Seconda
al concorso “La memoria e il ricordo” indetto da
Izumi sul forum!
Partecipa
anche alla mia fissa per Myst che regna sovrana in qualunque cosa io
dica, scriva o faccia in questi mesi. :3 Yay.
Scritta
a metà Exile, prima dei libri e di... beh. Del resto.
Conscia
vieppiù in allora della mia pochezza (leastness, dicono
altrove), ho
cercato di non imbucarmi in trame che potessero condurre ad errori
cruciali di 'gniuranza nera. Quelli, per l'appunto, dovrebbero essere
assenti. Non immaginavo invece una tal perizia nei dettagli di quel
che sarebbe seguito e... nonostante una prima ripulita post-libri
c'è
ancora qualche svista qua e là, temo (tipo una grossa in
fondo). Sto
rivedendo le introduzioni e le note di tutte le fanfiction, finito di
aggiornarmi sui fatti tramite EoA riguarderò anche gli
scritti una
volta per tutte. D'altronde, se la fine fosse stata scritta che
staremmo qui a fa'?
Disclaimer:
Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare
rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte
né
offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da
intendersi come tributo di affettuosa stima.
Ai tre bordi rossi
della spaccatura
Riven:
v. lacerato, spaccato, squarciato; (fig.) straziato,
diviso.
C'era una volta, rinchiuso
in una caverna in un'isola remota di un impero sotterraneo in rovina,
un uomo che scriveva.
Un tempo inventava mondi - forse si limitava
a scoprirli. Scienziato, esploratore, artista, in quelle creazioni
riversava tutto l'entusiasmo che aveva imparato a provare per
l'esistenza in ogni suo aspetto e in questo celebrava a suo
modo l'eredità del suo popolo, che ricadeva unicamente sulle
sue
spalle. Da quando è stato condotto lì, ha dovuto
concentrare ogni
sforzo per evitare che una singola Era, su migliaia, si arrendesse
alla distruzione.
Il suo nome era Atrus.
E scriveva.
Scriveva.
Secondo regole
antiche, adattate dall'uso, dall'estro e dalla necessità,
soppesava
ogni parola prima di aggiungerla al libro, il quinto scritto da suo
padre Gehn: un numero potente e saldo che tuttavia non bastò
a
salvarlo dal decadimento che accomuna tutte le opere di quell'uomo
corrotto. Il mondo che descriveva stava morendo. Da vene di magma
come ferite vive sulla terra alle foglie malate degli alberi, tutto
poteva e doveva venir salvato da una penna instancabile, anche se la
mano che la reggeva era ormai giunta al limite.
Continuava, da
mesi ormai, per pura forza di volontà, diviso fra le poche
parole
scelte dell'Arte, altre con cui fermava su carta, in infiniti diari,
i progetti disperati per le prime, e quelle infine non scritte,
più
numerose ancora, che affollavano i suoi pensieri.
Non sempre riusciva, in
questo flusso di parole, a ritrovare il senso di tutta la sua opera:
scriveva il mare senza ricordarne il suono, dava vita a un villaggio
su cui a stento si rivedeva camminare, in gioventù, quando
aveva
appena trovato la forza di staccarsi dal padre.
Certi giorni apriva il
libro con particolare nostalgia, alla prima pagina, lasciando che la
sua mano aleggiasse per qualche istante sull'immagine porta.
Non l'avrebbe toccata: era
una tentazione che conosceva bene, in ogni suo aspetto,
perché
l'aveva studiata, accettata, elaborata e infine l'orrore delle
conseguenze cui avrebbe portato le aveva fatto perdere per sempre
ogni attrattiva ai suoi occhi. Se si fosse collegato al luogo che
mostrava, anche per un giorno soltanto, atteggiandosi come l'eroe che
non era, nessuno sarebbe stato al suo posto per impedirgli di
dissolversi per sempre. Si limitava a desiderarla, con tutta
l'intensità di un amore lontano ma col cuore leggero per la
scelta
giusta.
