Portagioie di tristezza | 1
Avvertenze
| Se odiate a priori ogni fanfiction in cui il tizio famoso si
innamora di una ragazza appena conosciuta che ha alcuni tratti in
comune con l'autrice, chiudete subito la pagina e andate a leggere
qualcosa di serio. Se invece, in fondo, siete persone a cui sognare
non dispiace, potete continuare a leggere. Probabilmente la storia
non vi piacerà per altri motivi, e quindi la lascerete perdere
comunque. Per quei pochi coraggiosi che la seguiranno per intero (e
mi sento di porre DadaOttantotto
in cima a quella che immagino sarà una lista molto magra)... grazie,
e buona fortuna.
Disclaimer
| Non possiedo nulla dei 30 Seconds to Mars – né i membri, né
l'inventiva, né il talento... ho solo i loro CD – e tutto ciò che
leggerete è frutto della mia immaginazione e della mia inguaribile
anima romantica.
Note
dell'autrice | Gli eventi reali sono stati leggermente modificati; in
particolare, invece di far partire subito la band per un'altra data,
ho deciso di trattenerli per un po' a Milano.
Portagioie
di tristezza1
Capitolo primo
Ho pensato a tutto ciò
che volevo essere,
ho pensato a tutto, a
me,
a te e a me.2
Mediolanum Forum
(Assago), 02 novembre 2013
Contrariamente a quanto
pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga &
rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci
sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita
di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a
casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché
vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. E
questo è esattamente quello che vorrei fare in questo momento,
invece di starmene seduto a sorridere a persone che non conosco e che
non mi conoscono, ma che hanno pagato per vederci qui stasera e che
ci stanno spiegando, in un inglese maccheronico peggiorato
dall'emozione di trovarsi di fronte a noi, che hanno viaggiato anche
per ventiquattro ore pur di sentirci, vederci e poterci parlare. «You
know, your music saved my life»
è quello che sentiamo dire più spesso, e ogni volta vorrei alzarmi
in piedi, rovesciare questo tavolo e dir loro che non è la nostra
musica ad aver salvato la loro vita, ma l'idea stessa di musica, la
musica in generale, la musica in sé: sarebbe potuto essere qualsiasi
gruppo a risvegliare in loro la gioia, non è merito nostro. E invece
taccio, e continuo ad ascoltare complimenti e firmare copie del
nostro ultimo cd.
Mi chiamo Shannon Leto, ho
quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto. Alla
mia destra, mio fratello continua a dispensare sorrisi e a
ringraziare tutti, mentre Tomo, poco più in là, tenta in ogni modo
di non cedere alla stanchezza e di continuare mostrarsi gentile e
accomodante. Un po' mi sento in colpa, a dire il vero: è stato Jared
a reggere la scena ininterrottamente per due ore e mezza, eppure
quello sfinito sono io. Non so come spiegarlo: non è stanchezza
fisica, siamo abituati a provare anche per sei o sette ore al
giorno... è più un senso di stanchezza mentale, come se la tensione
accumulata prima dell'evento si dissolvesse all'improvviso,
scivolando via come acqua su una superficie liscia. Alla fine di ogni
concerto mi sento come esaurito, come... come una pila scarica. Ecco
la definizione giusta: mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e
mezzo e sono una pila esaurita. Tuttavia, decido di resistere: in
fondo, questa piccola folla merita di vedere premiata la propria
costanza, perciò merita tutta la mia attenzione.
Alzo gli occhi sulla fila
che si va via via riducendo, e un istante dopo vorrei non averlo
fatto, o comunque vorrei essere stato adeguatamente preparato: lo
sguardo che incontro alzando la testa mi inchioda al pavimento,
totalmente privo di timidezza o soggezione, come se non fossimo altro
che un gruppo di vecchi amici. La cosa che più mi affascina, però –
e che al contempo mi terrorizza –, è che quegli occhi azzurri non
solo non hanno paura di fissare i miei, ma sembra che mi stiano
leggendo dentro. Improvvisamente mi sento in imbarazzo, come se mi
fossi appena svegliato da un lungo sonno e mi fossi scoperto nudo al
centro di Times Square all'ora di punta – non dovrei sentirmi in
imbarazzo, io sono uno che si esibisce davanti a migliaia di persone
e convive con la fama da dieci anni, eppure... eppure quello sguardo
sa spogliarmi di ogni sicurezza, sa privarmi di ogni difesa. Perciò
sorrido, abbasso di nuovo la testa e lentamente scrivo il mio nome
sul cd che Jared mi ha appena fatto scivolare sotto il naso. Sto
cercando di raccogliere le energie per alzare di nuovo gli occhi,
quando una voce rompe quel pesante silenzio: «Dà uno strano senso
di pace, vero? Realizzare i propri sogni, intendo».
