in grado di udirlo neppure volendo, perché semplicemente lo reputava una perdita di tempo.
Doveva crescere, imparando da solo quale fossero le lettere più giuste e la pronuncia delle stesse, ma se i calcoli e l’alfabeto non bastavano ad attirare la loro attenzione, allora in che modo sarebbe riuscito a coglierla completamente? Non faceva che chiederselo, giorno e notte, fintanto che le sue palpebre restavano aperte, mentre fissava il soffitto della sua stanza silenziosa nella quale echeggiavano le urla altrui – spesso dovute a diverbi d’opinione che si protraevano fino alle prime luci dell’alba.
«Mamma, posso leggerti una storia?»
Quella vocina fievole sembrava perdersi nella stanza, mentre le sue mani serravano lo stesso libro che un anno prima aveva richiesto l’attenzione della donna seduta al computer. «Perché non la leggi a tuo padre?»
La sua risposta arrivò secca alle orecchie del piccolo, mentre sentiva gli occhi bruciare terribilmente a causa delle stesse lacrime che reprimeva ogni volta, tirando su col naso e inducendosi al silenzio per non sembrare sgarbato.
Aveva fame, ma sapeva che nessuno avrebbe cucinato con lui quel giorno, perché a mala pena avrebbe avuto la fortuna di mangiare un piatto già pronto comprato al discount dall’uomo appena entrato che, dopo essersi diretto verso il suo studio, non lo degnò neppure di un’occhiata, troppo intento in ciò che avrebbe dovuto fare una volta lì.
«Non ho tempo», spiegò lo studioso, quando la figura del bambino raggiunse l’uscio socchiuso sul quale ebbe posato il capo, curiosando a stento oltre quell’abisso che tanto avrebbe desiderato sondare.
Bambini, matti e solitari.
 

1 Citazione di Michelangelo da Pisa.




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