La mano finiva così,
senza troppo esitare, a sistemare gli occhiali sul naso o a
tormentare la corta barba. Ma Atrus non riusciva a distogliere gli
occhi dal susseguirsi di figure, pur se incomplete, sfuocate o in
altro modo corrotte: le sole che quel libro morente potesse
trasmettere. Assetato di libertà, aveva bisogno di quelle
immagini
e, cedendo brevemente alla stanchezza, vi si abbandonava.
C'era ancora molto azzurro
nell'Era, il colore dominava trionfante su qualunque scorcio
l'Immagine porta decidesse di mostrare. Era l'azzurro del cielo
d'estate che si rispecchia nel mare, ben lontano dalla volta nera che
regnava a lutto su D'ni.
L'Era di Riven, come Atrus
amava chiamarla secondo l'uso – bizzarramente profetico
– dei
suoi abitanti, traeva energia dalle sue tinte vibranti, che la
costituivano non meno della terra e dell'aria stesse. Finché
fosse
riuscito a vedere quell'azzurro e a ricordarsi di com'è
fatta
un'assolata giornata estiva, la sua speranza di riuscire un giorno a
tornare in quel mondo sarebbe rimasta salda.
La vegetazione che si
mostrava, a sprazzi, fra il cielo e la costa rocciosa aveva sempre il
potere di rasserenarlo. Spesso, quando riusciva a concedersi un
riposo, nei suoi sogni appariva ancora il Grande Albero, che
lì
finiva per confondersi con l'incredibile vista di Channelwood o
raccoglieva in sé tutta la vita rimasta in un'altra Era del
suo
passato, tutta vento e rocce e metallo, di cui faticava perfino a
ricordarsi il nome... La sua sagoma maestosa, però, si
celava ormai
da molto al suo sguardo e il pensiero che la sua Arte potesse essere
stata insufficiente a salvarlo era quasi intollerabile. Riscriverlo
altrove non sarebbe mai stato lo stesso. Poteva solo sperare che i
moti che avevano spaccato l'isola lo avessero solo allontanato dalla
sua visuale e che si ergesse ancora, da qualche parte nell'oceano.
In un altro tempo (giunti
a questo punto, forse in un'altra vita), ad Atrus sarebbe piaciuto
gettarsi alle spalle tutti gli obblighi che erano l'eredità
più
gravosa che sua nonna, la sua riverita maestra, gli aveva lasciato,
per poter infine seguire la sua indole più gentile. Avrebbe
scritto
allora un'Era verde, non dissimile dalla Myst dei suoi anni felici,
dove...
A questo punto i suoi
pensieri, immancabilmente, si interrompevano. Troppo dolorosi.
A volte vedeva cose che
non capiva: strane forme, colori alieni. Oro. Guizzi metallici
attraverso gli stretti. Visioni che lo atterrivano, ma cui non poteva
prestare attenzione.
“Occupati, non
pre-occuparti”, era solita ripetergli Anna e, per il suo
bene, non
aveva altra scelta che attenersi a quell'insegnamento. Non poteva
forzare Gehn in una gabbia più ristretta di un'intera Era.
A volte gli pareva di
scorgere una macchia rosso cupo.
Con
un sussulto, provava a seguirla con lo sguardo, ma quella si perdeva
subito nell'immagine instabile del libro – voleva pensare che
fosse
fuggita nascondendosi al suo sguardo, anche se in verità
sapeva che,
di per sé, la piccola chiazza non provava nulla,
perché poteva
essere un cespuglio fiorito come uno dei tanti edifici con cui, di
certo, suo padre stava sgraziatamente ricoprendo l'Era. Una chiazza
di sangue. Lo squarcio di un tramonto fra gli scogli.
Il
suo cuore, però, sperava ancora. Immaginava in quella
macchia una
donna Rivenese, con una massa di capelli neri a incorniciare
lineamenti che sembravano scolpiti nella roccia dell'isola. La
immaginava avvolta in una lunga veste rossa, la sua preferita; la
immaginava camminare libera sulle coste della sua terra natia. Era
l'unico modo che gli era rimasto per sopportare l'idea che sua moglie
fosse prigioniera da mesi, in mezzo al pericolo, e lui non potesse
accorrere al suo fianco.