Jared sta per rispondere,
ma io, come se sentissi che quella frase è stata detta apposta per
me, lo precedo: «Non sono mai in pace. C'è sempre un sogno più
grande dietro il prossimo angolo.»
La ragazza allunga la mano
per prendere il suo cd, piegando un angolo della bocca in un sorriso
enigmatico. «Forse è questo che ci mantiene vivi» sussurra.
«Grazie a tutti» aggiunge, voltandosi per andarsene. Solo in quel
momento noto la maglietta che indossa, bianca e decorata manualmente
con i glyphics, la triad e la data di questo concerto –
e solo quando è qualche passo più in là mi accorgo del sangue
finto e del trucco rosso che le coprivano faccia, collo, braccia e
vestiti. Ed è allora che sorrido, sentendomi un vero idiota, perché
quella ragazza sembra aver capito della vita molto più di quanto
abbia capito io.
Concluso l'incontro con i
fans, tutti e tre ci alziamo, e con sommo disprezzo noto che Jared
continua a sembrare fresco come una rosa, come se fosse appena uscito
da una Spa – saremo pure fratelli, ma vorrei proprio sapere da chi
ha ereditato le incredibili quantità di energia di cui dispone.
«Signori, anche questa è andata» annuncia in tono solenne,
strappando un sorriso sia a Tomo sia a me. «Andiamo a prendere le
nostre cose e torniamo in hotel?»
«Se non vi dispiace, io
prima vado a cercarmi un posto per fumare» ribatto, tastandomi le
tasche. Riconosco subito la famigliare forma quadrangolare del
pacchetto di sigarette. «Non guardarmi così, lo so che disapprovi»
aggiungo subito, cercando di evitare che mio fratello parta con la
solita filippica sui danni del fumo. «Dieci minuti e vi raggiungo.»
Mi infilo il giubbotto e me ne vado senza aspettare risposta.
Inizio a percorrere a
ritroso i corridoi attraverso i quali gli addetti del Forum ci hanno
accompagnati alla sala predisposta all'incontro con i fans, e appena
trovo un'uscita di sicurezza spingo la porta, ritrovandomi di fronte
ad uno spiazzo vuoto. Infilo un piede tra lo stipite e il battente
per tenermi libero il passaggio, prendo una sigaretta dal pacchetto
stropicciato e me la caccio in bocca di fretta, iniziando subito a
tastarmi le tasche in cerca di un accendino. «Merda» sussurro.
Sapevo di aver dimenticato qualcosa.
All'improvviso, da un
angolo buio arriva una voce già sentita, facendomi capire di non
essere solo. «Bisogno di fuoco?» mi chiede, avvicinandosi con un
accendino stretto tra le dita. Fa schioccare il meccanismo, ma non ho
bisogno della luce della fiamma per riconoscere gli occhi azzurri che
poco fa mi hanno sconvolto così tanto.
Mi avvicino e mi chino in
avanti, chiudendo le mani a coppa intorno alla fiammella per riuscire
ad accendere nonostante il filo di vento che tira in quel punto.
«Grazie» mormoro dopo essermi allontanato. Poi ricordo le regole
del bon ton, e tendo verso di lei il pacchetto sdrucito. «Vuoi una?»
«No, grazie.»
«Non fumi?» le domando,
rimettendo in tasca il pacchetto.
«Sono una fumatrice
occasionale. A volte quando sono con amici me ne faccio una.»
«Però sei previdente»
ribatto. «Vai sempre in giro armata» aggiungo, alludendo
all'accendino che ancora tiene in mano.
«Amici smemorati»
risponde, come se questo bastasse a spiegare tutto. Aspiro un'altra
boccata e faccio girare il fumo all'interno della bocca, cercando un
modo per continuare la conversazione: nonostante la stanchezza, so
che non sarebbe carino stare qui senza dire una parola. Per fortuna,
lei mi precede. «Grande spettacolo stasera, complimenti.»
«Grazie. Complimenti anche
a voi. Insomma, il pubblico è importante.» Annuisce, grattandosi
distrattamente la nuca. Noto che porta i capelli corti e spettinati,
come andavano di moda l'estate scorsa – di solito preferisco i
tagli lunghi, ma a questa ragazza il taglio corto dona
particolarmente. «Che fai ancora qui?» le domando. «La serata è
finita, non torni a casa?»
