Talvolta,
di notte, stavano seduti sul parapetto del balcone dell'appartamento di
Misato, a parlare del più e del meno, e a ricordare a sé
stessi che esisteva un mondo, al di là dei confini
inevitabilmente imposti dall'essere l'unica speranza del genere umano.
Non ricordava quando esattamente avesse iniziato a farlo, ma era
contento che fosse successo, lui, che bramava più d'ogni altra
cosa il contatto umano, che più d'ogni altra cosa gli era
negato.
Lei si svegliava nel cuore della notte, quando gli incubi - immaginava
lui - diventavano più intensi e vividi, e camminava in punta di
piedi verso la sua stanza. Lui la sentiva quasi sempre arrivare e si
svegliava prima che lei aprisse la porta, ma fingeva comunque di
dormire. Adorava il modo in
cui lo svegliava; gli piacevano le sue mani sul suo viso, tra i suoi
capelli, e la sua voce quando gli sussurrava di aprire gli occhi. Era
una voce diversa, che solo a lui concedeva di udire. Lo capiva, e
custodiva ogni parola gelosamente, come si custodisce un regalo piccolo
ma prezioso, nascondendole alle orecchie del resto del mondo; il resto
del mondo poteva guardare i suoi occhi, i suoi capelli, ma quelle
parole erano sue, erano l'unica parte di lei che gli appartenessero
totalmente, e non era disposto a condividerle con nessuno. "Sono l'unico", pensava, "l'unico che possa apprezzarle".
Lui apriva gli occhi e la guardava guardarlo. 'Ciao', le diceva. Lei si
attaccava alla manica destra del suo pigiama e tirava appena. Tanto
bastava a farlo alzare dal letto e seguirla.
« Ti manca mai tua madre? », le domandò una notte.
Lei lo guardò, sconvolta, e gli diede uno schiaffo. Lui
riportò immediatamente lo sguardo su di lei, ma prima ancora
afferrò d'istinto il polso della mano che l'aveva colpito.
Lei sogghignò.
« Cosa mai vorresti fare, sciocco? ». Lui si strinse nelle
spalle ed alzò lo sguardo al cielo. C'era troppa luce e di
stelle non ce n'erano. Lasciò la presa.
« Avevo paura che cadessi », fece, e fu contento di averlo detto.
« Tu lo senti, non è così? Senti che ho -
», iniziò a dire, ma le parole le si strozzarono in gola -
insieme a chissà quante altre che non era mai riuscita a dire,
pensò lui. Ma non questa volta: questa volta, le parole vollero
uscire dalla prigione in cui deliberatamente si lasciavano rinchiudere.
« Che ho paura di morire. Non voglio morire, io non - ».
Lui alzò la mano e l'avvicinò rapidamente al suo volto,
imitando il suo gesto. Lei serrò gli occhi, ma lui
l'accarezzò semplicemente. Al suo tocco gentile e vagamente
timoroso - educato, avrebbe detto - li riaprì.
« La paura di morire serve a ricordarti che sei ancora viva. Tu
mi conosci. Sai che ne ho anch'io. ». Fece per togliere la mano,
ma lei ci posò sopra la sua e la spinse delicatamente contro la
propria guancia.
« Io ti conosco, Shinji? ». Il suo nome tra le labbra di lei - ed era il suo vero
nome, senza alcun insulto, senza alcuna nota di disprezzo - gli fece
tremare le mani, e d'improvviso fu come essere sveglio, infine, come se
la sua vita non fosse stata che un preludio a quel momento.
« Più di chiunque altro al mondo. », rispose.
Ed era vero.