Riven non poteva morire: era
ingiusto e contro natura. Ma Gehn aveva scritto oltre duecento Ere e
su più d'una si era sviluppata una civiltà
condannata sin dalla
nascita. Le sue stesse creazioni, da quando era stato portato su D'ni
con l'inganno, erano state condotte alla rovina da mani avide. Il
potere di un singolo uomo, anche quello dell'ultimo discendente dei
D'ni, non poteva essere sufficiente a porre rimedio a tutto: se Atrus
aveva scelto di legare la sua vita alla salvezza della Quinta Era,
fra tutte, era unicamente per Catherine.
Avrebbe
voluto avere tempo di chiarire la questione con la sua coscienza
(aveva l’impressione che ne sarebbe uscito sconfitto.
D’altronde,
era solo un uomo), ma non era un lusso che potesse permettersi e
certo non gli sarebbe servito una volta fatta la sua scelta. Non che
volesse tornare indietro, ma farlo a quel punto sarebbe stato
doppiamente insensato.
All’inizio
aveva impiegato quel poco di tempo che riusciva a togliere a cibo e
sonno per curare un breve diario, fra i tanti, scritto però
solamente con parole comuni da innamorato. Poco alla volta cercava di
ricostruire ogni dettaglio di Catherine, stupendosi di quanto
l’insieme riuscisse a superare, ogni volta, la somma delle
parti.
Pur vedendo sconfitto il fine ultimo di tale operazione, quel
quadernetto mal rilegato restava il suo secondo più grande
tesoro lì
dentro.
Quando aveva iniziato a provare il desiderio di mischiare altre
parole alle semplici descrizioni si era fermato di colpo. Era stato
solo un pensiero. Un’idea infondata, sciocca. Ma era qualcosa
che
Gehn avrebbe fatto e Atrus non era certo di poter sopportare di
vedersi così simile a suo padre.
Da
allora si era limitato ai ricordi.
Un
ricordo rosso, nella fattispecie, cioè la prima immagine che
lo
assaliva quando il caso voleva che una piccola macchia rossa si
mostrasse dalle pagine del libro. Risaliva agli anni delle sue
esplorazioni attraverso le Ere; per la precisione alla fine di ognuna
di esse, quando era giunto il momento di tornare verso casa. Quando
apriva il libro che l’avrebbe riportato a Myst sorrideva e si
preparava ad affrontare gli attimi di buio del Legame con
serenità,
perché sapeva che, immancabilmente, la prima cosa che
avrebbe visto
sarebbe stata la splendida figura dormiente di Catherine avvolta nel
rosso. Dopo averla ammirata da lontano la svegliava con un bacio in
fronte, lieve per quanto ne era capace, sussurrando il suo nome. Non
aveva memoria di momenti più belli nella sua vita, che pure
ne aveva
visti molti, ed era tentato di tornare ogni giorno per salutarla
così, anche per un attimo soltanto. Quando veniva sorpreso
da un
bacio di ritorno, quando era sicuro che fosse sveglia, la aiutava ad
alzarsi e insieme uscivano all’aria aperta, discorrendo
serenamente
dei fatti piccoli e grandi dei giorni trascorsi lontano.
Atrus
voleva arrivare a vedere un giorno in cui avrebbe potuto toccare
l’Immagine porta per venire accolto da un abbraccio rosso.
Poteva
ancora sentire la stoffa della veste di lei sotto le sue mani, ma
presto l’illusione finiva e tornava a essere solo carta.
***
C'era una volta, in un
albero in mezzo a un lago che era anche la grande casa di un popolo
in esilio, una donna che sognava.
Un tempo era stata
straniera in patria: orfana spirituale in un grembo Rivenese, come si
era definita. Poteva avere amici come tutti, un padre e una casa, ma
sentiva che il suo posto nel mondo era altrove. Forse oltre i confini
del mondo stesso. Allora guardava fuori dalla finestra, la notte, e
cercava lì il suo futuro.
“Eti, cosa c'è oltre le
stelle?”, chiedeva. Ma la compagna di giochi non sapeva
risponderle.
Oltre c'era tutto.