«E voi?» ribatte lei, che
come prima sembra non sapere che cosa significhino timidezza e
soggezione. «Credevo che vi stessero già scortando in albergo.»
«Mi sono preso una libera
uscita» rispondo, mostrando la sigaretta. «Dovrei dar retta a mio
fratello e smettere, ma non ho ancora trovato un buon motivo per
farlo.»
«Forse non lo vuoi
veramente. In tal caso, un motivo lo avresti già trovato.»
Subito dopo la vedo distogliere lo sguardo. «Scusa, non volevo
essere invadente. In fondo, sono affari tuoi.»
«Non sei stata invadente»
la rassicuro. «Anzi, credo che tu abbia ragione. Probabilmente è
così, non ho voglia di smettere.» Mi gratto la punta del naso con
il dorso della mano, riflettendo sulla situazione: sto davvero
parlando con una ragazza sconosciuta del mio problema con il fumo?
«Sul serio, come mai sei ancora qui? Se stai orchestrando un agguato
alla nostra macchina, sappi che usciremo dalla parte opposta
dell'edificio.»
Mentre mi sto chiedendo se
capisca l'inglese tanto da cogliere la sfumatura ironica di quanto ho
appena detto, lei ride. «Mi piacete, ma non al punto di diventare
una stalker. Sto aspettando un'amica» spiega.
«Ah» rispondo,
terrorizzato all'idea che un'ammiratrice esaltata mi salti addosso
pretendendo foto e autografi. Non so se riuscirei a sopportare un
assalto del genere. «E dov'è la tua amica?»
«Nella mia macchina.» Non
sicuro di aver capito correttamente, sto per domandarle di ripetere,
quando lei aggiunge: «Con il suo ragazzo. Lui abita a Milano, quindi
possono vedersi soltanto una o due volte al mese. Hanno colto
l'occasione del concerto per vedersi, solo che non c'erano molti
posti dove... sai, no?»
Annuisco, ma quello che
vorrei dire in realtà è No, non lo so. Non ho mai avuto
relazioni a distanza, in realtà. Già fatico a gestire una storia
con una donna che posso vedere tutti i giorni. «Dove abitate tu e la
tua amica?»
«Torino. È abbastanza
vicino a Milano, in realtà, ma tra gli impegni, la scuola... alla
fine è tutto molto complicato.»
«Andate ancora a scuola?»
mi informo. Stento a crederlo, mi sembra troppo grande per essere una
studentessa liceale.
«La mia amica va
all'università. Ha ventitré anni. Abbiamo ventitré anni»
si corregge. «Studia Filosofia.»
«E tu, invece? Studi?»
Scuote la testa. «No, io
no. Mi sarebbe piaciuto studiare Lingue, ma non avevo... non ero
abbastanza brava per continuare gli studi. Lavoro in una libreria,
faccio la commessa.»
Dopo una breve riflessione,
decido che posso arrischiarmi a fare una confessione privata. «Credo
che a mia madre sarebbe piaciuto che almeno uno dei due andasse
all'università, che diventasse... un pezzo grosso, o qualcosa del
genere. Sai, avvocati, o medici. Credo che un po' le sia dispiaciuto
che tutti e due abbiamo lasciato perdere quella strada.»
«Credo sia comunque fiera
di voi. Fate qualcosa di altrettanto grande, anche senza la laurea.»
«Sì, alla fine è
contenta di come sono andate le cose. Anche perché in un certo
senso, è stata lei a spingerci sulla strada dell'arte.» Aspiro
un'ultima boccata, schiaccio il mozzicone sotto la scarpa e soffio
via il fumo attraverso il naso. «Credi che la tua amica ne avrà
ancora per molto? Non mi sembra un posto molto raccomandabile per una
ragazza sola» dico, guardandomi intorno per individuare eventuali
malintenzionati.
Proprio in quel momento,
lei guarda il cellulare. «Mi ha appena mandato un sms. Hanno finito,
quindi adesso me ne posso andare.» Fa per allontanarsi, ma uno
strano istinto mi dice di non lasciarla andare via così.
«Aspetta, dove devi
andare?»
«Devo raggiungere il
parcheggio» mi spiega, stendendo un braccio nella giusta direzione.
«Allora ti accompagno.»
