Ciao
a tutti! :)
Una piccola premessa perché sento di doverla fare... Questa
è la mia prima fanfiction sulla serie tv della BBC
"Sherlock" e ciò comporta che sono tremendamente in ansia
per come è venuta - perché Sherlock
è un personaggio più che complesso a cui
approcciarsi - e spero che questo mio primo tentativo non sia
risultato OOC. Spero davvero di aver reso tutto abbastanza
credibile... Ma se non fosse così, chiedo venia e magari
qualche consiglio, perché mi piacerebbe scrivere altre FF
del genere.
Ovviamente quello che ho scritto è tutto frutto della mia
testolina bacata e non a scopo di lucro.
Ringrazio chi si fermerà anche solo a leggere e... alla
prossima!
Vostra,
_Pulse_
______________________________________________
A
criminal's ex-girlfriend
Era
la prima volta che andava a
trovare John dopo il funerale di Sherlock – o meglio,
dell’uomo che lei aveva
fatto passare per Sherlock – e per quanto gli stesse a cuore
e volesse sapere
come se la cavasse in quell’appartamento ora così
vuoto, non si sentiva affatto
a suo agio. Come poteva esserlo? Ma doveva continuare a tenere duro, a
recitare
la parte che Sherlock le aveva assegnato; non poteva deluderlo, non
dopo ciò
che le aveva detto senza giri di parole: si fidava di lei e aveva
bisogno di
lei, proprio di lei.
Non conosceva le sue ragioni,
né cosa comprendesse il resto del suo piano –
troppo pericoloso perché lei ne
conoscesse tutti i dettagli, secondo lui – ma era certa che
fossero ottime.
Dovevano esserlo per forza! Non si inscena la propria morte e si
sparisce,
lasciando tutto e tutti, per futili ragioni.
Suonò
al campanello
dell’appartamento 221B, in Baker Street, e quasi subito la
signora Hudson aprì
la porta, mostrandosi incredula e terribilmente dispiaciuta per
qualcosa che
era appena accaduto. O che era ancora in corso di svolgimento, dal
rumore
infernale proveniente dal piano superiore e che si poteva udire
benissimo anche
da lì.
«Signora
Hudson, cosa –?»,
provò a domandare, ma la donna la interruppe e con voce
rotta e colma
d’apprensione disse:
«Oh,
Molly cara… Si tratta di
John, non so più che cosa fare…».
Molly
la seguì all’interno
della palazzina, insieme salirono su per le scale e poi la signora
Hudson le
cedette il passo, indicandole la porta dell’appartamento che
una volta Sherlock
e John condividevano. Ciò che vide la lasciò di
stucco e la spaventò anche. Non
aveva mai visto John in quello stato e, veramente, non avrebbe mai
immaginato
che potesse ridurcisi.
In quel momento non era nemmeno il John che conosceva:
il John gentile e paziente, quello che le diceva
“Grazie” o si scusava al posto
di Sherlock. Era un John arrabbiato e stanco, un John ferito, sul punto
di
crollare in mille pezzi.
Sherlock
doveva avere davvero
delle ottime ragioni, ma una volta di nuovo a casa – quando e
se sarebbe
tornato a casa – nessuno si sarebbe accontentato di quelle.
Una volta di nuovo a casa
nessuno, tantomeno John, avrebbe detto “Mi
dispiace” al suo posto.
Molly
provò a fare un passo
verso la poltrona su cui si era accovacciato – la poltrona di
Sherlock – ma fu
una pessima idea non annunciarsi: in un lampo, coi riflessi pronti che
solo un
soldato poteva avere, le puntò contro la pistola ancora
fumante. Molly fece
istintivamente un passo indietro e sollevò le mani,
mormorando: «John… John,
sono io, Molly».
Il
dottore la riconobbe e con
noncuranza riprese a sparare contro il muro, cercando di cerchiare,
come se in
mano avesse una penna rossa invece di una pistola, le parole che aveva
scritto
con una bomboletta di vernice spray gialla, ora abbandonata a terra
insieme a
tutti i cocci e i vetri infranti che una volta erano state provette,
ampolle e
qualsiasi altro strumento scientifico usato da Sherlock per le sue
analisi
casalinghe.
“Egoista bastardo”, aveva scritto.
Non poteva essere rivolto che ad una sola persona, ma Molly,
innervosita da
quel silenzio rotto solo dai colpi di pistola, chiese:
«Chi
è un egoista bastardo?».
John
si interruppe solo per
cambiare il caricatore della pistola – ne aveva
giù usato uno, a terra ai piedi
della poltrona, circondato da tutti i bossoli vuoti. Le rivolse uno
sguardo
infastidito e con calma, come se fosse la cosa più ovvia del
mondo, rispose:
«Sherlock
Holmes».
La
signora Hudson si coprì la
bocca con una mano e socchiuse gli occhi, prima di voltarsi e scendere
giù
dalle scale.