Scoprirlo dapprima la marchiò, ma tramite quello
trovò il suo posto
e la sua felicità. Prese Atrus per mano e si fece condurre
via da
lì; al suo fianco scoprì le Ere e ne scrisse a
sua volta, donando
loro un equilibrio istintivo che la guidò nel trovare il
suo. La
parte di lei che viveva su Myst assieme all'uomo che amava non
avrebbe saputo dire gioia maggiore dell'assisterlo nelle sue scoperte
o attenderlo la sera sulla porta di casa – proprio lei che in
gioventù era stata così fieramente indipendente e
che ora sorrideva
nel riflettere sul proprio cambiamento e non vedervi contraddizioni.
Testa, cuore e libera scelta erano sempre stati a guida delle sue
azioni, prima e dopo.
Non aveva più amici,
però, né un padre. Aveva lasciato un'ombra su
Riven che continuava
a chiamarla.
Rispose al richiamo anni
dopo, subendo il più bieco dei tradimenti, quello dei suoi
stessi
figli. Quando anche si fu accorta dell'inganno e seppe di essere
rimasta intrappolata per sempre su Riven, diventata da anni una
prigione senza uscita, assieme al peggiore dei loro nemici, per un
attimo ne fu felice. Dovette rendersi conto che, da disadattata qual
era stata, era tornata al suo popolo come inarrivabile dea per
tornare a sentire il muro invisibile che era stato l'unica costante
dei suoi giorni.
Per chi ha vissuto tre
vite, ognuna da estranea, il sogno è un'ancora potente.
Il suo nome era Katran –
Catherine, secondo una testarda pronuncia straniera cui negli anni si
era affezionata al punto da farla sua.
E sognava.
Sognava.
Non sogni di pace: quelli
sarebbero venuti in seguito, sperava, quando la nuova casa dei suoi
Moiety fosse stata veramente sicura. In quei giorni, Catherine era
ancora divisa fra speranze, doveri e mezzi successi e i suoi sogni
erano tutto ciò che la teneva ancora insieme, indicandole la
direzione.
Si sognava in fredde vesti
D'ni, che riuscivano a dare un pallore mortale anche alla sua
carnagione scura, intenta a impartire ordini a schiere di sottoposti
suddivisi secondo le logiche del Cinque. Allora si svegliava di
soprassalto, Nelah la sentiva dalla stanza vicina e si premurava di
portarle dell'acqua e chiederle se potesse fare qualcosa per
alleviare le sue pene. Catherine la lasciava tornare a dormire
scusandosi per il disturbo, ma così facendo restava sola e
lucida a
riflettere sui significati del sogno: i rischi del comando,
sì, ma
anche la sua inevitabilità. Che lo si volesse chiamare
'destino' o
no, il suo ruolo di capo dei ribelli era stato scritto fin dal suo
ritorno a Riven. Tornando a cullarsi nel dormiveglia, poteva vederlo
come un sentiero dietro di sé che avrebbe percorso anche da
sola e
senza aiuti. Gehn era un despota sostenuto da un'ampia – per
quanto, Catherine ne era sempre più convinta, falsata
– conoscenza
dell'Arte. Gli isolani da soli non sarebbero mai riusciti a opporsi a
lui per poter vivere in pace né, allargando gli orizzonti,
per
impedirgli di spezzare, un giorno, le sbarre della gabbia in cui da
trent'anni era rinchiuso. Lei sì. Ed era lieta di assumersi
un ruolo
che per Atrus sarebbe stato troppo personale e gravoso, l'avrebbe
fatto anche se non vi fosse stata spinta dalle superstizioni della
sua gente. Anche se le stava togliendo la sua vita. Col cuore
pesante, tornava a dormire.
Sognava di essere lei
stessa Riven e di andare incontro a un analogo fato. Era spezzata,
morente, i suoi arti non le rispondevano più. Sul braccio
destro,
quello con cui scriveva, gravava l'opera di Gehn, come il centro di
un'infezione che si diramava in tutto il suo corpo. Col sinistro
vedeva: con quella mano, infatti, riceveva i dispacci delle spie
ribelli in tutte le isole e tramite le loro parole le sembrava di
conoscerne nuovamente ogni angolo. Vedeva con la mano,
perché la
testa era lontana, forse tagliata. Con la gamba destra era
già nel
dominio privato dell'usurpatore; con la sinistra si attardava ancora
nella sua vecchia casa. Prima o poi si sarebbe rotta del tutto.
