Love Heals

di EliCF
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Love Heals
Prologo

New York, 24 dicembre 2005.


Voglio provare a raccontare una storia di amore e destino.

Una storia narrata da voci che arrivano da lontano, eppure che ci toccano il cuore e che ci ricordano quanto sia unico ogni suo battito. Mi piacerebbe riuscire a raccontare la storia di una promessa sigillata durante un giorno di fede e di festa. Quella di due persone che si sono trovate e hanno capito che da quel momento in poi sarebbe stato impossibile fingere di non amarsi.

La storia di un solo anno della vita di due anime che sono state catturate dal destino e hanno deciso di non contrastarlo. La storia di chi ha deciso di giurare che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, avrebbe accettato il tempo come peggior nemico.

Nonostante il tempo tenti sempre di rendere mortale un sentimento che mortale non è.

Non in questa vita, almeno.

Voglio raccontare la storia di uomini che si sono salvati la vita a vicenda. La storia di sguardi, dita intrecciate, strette di mano. La storia di chi ha scalato montagne e ha affrontato le profondità degli oceani. La storia del modo in cui il sentimento più profondo si è fatto strada nel petto di due persone, senza lasciare scampo.

Ci sono modi infiniti per misurare lo scorrere del tempo, ma i protagonisti di questa vicenda non potranno permettersi un orologio. Quindi, come misurare un anno di vita?

Contando il numero di volte in cui il sole si affaccia sul mondo o quello in cui decide di ritirarsi? I chilometri percorsi da un viaggiatore, i caffè bevuti in una notte insonne, le lacrime versate da un cuore spezzato, i sorrisi di bambini che giocano, i tentativi di comporre una canzone?


Perché non farlo con il sentimento che cattura ognuno di noi?  Perché non farlo con la corda che legherà ancora una volta i protagonisti della storia che voglio fare nostra?

Perché non con l’amore?

 
 
 
 

 
Capitolo 1

New York era un vero casino.

Le palazzine erano un vero dramma, in particolare a sud della quattordicesima strada. Grigie di smog e fumo, la vernice era stata grattata via o imbrattata da scritte colorate con lo spray. I lampioni illuminavano ad intermittenza, lasciando che il loro alone arancione rimbalzasse da un marciapiede all’altro solo ogni tanto. Le strade erano asfaltate poco e male e Blaine Anderson inciampava ogni due passi.

Teneva le mani incastrate nelle tasche del cappotto grigio che aveva  barattato due anni prima con un paio di guanti di pelle trovati sul lavandino di un bagno pubblico. Li rimpiangeva ogni volta in cui perdeva sensibilità alle dita.

 Non era tardi ma il sole era già tramontato;  Blaine Anderson stava tornando a casa sperando di non imbattersi in un altro di quei Babbo Natale finti che non facevano altro che suonare campanelli di plastica ed augurare buon Natale con l’alito puzzolente di alcol.

Quel dicembre il freddo era diventato pungente all’improvviso.
Blaine si era ritrovato costretto a bruciare fogli e spartiti in bidoni di latta per riscaldarsi ed illuminare. Lungo la strada di casa i marciapiedi erano ricoperti da notifiche di sfratto che gli ricordarono quella appesa alla sua porta. Scrollò le spalle superandole: avrebbe seguito l’esempio dei suoi vicini e se ne sarebbe sbarazzato.

Immerso nei pensieri, superò un gruppo di uomini vestiti con giacche di pelle.

”Hei, amico!”

Blaine si girò verso di loro, inespressivo a causa di muscoli intorpiditi dal freddo. Il gruppo si mosse nella sua direzione, a capo il ragazzo che aveva parlato. Avrebbe potuto avere i suoi stessi vent’anni.

“Hai da accendere?”

Cercò di schiarirsi la voce. Sapeva di avere la trachea bloccata dalle parole che aveva evitato di spendere durante il giorno e dai pensieri che gli opprimevano il petto persino in quel momento. Si accorse troppo tardi di come i ragazzi gli furono improvvisamente troppo vicini.

Vide uno di loro estrarre le mani dalle tasche, le nocche pericolosamente rosse e callose, per sfregarsele con aria minacciosa.

”No,” gracchiò Blaine indietreggiando, “non fumo”.

Poi, in un solo attimo, fu a terra.

Tutto quello che poté vedere furono i visi duri dei suoi aggressori che gli piantavano calci nello stomaco e tentavano di sfilargli il cappotto di dosso. Qualcuno urlò in lontananza, forse intimano loro di smetterla, e Blaine tentò di fare lo stesso ma c’era davvero troppa distanza per capire chi stesse chiedendo aiuto o se ne stesse chiedendo.
Si aggrappò alla manica, raggomitolandosi su un lato con pazienza e rabbia.

I teppisti in quella New York erano un abitué: ragazzi senza niente da perdere che rubavano e, qualche volta, picchiavano.

Non uccidevano quasi mai e Blaine sapeva che non sarebbe stato quello il caso: se avessero voluto, avrebbero già tirato fuori i coltelli.

E lui avrebbe tirato fuori il suo.

Ebbe l’audacia di fare dono della sua saliva insanguinata a quello che gli teneva le braccia inchiodate alla strada fredda e indicibilmente sporca, guadagnandosi un cazzotto che gli fece cacciare sangue nero.

”Strappagli il dannato cappotto!”

Un altro pugno. Questa volta sputò il sangue che sgorgava da una gengiva graffiata.
Nonostante gli fischiassero entrambe le orecchie riuscì ad individuare l’arrivo di qualcun quando sentì dei passi battere nella direzione dell’agglomerato che si era formato.

Pregò un dio in cui non aveva mai creduto e lo pregò che fosse qualcuno con l’intenzione di aiutarlo.