Mi ci vuole un attimo per realizzare quanto ho appena detto. «Non
conosco bene queste zone, ma non credo che una ragazza dovrebbe
girare da sola di notte, da nessuna parte.»
«Ma non è necessario,
sono pochi passi...»
«Io ti accompagno
comunque.»
«Ma...» inizia, lasciando
perdere subito dopo. Deve aver capito che non sono il tipo che
negozia accordi. Con me, quasi sempre si fa come dico io. Gli unici
ad avere qualche chance di farmi cambiare idea sono Jared e Tomo. E
mia madre, ma quello è un discorso a parte. «A proposito, mi chiamo
Daria» aggiunge, tendendomi la mano.
«Shannon» rispondo,
restituendo la stretta. «Bel nome» aggiungo, sfilando il piede
dalla porta.
«Grazie. Sicuro di
potertene andare così?»
«Certo. E poi sono solo
pochi minuti, non si accorgeranno neanche che sono sparito.»
Mi osserva per qualche
secondo, come se stesse decidendo il da farsi. Vorrei farle presente
che mi sono ormai chiuso fuori, e quindi dovrei comunque fare con lei
un pezzo di strada, almeno il necessario per raggiungere l'ingresso
principale. «Allora va bene. Per di qua» dice, cominciando a
camminare. Si è messa addosso un giubbotto di pelle marrone e si è
stretta attorno al collo una sciarpa rossa a motivi indiani, ma
riesco comunque a intravedere la maglietta bianca. Alla luce
biancastra di un lampione, noto che si è pulita il viso, che non
reca più alcuna traccia del trucco rosso.
«Era molto carino il
tuo... outfit. Abbiamo letto dell'iniziativa su internet, ma
avevamo già deciso il programma della serata, quindi... mi è
spiaciuto, però. Ho visto che in molti hanno aderito.»
«Non festeggio Halloween,
non è una festa che rientra nelle mie tradizioni» mi spiega.
«Siccome non mi sono travestita per l'altra sera, mi è sembrata una
buona idea approfittarne ora. E poi è stato divertente. Insomma, è
stata una cosa impulsiva... io di solito non faccio cose impulsive.»
«Sei una di quelle ragazze
a cui piace avere tutto sotto controllo?»
Scuote la testa, in
silenzio. «Non lo faccio per piacere» risponde dopo quasi un
minuto. «Non mi sono mai potuta permettere di perdere il controllo.»
Mi guarda, e probabilmente sul mio volto appare un enorme punto
interrogativo, perché subito aggiunge: «Mia madre se n'è andata
quando avevo otto anni, e da allora è sempre stato tutto difficile.
Con 'se n'è andata' intendo dire che è andata via, non che è...
morta, ecco.»
Non conosco questa ragazza,
ma quello che ha appena condiviso con me mi fa sentire davvero male,
mi provoca un enorme groppo in gola. So cosa significa essere
abbandonato da un genitore: ero piccolo quando mio padre è andato
via, ma ho sentito la sua mancanza per tutta la vita. Forse è anche
per questo che non ho ancora avuto figli: forse inconsciamente temo
che le continue assenze non farebbero di me un buon padre. «Capisco
cosa vuoi dire. Certo, forse quando è una madre ad andarsene è
diverso, ma... capisco cosa vuoi dire. Sei figlia unica o hai
fratelli?»
«Ho una sorella e un
fratello, diciannove e sedici anni.»
«Come si chiamano?»
Volta rapidamente la testa
verso di me, probabilmente domandandosi il motivo di tanta curiosità.
Tuttavia non esita a rispondermi, mentre continuiamo a camminare
senza fretta verso il parcheggio. «Emanuele e Francesca. Loro
praticamente non se la ricordano. Francesca aveva soltanto un anno
quando lei è andata via. Mi dispiace per loro, vorrei che avessero
qualche ricordo di lei. Però poi ci penso su, e mi dico che forse è
meglio così. Soffrirebbero troppo.» Poi alza lo sguardo verso il
cielo buio, come per riflettere, e aggiunge: «Non che non soffrano,
certo. È pur sempre un abbandono.» Sto per ribattere, quando si
volta di nuovo verso di me: «Quella sigaretta è ancora valida?»
Prendo il pacchetto dalla tasca e lo tendo verso di lei. Mi servo
anch'io, e mentre lei accende la sua ci fermiamo. Nel prendere
l'accendino dalla sua mano, le nostre dita si sfiorano, provocandomi
una strana sensazione: sento una strana intesa con questa ragazza,
una persona di cui non conosco nulla tranne il nome e la provenienza.