Sognava di essere
rinchiusa per sempre su una torre in mezzo a un lago che poi era un
albero che era un'Era. L'avevano costruita solo per lei e non poteva
rifiutarsi di entrarvi. Certe volte ricordava di essere stata lei ad
ordinarne la costruzione. Appena sentiva la porta chiudersi dietro di
sé si svegliava, madida di sudore. Guardava fuori dalla
finestra e
vedeva una torre, che poi era un albero, che era un'Era: Tay, l'Era
brulla rubata a Gehn, riscritta da Catherine a immagine e somiglianza
del Grande Albero che avevano perso, da lei donata al suo popolo
perché potesse vivere finalmente libero e sicuro, sotto il
cielo
aperto, senza più timori. Quando avessero distrutto l'unico
Libro di
collegamento che da Riven conduceva fin lì sarebbero stati
protetti
per sempre, senza la possibilità che visitatori indesiderati
arrivassero al loro rifugio. O se ne andassero.
Presto la porta si sarebbe
chiusa davvero e sarebbe rimasta lì per tutto il resto della
sua
vita. Era la scelta giusta, ma Catherine esitava.
Non raccontava a nessuno
dei suoi sogni. Nessuno le era abbastanza vicino da poter accogliere
simili confidenze.
Agli inizi pensava che
provare a seguire gli usi dei ribelli l'avrebbe aiutata a integrarsi,
anche se in veste di loro capo e mai di uguale. In molti aspetti
l'intuizione si era rivelata felice, che si trattasse di maneggiare
il piccolo pugnale simbolico o uscire in superficie paludati come
spiriti. Vedere la sua amata isola esalare gli ultimi respiri
continuava a provocarle un dolore intenso come il veleno dell'ytram,
ma l'euforia del momento spesso scacciava ogni altra sensazione.
Quando si trattava di aspetti più strettamente religiosi,
però,
aveva presto imparato che l'adorazione dei Moiety aveva l'unico
risultato di opprimerla. Il fondamento stesso del loro credo era un
punto su cui avrebbe preferito soffermarsi il meno possibile, eppure
le sembrava che nelle sere di festa non inscenassero altro, mese dopo
mese. Ogni volta era costretta dal suo status ad osservare il padre
di Atrus, quel Gehn che continuavano a combattere, mostrarsi come
falso dio e saccheggiare impunito la bella Riven prima di venir
affrontato e sconfitto da un'irriconoscibile versione di se stessa e
di suo marito in un'eroica battaglia che culminava col sacrificio di
entrambi nella Fessura Stellata che dava il nome ad Allatwan. Il suo
ritorno sull'isola dalle 'terre oltre la morte' non era dunque che la
prova definitiva, secondo i più osservanti fra i Moiety, del
suo
status divino (a parte tutto, non era mai scesa a patti col termine
“dio”: la disgustava quando applicato a Gehn o a se
stessa, su
Atrus invece suonava semplicemente buffo). Pur rimproverandosi una
qual certa mancanza di serietà, Catherine raramente riusciva
a
nascondere un sorriso nel vedere Gehn così grottescamente
trasfigurato da un costume che non doveva lasciare dubbi sul suo
malefico ruolo nella storia. Al contrario, però,
s'irrigidiva nel
vedere quello che un'adorazione primitiva aveva fatto del rapporto
fra lei e Atrus. Non si poteva certo dire offensivo, anzi. Forse, se
fosse stata più serena, sarebbe riuscita ad apprezzare lo
sforzo
d'immaginazione invece di rigettarlo. Ma la visione idealizzata che
danzava sotto i suoi occhi non aveva più nulla di personale
o di
umano e... e l'umanità e le piccole cose erano tutto quello
che più
amava in Atrus. Strappargliele nascondendolo dietro una maschera
eroica era la peggior perversione che si potesse compiere verso il
suo ricordo di lui. E Catherine non era certa di sapere come
comportarsi nei confronti di un ricordo vuoto. A volte, quando il
nulla la prendeva, i suoi ricordi si svuotavano e le restavano solo i
sogni e nel panico non sapeva cosa fare, ma fino a quel momento erano
sempre tornati tutti dopo un po', chissà perché
si erano
allontanati. In quel caso, invece, i giorni del suo passato con Atrus
sarebbero morti senza possibilità di scampo.