Molly sospirò e raccogliendo il coraggio provò a
fare di nuovo
quel passo all’interno del salotto, ma si fermò
ancora non appena John
aggiunse:
«Lui
e tutti i suicidi. Prima non la pensavo così: credevo che
ognuno
potesse avere il diritto di scegliere di lasciare questo mondo, nel
caso non ci
fossero altre vie d’uscita. Mi sbagliavo.
C’è sempre un’altra via
d’uscita e
Sherlock… Sherlock è un egoista bastardo,
perché mi ha costretto a convivere
con questo peso, il peso di non essere riuscito a mostrargliela, quella
dannata
via d’uscita!».
Le
lacrime le inumidirono gli
occhi, mentre una tenaglia d’acciaio le intrappolava il
cuore, ma si fece forza
e senza più paura raggiunse John,
quell’irriconoscibile John: alticcio, coi
vestiti sporchi, la barba di qualche giorno.
«Vattene,
Molly», esclamò
rabbiosamente, tornando a fissare il muro per mandare via le lacrime
ardenti
che gli appannavano la vista.
«No.
No, se prima non mi dai
quella pistola».
John
la guardò con un sorriso
sornione disegnato sul volto. «Credi forse che voglia farla
finita? Non temere,
io non sono come lui».
«Allora
dammela».
Il
dottore scoppiò in un
risolino un po’ isterico, ma allungò ugualmente la
mano con cui impugnava la
pistola verso Molly, tesa e con le gambe ad un passo dal cedimento.
Il metallo ancora caldo aveva
appena sfiorato le sue dita, quando all’improvviso John
ritrasse la mano ed
agitò l’arma per aria, esclamando:
«Pensa
se avessi davvero voluto spararmi e
tu mi avessi fatto cambiare idea! Cosa avrebbero detto i giornali,
questa
volta? Di sicuro non: “Il compagno d’avventure del finto genio salvato dalla ex-ragazza di
Moriarty”!».
Molly
trasalì, immobilizzata
sul posto dagli occhi di nuovo colmi di rabbia di John. Avrebbe tanto
voluto
evitarli, ma non le fu fisicamente possibile.
«Lo
sai, vero?», riprese,
digrignando i denti. «Lo sai che è sua la colpa,
che è a causa sua se Sherlock
si è buttato giù dal tetto del
Bart’s?».
Molly
finalmente riuscì ad
abbassare gli occhi, ora più che mai colmi di
lacrime.
Non aveva dimenticato
Jim, affatto. Da quando aveva saputo la verità sul suo
conto, quando lo stesso
John le aveva raccontato tutto ciò che sapeva su di lui, sui
suoi crimini, quel
ragazzo apparentemente normale, che l’aveva corteggiata,
riempita di attenzioni
e che alla fine era diventato il suo fidanzato - nonostante di fronte a
Sherlock avesse detto che erano solamente usciti un paio di volte, -
aveva tormentato i suoi sogni
in ogni modo possibile, anche più volte per notte.
«L’ex-ragazza
di un criminale»,
mormorò, per poi ridere ancora una volta. «Come
potresti salvare qualcuno, se
non sai nemmeno difendere te stessa, eh, Molly?».
«Non
lo so. Proprio non lo so»,
sussurrò con un nodo alla gola. Quindi si voltò e
corse giù dalle scale,
rischiando anche di inciampare in una pila di vecchi giornali.
Incontrò
la signora Hudson, la
quale le chiese che cosa fosse successo, ma Molly non la
degnò nemmeno di uno
sguardo: non voleva mostrare le sue lacrime, la sua debolezza.
Scappare,
correre via. Forse
era l’unica cosa che le riusciva davvero bene, nonostante la
tristezza e il
dolore la seguissero come ombre e riuscissero sempre a mettere radici
dentro di
lei, appesantendole il cuore.
***
Si
diede un’ultima occhiata
intorno, poi spense le luci e si chiuse le porte del laboratorio alle
spalle.
Era
molto tardi e non c’era
alcuna traccia della luna in cielo, una cosa che la rendeva sempre
inquieta e
che le fece pentire di aver fatto gli straordinari per
l’ennesima volta.
Il
lavoro però era l’unica cosa che le permetteva di
distrarsi, di non pensare a
Sherlock, a John e a Moriarty. Si fermava più che volentieri
al Bart’s
soprattutto quando faceva il turno di notte, nella speranza che una
volta a
casa, col sole appena sorto che filtrava dalle imposte, non facesse
incubi il
cui protagonista era proprio il suo ex-fidanzato criminale.
Il
vento freddo le mordeva la
pelle del viso, così Molly camminava a testa bassa e con le
mani infossate
nelle tasche del cappotto, le gambe rigide che ce la mettevano tutta
per
aumentare il passo.
Mancava
un solo isolato alla
fermata della metro che doveva prendere per tornare a casa, quando un
trillo
improvviso la fece trasalire. Si fermò e guardò
insospettita la cabina
telefonica proprio dall’altro lato della strada. Non
c’era nessun altro in giro
– un evento più unico che raro a Londra, anche a
quell’ora di notte – ma non
voleva credere che quella chiamata fosse proprio per lei.