È la prima volta che raggiungo un simile grado di intimità in così
poco tempo, e se devo essere sincero questo rapido precipitare degli
eventi mi fa paura. Ebbene sì: Shannon Leto, batterista di fama
mondiale, ha paura di restare solo con una ragazza.
Riprendiamo a camminare,
senza dire una parola. Il parcheggio è quasi completamente vuoto, e
la poca gente rimasta non fa caso a noi – Meno male, mi
viene da pensare: un bagno di folla non è proprio quello che mi
serve, non in questo particolare momento. «Non preoccuparti, ci
siamo quasi» mi dice, indicando un punto poco lontano, dove si
intravede una sola auto, «ho parcheggiato... oh, merda»
conclude in un sussurro.
«Cosa c'è?» le chiedo,
preoccupato da quel repentino cambiamento. «Cos'è successo?»
«Hanno ricominciato»
sussurra, voltandosi con aria scocciata verso la direzione da cui
siamo appena arrivati. «La mia amica e il suo ragazzo» specifica,
invitandomi a guardare verso l'auto. In effetti, socchiudendo gli
occhi e tenendo fisso lo sguardo, nonostante il buio si nota
chiaramente uno strano movimento oscillatorio del veicolo – che, si
capisce, può derivare soltanto da una cosa.
«Oh» è l'unico commento
che riesco a fare.
«Già, oh. Dovevo
aspettarmelo, in fondo. Per entrambi il sesso è una parte
fondamentale in un rapporto, e quelle poche volte che si vedono
devono... sfogare ogni istinto.»
Da quest'ultima
affermazione mi pare di capire che Daria abbia opinioni diverse da
quelle dell'amica, e la mia innata curiosità mi impone di indagare.
«Beh, credo che il sesso in una relazione sia importante per
chiunque. Forse per qualcuno lo è di più.»
«Per Alice lo è
sicuramente» taglia corto lei, aspirando nervosamente dalla
sigaretta.
«E per te non lo è?»
«Mi stai chiedendo se mi
piace fare sesso?» In condizioni normali, probabilmente una ragazza
qualunque si sarebbe risentita alla mia domanda – e probabilmente
una fan esagitata l'avrebbe interpretata come un'avance, ma nel tono
di Daria non c'è né sconcerto né libidine: è soltanto sorpresa
della mia curiosità. E in fondo lo sono anch'io: non è da me fare
discorsi così intimi con una persona appena conosciuta – a meno,
forse, di non essere entrambi ubriachi e già mezzi nudi.
«Ti sto solo chiedendo se
lo consideri importante in una relazione o no.» Nonostante la
penombra, sento che il suo sguardo mi sta studiando con diffidenza,
come se fosse difficile decidere se valga la pena di concedermi una
risposta sincera. «Io lo considero mediamente importante, ad
esempio. Il sesso è una forma di comunicazione. Se non c'è intesa
sessuale, è molto probabile che la relazione non sfoci in qualcosa
di più importante. Insomma, non sposerei una donna con la quale
faccio del sesso mediocre.»
«Allora direi che lo
consideri molto importante, non mediamente importante.
Io penso che si possa stare bene con una persona anche senza fare del
sesso stellare.»
«Forse parli così perché
non hai mai trovato qualcuno con cui farlo, del sesso
stellare.» Appena finito di parlare, vorrei poter tornare indietro e
strapparmi la lingua a morsi: stiamo scivolando su un genere di
discorsi che affronto di rado, certamente mai con una ragazza appena
incontrata. Eppure, invece di ritrarsi, darmi del maniaco o cose del
genere, Daria alza lo sguardo e mi sfida apertamente.
«Perché, tu hai mai
trovato qualcuno con cui farlo?»
Rifletto accuratamente
sulla risposta. «Beh, sì. Sono uscito con parecchie ragazze con cui
avevo un'ottima intesa sessuale.»
«E allora com'è che sei
ancora scapolo?»
Forse non ho riflettuto
così accuratamente. Questa ragazza sa essere più pungente di un
calabrone. «Beh, immagino che non ci fossero le condizioni ottimali
per pensare ad una relazione seria.»
«Questo dimostra che il
sesso è sopravvalutato.»
«Ma non che non sia
importante.»
«Lasciamo perdere, ti va?
Sento che potremmo andare avanti per ore, e nessuno dei due si
smuoverebbe di un millimetro dalla sua posizione.» Si sposta di
qualche passo e si siede su uno dei cordoli di cemento che delimitano
le corsie di parcheggio. «Comunque adesso puoi andare, se vuoi.