Amareggiata, osservava la
recita quanto più possibile in disparte, lasciando che le
fiamme
delle torce la proteggessero da quella versione deviata della
realtà.
Il velo rosso era il suo scudo: quando la situazione glielo
permetteva osservava le lingue di fuoco guizzare e divorare le
immagini su cui si soffermavano. Era una buona difesa, ma non un
pensiero piacevole, e l'associazione di immagini stava corrompendo
qualunque fuoco su cui posasse gli occhi. Finiva per sovraimporre
l'odiata recita alla fiamma, oltre che il contrario. La soluzione
migliore che trovò fu, in fondo, abbastanza simile a quello
che si
era abituata a fare negli anni: una riscrittura. Non voleva arrendere
il pensiero del fuoco e, per esteso, del rosso che tanto amava, alla
tristezza. Iniziò allora a pensare, durante quegli
spettacoli, al
contrario esatto di quello che le stavano presentando, cioè
al più
piccolo e insignificante dei suoi ricordi – un ricordo rosso.
Un tempo, prima che Atrus
decidesse di farne un altro 'luogo di protezione' per i suoi libri
(ne aveva riso, allora,
da stolta),
c'era un fuoco sempre acceso nel caminetto della loro biblioteca su
Myst. Quando calava la sera, Catherine amava sedersi in quella sala,
vicino agli scaffali ricolmi di diari, e lasciare che i suoi pensieri
si confondessero col caldo rassicurante della legna che ardeva. Amava
anche sonnecchiare così seduta, lasciandosene cullare, ma il
momento
che preferiva era quello in cui il rosso scompariva dalla sua vista,
oscurato da una sagoma familiare: Atrus si era finalmente Collegato a
casa dopo l'esplorazione di un'Era lontana e li attendeva qualche
giorno di comune gioia. Lei fingeva di continuare a dormire, lui si
avvicinava e la baciava sulla fronte sussurrando il suo nome. Subito
seguito dalle prime avvisaglie della piena di parole con cui
l'avrebbe investita nel tentare di comunicarle tutte le scoperte e le
meraviglie in cui si era imbattuto e che le avrebbe tanto, tanto
voluto mostrare di persona se solo avesse vinto la sua ritrosia
nell'usare i Libri e... e...
Sì, annuiva la stanca dea
che regnava su Tay, mentre le maschere le mostravano un guerriero
senza macchia e senza paura: quello era il suo
fuoco e quello
era suo marito.
Col tempo, le sue memorie
di Myst erano diventate rosse e impalpabili come la fiamma. Come con
quella, Catherine faceva del suo meglio per tenerle vive.
***
Hanno continuato a
combattere. Lei contro un mondo intero, lui contro se stesso,
avversario ugualmente temibile, e l'hanno fatto perché non
potevano
sopportare la prospettiva di vivere i loro giorni con un altro
ricordo rosso.
Gli incubi di Catherine le
mostrano ancor oggi nuove vesti tinte di rosso: quello del sangue di
suo marito, se avesse lasciato modo a Gehn di scriversi una strada
verso D'ni e provare dinnanzi alle Ere tutte che lui, l'ultimo vero
erede di quella grandiosa civiltà, non aveva più
figli. Catherine
non avrebbe assistito alle poche parole che si sarebbero scambiati
né
sentito il colpo di fucile che ne avrebbe sancito la fine, ma
l'immagine, che al suo pensiero veniva fin troppo semplice ricreare,
non l'avrebbe più lasciata.
Ad Atrus, che non aveva
tempo nemmeno per un incubo, bastava invece alzare gli occhi con
timore verso l'Immagine porta per vederla vittima di un fallimento
che tutti i suoi sforzi non potevano che rimandare. Quando infine
avesse sbagliato qualcosa, e prima o poi sarebbe certo accaduto, non
sarebbe mai più esistita Catherine né Eti
né Enant e neanche il
richiamo profondo del wahrk o la quiete del villaggio all'alba. Solo
un'ultima fiammata di un rosso vivo a celebrare, sotto il suo
sguardo impotente, la distruzione di tutto ciò che di caro
gli era
rimasto in infiniti mondi.