La punta del coltello che nascondeva sotto i vestiti premeva pericolosamente sul suo addome.
Due ragazzi strattonarono ancora una volta il cappotto, questa volta strappando le cuciture della manica a cui Blaine era aggrappato. Corsero via non prima di avergli mollato un calcio in più all’altezza delle costole.

Qualcuno si affrettò nella sua direzione e, se solo avesse avuto la capacità di parlare senza sputare il Mar Rosso, si sarebbe ironicamente complimentato per la gran bella operazione di salvataggio.

”Oh cielo…”

Una voce incredibilmente acuta sovrastò con un sussurro il ronzio alle orecchie e lo prese per le spalle. Blaine teneva gli occhi aperti ma non diceva una parola, carico di rabbia ma impassibile di fronte all’aggressione ricevuta.

”Stai bene, tesoro?”

La voce lo mise a sedere, gli tenne la schiena cingendolo con il braccio sinistro e gli prese il viso con la mano libera, costringendolo a voltarsi verso la sua fonte.

Nel momento in cui lo vide, Blaine seppe che non l’avrebbe mai più dimenticato.

Due occhi azzurri – due immensi occhi azzurri – scrutavano le sue ferite. Un paio di labbra perfettamente idratate nonostante il freddo si muovevano al servizio di parole che non stava ascoltando.

E poi c’era quella voce. Dio, quella voce era come musica: l’incontro di diverse armonie che si fondevano in una traccia sola.

Blaine non credeva ai miracoli, ma quella voce doveva chiaramente esserlo.

Ciocche di capelli castani pettinati alla meglio ricadevano sulle tempie chiare, dell’uomo bellissimo che gli stava intimando di provare a rimettersi in piedi.

”Stai bene?” e, avendo finalmente colto una delle domande, Blaine cercò di mostrare un pizzico di enfasi nella risposta.

”Temo di sì” biascicò, tentando di rimettersi in piedi senza il suo aiuto.
Rovinò a terra a causa di un giramento di testa.

”Ti hanno preso soldi?”

Si distese nuovamente e completamente, decidendo di arrendersi ai dolori per un paio di minuti.

Gli occhi dello sconosciuto ricominciarono a scrutargli il volto alla ricerca di nuove ferite. Estrasse un pezzo di stoffa bianco ed iniziò a tamponargli le zone contuse.

”No, non ho soldi con me. Mi hanno preso il cappotto,” sorrise con sarcasmo, “ma pare ne abbiano dimenticato un pezzo qui”. Dovette soffocare un gemito quando fece per agitare il braccio ancora avvolto dalla manica grigia.

Lo sconosciuto – lo splendido sconosciuto ridacchiò e si passò una mano tra i capelli, guadagnandosi un grado di attenzione da parte di Blaine ancora maggiore.

”Andiamo, posso fasciarti le ginocchia. Pare ne abbiano un gran bisogno, purtroppo.”

Lottarono per rimetterlo in piedi e, quando furono di nuovo faccia a faccia, il ragazzo lo strinse in vita per tenerlo stabile.

”Sono Kurt,” sorrise e Blaine pensò che un angelo gli avesse appena rivelato il suo nome.

Quello sconosciuto aveva l’assurda capacità di farlo irrimediabilmente avvampare ad ogni parola. Balbettò il suo, di nome e Kurt iniziò a guidarlo nella direzione opposta a quella di casa sua. Nemmeno si chiese se fosse il caso di fidarsi di uno sconosciuto, semplicemente lo fece.

Si lasciò trasportare fino ad un nuovo quartiere, tristemente simile a quello di casa sua. Kut lo guidò verso le scale di una scala antincendio e gli intimò di aspettarlo lì. Salì le prime due rampe, sparì all’interno dell’edificio e tornò giù pochi minuti dopo, munito di cerotti e stoffa bagnata.

Blaine lasciò che gli tamponasse i tagli sulla faccia e il sangue che gli incrostava le labbra, beandosi della sua bellezza.

Notò la ruga che gli solcava la fronte quando aggrottava le sopracciglia e stringeva inconsciamente gli occhi. Chiuse i suoi, deliziato dal suo alito sulla pelle.

”Perché lo fai?”

Kurt continuò a lavorare sul livido che gli macchiava la fronte.

”E’ la vigilia di Natale, Blaine.”

Si sentì un po’ deluso. E così lo aveva salvato solo in nome dell’holy Jesus che sarebbe nato il giorno seguente? Niente colpo di fulmine? Niente coro di chierichetti che cantavano ogni volta che i loro sguardi si incontravano?

Cogliendolo pensieroso, continuò.

”Sei carino quando arrossisci.”




Note di regia:
Klaine. Rent. Klaine+Rent. Chi poteva mai essere l’ indegna ”autrice” di tale sacro accostamento?
Io, ovviamente.

Anyway! Ho finalmente trovato il coraggio di pubblicare una long. Ho una notevole paura di non concluderla (ma farò di tutto affinché non accada) visto che sono pronti solo i primi undici capitoli. Contavo di non superare i venti, vedremo cosa accadrà. Cercherò di aggiornare una volta a settimana!

Ps. Ho iniziato a scrivere questa fanfic la vigilia di Natale dello scorso anno. Il tema portante della trama è liberamente ispirato all’opera di Jonathan Larsson (Rent) e, visto che la canzone che ha ispirato tutto quello che fino ad ora ho scritto e quello che proverò a scrivere è diventata, per noi Gleeks in particolare, una specie di inno all’amore, vorrei dedicare questo testo a Cory Monteith, per quanto possa valere. E a tutti quelli che, ascoltando Seasons of Love, anche indipendentemente da quello che è successo, piangono. 




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