Posso aspettare qui, non ne avranno per molto.»
Ignorando la sua
considerazione, mi siedo accanto a lei. «Se tu aspetti qui, io
aspetto con te. Non ti lascio sola.» I fari di un'auto che passa
poco più in là ci illuminano per qualche istante, e negli occhi
azzurri che mi stanno scrutando leggo qualcosa di incredibilmente
simile alla felicità. Devo ammettere che mi sembra assurdo,
ma ho come l'impressione che sia felice di avermi accanto, a
prescindere da chi sono. «Dicevi che lavori in una libreria,
giusto?» dico, cercando di stemperare questo attimo di tensione e di
far deviare il discorso dal binario che aveva preso.
«Sì, lavoro in una
libreria. Sono solo una commessa, non è un impiego di grande
responsabilità, ma mi piace molto. Mi è sempre piaciuto un sacco
leggere, e nel mio caso avere uno sconto dipendenti è piuttosto
utile. Trattiamo anche libri in lingua straniera, quindi spesso ho a
che fare con clienti esteri.» Finalmente riesco a spiegarmi la sua
incredibile padronanza dell'inglese. «Non guadagno molto, ma l'anno
prossimo spero di riuscire a prendere in affitto una casa tutta mia.
Mi sto già guardando intorno, anche se non so ancora di preciso se
riuscirò a realizzare la mia idea.»
«Prendere casa è una
progetto piuttosto serio» ribatto, lasciando cadere il mozzicone per
terra per spegnerlo con la punta della scarpa. «Che tipo di casa
cerchi?»
«Nulla di pretenzioso, in
fondo sono da sola. Mi basterebbe un bilocale, o una mansarda.
Qualcosa del genere. Alice, la mia amica, mi ha proposto di
trasferirmi da lei. Condivide l'appartamento con altri studenti, e
sarebbe felice di avermi con lei.»
«Ma tu non hai intenzione
di accettare.»
«No, infatti. Sono felice
che me l'abbia proposto, ma io ho voglia di un posto mio, di
un posto in cui rifugiarmi e stare sola quando ne ho voglia. Ti è
mai capitato di volere uno spazio tutto tuo, dove nessuno può dirti
cosa fare o come farlo?»
Più spesso di quanto tu
possa immaginare, vorrei risponderle. «Sì, è capitato. Credo
sia una cosa molto comune.»
«E poi ho così tanti
libri che mi servirebbe una stanza soltanto per quelli.»
«Ti capisco. Con la mia
collezione di dischi è la stessa cosa.» Senza preavviso, Daria si
lascia andare ad una breve risata, mentre anche la sua sigaretta cade
a terra e viene spenta. «Perché ridi?» le domando, curioso. Non mi
sembra di aver detto qualcosa di particolarmente ironico.
«Niente, è che stavo
pensando... non mi sembra di parlare con uno che riempie gli stadi.
Mi sembra di starmene seduta con mio fratello, o con un mio amico. È
strano.»
«Beh, se ti può consolare
è strano anche per me. Non è una cosa che faccio di solito...»
«Cosa, ascoltare gli
sfoghi di una ragazza sconosciuta?»
«Passare del tempo con una
persona che non conosco e scoprire di avere un sacco di cose in
comune con lei dopo soli dieci minuti» la correggo. I nostri visi
sono fermi uno di fronte all'altra, i nostri occhi giocano a
rincorrersi come due gocce di pioggia che scivolano lungo un vetro, e
tutto quello che riesco a pensare è che sarebbe meglio mettere fine
ad ogni conversazione, perché più andiamo avanti più mi fa paura
l'intimità con lei, e subito dopo ho in mente un'immagine di me che
la prendo tra le braccia e la bacio, e non posso fare a meno di
pensare che sarebbe davvero fantastico farlo davvero, sporgermi verso
di lei e sfiorarle le labbra, togliendole ogni possibilità di
replica, e... e subito dopo il cellulare vibra nella mia tasca,
impedendomi di indulgere ancora in una fantasia che, me ne rendo
conto, è troppo assurda e decisamente inopportuna. «Scusami, devo
rispondere.» Devo rispondere sul serio: è mio fratello. Accetto la
chiamata, ma non ho nemmeno il tempo di pensare a cosa dire.
«Dove-diavolo-sei?»