Così attendevano una fine
che, come entrambi ebbero a dire, non era ancora stata scritta. E
quando giunse resistevano ancora e vinsero, grazie al più
inaspettato degli aiuti. Poi fu un nuovo inizio e un altro ancora, ma
questa è un'altra storia, una lunga storia di ricostruzione
che
avrebbe posto le basi per una nuova era.
***
Qui, tutto quello che un
libro può aspirare a contenere è un accorto
accostamento di parole,
che evochi nel lettore riflessioni e l'impressione di mondi lontani o
vicini, e non c'è strumento più miracoloso di una
tastiera
collegata a un computer. Da semplice scribacchina del Web, dunque, la
mia vita non potrebbe essere più lontana dall'Arte e dai
suoi ultimi
eredi. Conobbi però le storie che vi ho riportato dalla
bocca di chi
le ebbe vissute, raccontatemi nella tranquillità che
seguì quei
giorni. E, nel sentire l'affetto con cui tratteggiavano quell'unico
ricordo comune alla base della spaccatura che aveva diviso le loro
vite, la mia mente tornava sull'Isola di Myst, in un tempo
antecedente il nostro primo incontro. In allora, io stessa mi ero
trovata a camminare su quell'Era tanto amata quanto ormai morta,
cercando di capire che forze mi avessero condotta lì e come
tornare
indietro. Mi parve ascoltandoli che a volte, la sera, quando mi era
capitato di attardarmi presso il piccolo bosco in cerca di indizi, un
manto rosso si fosse mostrato al limite del mio sguardo e che, una
volta almeno, avessi visto con chiarezza due figure passeggiare fra
gli alberi, mano nella mano.
Ma certo era la memoria
che giocava strani scherzi.
Nerdaggine & credits:
@ titolo: Spaccato nel
senso di traduzione italiana di 'riven'. Nella sua accezione
figurata, il termine significa anche tormentato (di animo). Il
riferimento è agli eventi pre-Myst che portano alla
situazione
descritta. I bordi sono, metaforicamente, il punto di vista dei
personaggi su quegli eventi. Sono rossi perché il ricordo
che li
lega è rosso e sono tre perché (due era troppo
scontato e) c'è
dentro anche lo Straniero, ecché.
@ sogno di Katran: a ogni
arto corrisponde effettivamente una delle cinque isole con le sue
caratteristiche principali: in ordine, Dome Island con la cupola che
dà energia ai Libri; Survey Island con tutte le telecamere e
le
estrusioni olografiche; Prison Island col tronco tagliato del Grande
Albero, lontana; Book Assembly Island con lo studio di Gehn; Jungle
Island unica ancora abitata dagli isolani.
@ “altra Era” citata
oltre a Channelwood: Selenitic. Quella verde, nelle intenzioni,
è
Tomahna. Perché ha, uhm, tante serre. Ed è
un'Era, come tutti sanno
:facepalm: Metà Exile, gente, abbiate pietà...
@ definizione di Katran
come sognatrice: senza trucco e senza inganno siore e siori, scelta
più o meno a casaccio prima di realMyst, prima dei libri,
prima di
staceppa. Feeling so speshul right now. La pazzia (tu quoque, donna?)
accennata nel diario di Riven però s'ha da approfondire, e
non solo
con Carta Straccia.
@autocitazione scandalosa
da una vecchissima fanfiction su zelda: ma ma ma! Al tempo descrissi
Riven (e Tay, nondimeno) quasi senza saperlo, citare quel primo
tentativo parlando di Riven (e di Tay, nondimeno!) mi pareva
doveroso. Spero non stoni.
@ Tay riscritta a immagine
del Grande Albero: a quanto ne so, è un'ipotesi di Riven
Illuminated. Ottimo sito, per inciso, consiglio una visita a tutti i
curiosi.
@ nuovi inizi: pur con la
cronica mancanza di finali scritti che tanto amiamo, di nuovi inizi
ce n'è a iosa, prego sceglierne due secondo gusto personale.
Uno è
Yeesha, dai. L'altro... diciamo Releeshahn?
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