La voce di Jared è a metà tra un sibilo e uno strillo, e nessuno
meglio di me sa che quel tono porta solo guai: probabilmente non mi
parlerà per i prossimi quattro giorni, ma al momento non è che la
cosa mi importi tanto.
«Lo sai, sono uscito a
fumare» rispondo con la maggior naturalezza possibile.
«Venti minuti fa?»
«Senti, è un po'
complicato da spiegare. Sto... facendo una cosa importante.»
«Shan, avevamo detto
'Niente cazzate', ricordi?»
«Ehi, non è quello che
pensi. Senti, Jay, è davvero una cosa importante. Ce la fate ad
aspettarmi ancora per...» Guardo verso Daria, che alza le spalle
come per dire che non sa per quanto i suoi amici ne avranno ancora.
«Facciamo altri venti minuti, va bene? Ti spiego tutto dopo,
prometto.» Chiudo la comunicazione prima che a mio fratello venga in
mente un numero sufficiente di insulti, e torno a sedermi vicino a
Daria – ma questa volta, lo ammetto, più vicino di prima.
«Scusa, non volevo farti
litigare con tuo fratello. Ma puoi andare, davvero. È già il
secondo round, non dovrebbero metterci tanto. Posso stare da sola.»
«Jared può aspettare. Noi
stasera abbiamo aspettato per dieci minuti che finisse di farsi le
trecce... non gli farà male stare dall'altra parte, per una volta.»
Getto un'occhiata all'auto, all'interno della quale sembra ci sia
ancora parecchio movimento. «Da quanto tempo stanno insieme?»
«Alice e Federico? Otto
anni» risponde lei. «Lui viveva a Torino, poi suo padre si è
dovuto trasferire per lavoro, e tutta la famiglia lo ha seguito. Si
sono conosciuti al liceo, lui era un paio di classi avanti a noi. È
stato il primo ragazzo di Alice. È sempre stata innamorata persa di
lui.»
«Una cosa romantica.»
«Dì pure melensa.
Viene da pensare che dopo tanti anni si dovrebbero abbandonare certi
comportamenti, invece... a volte mi sembra di avere a che fare con
due adolescenti: telefonate infinite, nomignoli zuccherosi... mi
fanno venire il voltastomaco.»
«E tu, invece? Hai un
ragazzo?»
«Non al momento. Al
momento sono troppo impegnata.» Passa qualche secondo, durante il
quale si passa nervosamente la mano tra i capelli scompigliati. «Non
che non abbia mai avuto un ragazzo. Anch'io ho avuto delle relazioni.
Solo, non... mai una cosa così seria, ecco. Se vivessero nella
stessa città, loro vivrebbero praticamente come una coppia sposata»
aggiunge, facendo un cenno verso l'auto. «Non ho mai creduto in quel
genere di relazione.»
«Insomma, non credi che il
sesso sia importante in una storia e non credi che si possa amare una
sola persona per tutta la vita?» Il punto di vista di questa
ragazza, così giovane eppure già così matura, mi intriga come non
mai.
«Non credo che si possa
essere felici a trent'anni con una persona con cui sei stato felice a
quindici» risponde un po' scocciata. Forse non avrei dovuto
rivangare quella storia del sesso. «I miei si sono conosciuti a
quattordici anni, si sono messi insieme a diciassette e si sono
sposati a ventiquattro. Hanno comprato casa, hanno avuto tre figli, e
a trentaquattro erano divorziati. Dì pure che sono di parte, ma non
credo che si possa restare aggrappati per sempre all'idea di amore
che si ha nell'adolescenza.»
«Insomma, non credi che
Alice e Federico staranno insieme per sempre.»
«No, infatti. Appena
avranno la possibilità di passare più tempo insieme, inizieranno a
notare ognuno i difetti dell'altro, tutti quei piccoli dettagli che
la lontananza offusca. Federico scoprirà che Alice di secondo nome
fa Disordine, e Alice non riuscirà a reggere la disciplina di
Federico. Forse non subito, ma prima o poi uno dei due crollerà, e
io sarò la stronza che dirà 'Io l'avevo detto!'. Federico non mi
parlerà mai più, e Alice mi terrà il muso per un paio di
settimane. Poi le porterò una vaschetta di gelato e saremo di nuovo
amiche come prima.»
«Funziona?»
«Cosa?»
«Il gelato. Come offerta
di pace.»
«Con Alice funziona alla
grande. Cioccolato e nocciola sono gli ambasciatori migliori del
mondo. Perché me lo chiedi?»
«Curiosità. Quando litigo
con mio fratello non so mai cosa fare per farmi perdonare. Magari il
gelato funziona anche con lui.»
«Qualsiasi essere umano,
anche l'uomo più cattivo del mondo, si ammansirebbe davanti al
gelato.» Il suo sorriso è contagioso come il morbillo, e torna a
farsi sentire prepotente in me quella voglia di starle accanto per il
maggior tempo possibile – la conosco da poco, ma con lei sto
incredibilmente bene, sono a mio agio, posso fare battute e ridere in
libertà. Con lei mi sento libero di essere me stesso, libero da
quella tensione che non riesce mai a farmi decidere in quali
occasioni posso essere sincero e in quali invece no. E così, senza
quasi rendermene conto, inizio ad avvicinare il mio volto al suo,
pronto ad alzare un braccio per circondarle le spalle. Al contrario
di me, lei deve aver capito che cosa sta per accadere, perché
l'espressione dei suoi occhi cambia, si affila, come se si stesse
preparando a bloccarmi e a chiedermi che cazzo sto facendo.
Ma non c'è bisogno che sia
lei a bloccarmi: ci pensa il suo cellulare. Mi fermo, scuoto la testa
e chiedo a me stesso di rinsavire – non posso andare in giro a
baciare sconosciute senza pensare alle conseguenze! - , mentre lei
sposta lo sguardo dal display all'auto, dalla quale scende una bionda
spettinata che sta finendo di aggiustarsi addosso un maglioncino
nero. «Scusa, Daria» la sento
dire, «è tanto che aspetti?»
Rimane piuttosto vicina alla macchina, mentre dall'altro lato sbuca
un ragazzo alto e allampanato. Dubito che da quella distanza Alice mi
abbia riconosciuto, forse sta solo cercando di non disturbare la
nostra intimità – Troppo tardi!, vorrei urlare. «Se tu sei
pronta per andare, io sono pronta.»
Daria si alza, e così
faccio io. Tutte le parole che ci siamo scambiati sembrano essersi
perse nell'aria frizzante della sera, come se improvvisamente fossimo
incapaci di trovare un linguaggio comune. «Grazie per la compagnia»
sussurra, senza osare alzare lo sguardo – peccato, la fierezza dei
suoi occhi è una delle cose che più mi piacciono di lei. «Spero
che tuo fratello non se la prenda troppo con te. Dà pure la colpa a
me, se necessario, tanto non...»
Non ci vedremo mai più.
Anche se si è interrotta, so che è questo che stava per dire. Lo
ripeto un paio di volte nella mia mente, e suona così male che devo
scuotere la testa per liberarmene. Ci sono miliardi di cose che
potrei rispondere, e invece tutto quello che riesco ad articolare è:
«Hai una penna?» Eppure, non è tanto
la mia domanda a sconvolgermi, quanto la sua risposta.
«Sì,
certo. Certo che ho una penna.» E
senza che le chieda altro, la tira fuori dalla borsa sdrucita che
porta a tracolla. Senza dire niente, la prendo tra le dita, e mentre
lei inizia a dire che non è necessario, convinta forse che voglia
regalarle uno stupido autografo, io stringo la sua mano e me la porto
vicino al petto, scrivendo con cura una precisa sequenza di lettere e
numeri.
Quando finisco, richiudo la
penna e gliela restituisco, lasciandole piano anche la mano.
«Scrivimi, se ti va. Mi farebbe molto piacere parlare ancora con
te.» Mi allontano così, senza
un'altra parola, senza un abbraccio, senza una stretta di mano e
senza nemmeno un bacio. Mi allontano senza presentarmi all'amica,
senza badare allo sguardo di Federico, che mi scruta torvo finché
non riesce più a distinguere la mia figura, e soprattutto mi
allontano senza vedere che Daria si sta guardando il palmo della mano
senza nemmeno osare sfiorarlo, come se avesse paura di cancellare
anche un singolo carattere.
Forse Jared ha ragione,
quando dice che non riesco a pensare proprio quando ce n'è più
bisogno. Forse è vero, ma almeno mi sono regalato una mezz'ora di
stupenda felicità.
***
1Portagioie
di tristezza | Il
titolo della storia è ispirato dalla canzone
Jewel
Box
di Jeff Buckley, contenuta nel disco Sketches
For My Sweetheart The Drunk
(1998).
2Ho
pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a
te e a me
| Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone The
Story
dei 30 Seconds To
Mars,
contenuta nel disco A
Beautiful Lie
(2005).
|