Aspettò quindi che il
telefono terminasse di squillare, poi sospirò sollevata e
tornò ad incamminarsi
verso la metropolitana.
Aveva percorso solo pochi metri
quando partì una nuova chiamata. Affranta,
attraversò la strada e si infilò
nella cabina telefonica. Sollevò la cornetta con le mani
intorpidite dal freddo
e se la portò all’orecchio per poter ascoltare in
silenzio.
«Molly
Hooper».
Molly
chiuse gli occhi e
trattenne il respiro, udendo quella voce che tutti conservavano
gelosamente nei
loro ricordi. Si pizzicò il braccio per verificare che non
fosse tutto un
sogno: Sherlock era davvero ancora vivo e proprio lei –
aiutata dall’impressionante
influenza di Mycroft Holmes – aveva contribuito alla sua
scomparsa.
Ogni mattina, mentre faceva
colazione, si chiedeva se fosse successo tutto per davvero e
più passavano i
giorni senza sue notizie più si convinceva del contrario.
Ora poteva vivere,
almeno un po’, nella certezza che prima o poi avrebbe visto
di nuovo i suoi
occhi di ghiaccio.
«Sher–»,
provò a dire, con la
voce tremante, ma lui la zittì subito.
«Non
è il caso. Perché mi hai
chiamato?».
Molly
si irrigidì sul posto,
incredula. Sherlock aveva visto la sua chiamata, o meglio quei due
squilli che
aveva inoltrato al numero delle emergenze che lui stesso le aveva dato.
Era molto scossa, una volta
tornata di corsa nel suo appartamento dopo quel fiasco di visita che
aveva
fatto a John, ma si era subito resa conto che l’avrebbe
rimproverata o che
addirittura avrebbe potuto metterlo nei guai, quindi aveva spento il
cellulare
e si era accoccolata sul divano, dandosi della stupida mentre il suo
gatto
cercava senza successo di attirare la sua attenzione.
«Io
non… insomma…», iniziò a
balbettare, spazientendo Sherlock a tal punto che dovette richiamarla
all’ordine:
«Rispondi
alla mia domanda. È
successo qualcosa?».
Molly
respirò profondamente per
farsi coraggio e ripensò a tutte le cose che avrebbe voluto
dirgli quel pomeriggio,
tutto quello che l’aveva fatta star male in modo indicibile e
che ancora le
stringeva il cuore. Quello che però riuscì a
dirgli fu solo:
«L’altro
giorno ho
visto John. Sparava contro il muro, era davvero… a pezzi. Ha
bisogno di te».
«Non
posso tornare, non
ancora», fu la sua risposta, fredda ed irremovibile.
Sembrò quasi un «Non me ne
importa», o un «Prima o poi gli
passerà» e per Molly fu inaccettabile.
«Ciò
che stai facendo sarà
sicuramente importante, ma non sarà mai importante come le
persone che ti
vogliono bene e che stanno soffrendo, credendoti morto! Ma a te non
importa,
non è vero? Non ti è mai importato! E io, io sono
la più stupida di tutti…».
Molly si passò una mano gelata
sulle guance rigate di lacrime, pregando perché dal suo
nascondiglio Sherlock non
potesse vederla.
«Quello che mi hai detto quella
sera, al Bart’s… Hai usato i miei sentimenti solo
perché ti aiutassi. Il bello
è che ti avrei aiutato comunque, senza che tu ti sentissi
costretto a mentirmi.
Perché io non conto niente per te, lo so benissimo. E la
prova è che non mi hai
mai chiesto nulla di Jim, senza contare quella terribile frecciatina.
Lui ha fatto finta di essere interessato a me per
arrivare a te, era solo un gioco anche quello, e tu, tu che per primo
hai
capito che era un criminale, non mi hai mai chiesto se mi avesse fatto
del
male.».
Sherlock
rimase in silenzio, un
pessimo segnale da parte sua, e Molly dimenticò per un
attimo tutte le sue
conoscenze di patologa per credere che sarebbe morta lì, in
quella cabina
telefonica, con il cuore spezzato.
«Ho
sbagliato a chiamarti,
l’altro giorno. È stato un errore»,
mormorò dopo un po’, raccogliendo quella
poca voce che i singhiozzi non avevano ancora soffocato.
Si appoggiò al vetro sporco
della cabina telefonica per paura di crollare a terra e gli chiese:
«Ti serve
altro?».
«No»,
rispose Sherlock.
«Okay,
a presto allora».
Posò
la cornetta ed uscì,
trovandosi immersa in una vera e propria tormenta: il vento era
diventato
ancora più forte, ancora più freddo, e le ciglia
umide si appiccicarono in modo
fastidioso le une alle altre mentre camminava spedita verso la
metropolitana,
sotto l’unica luce dei lampioni.
Entrò
nel suo appartamento e
gettò subito la grossa borsa sul divano, facendo spaventare
il gatto che
miagolò infastidito e corse verso la camera da letto.
Con le mani screpolate per il
freddo si tolse il cappotto e lanciò anch’esso sul
divano, dopodiché si diresse
verso la cucina per prepararsi un tè caldo. Non avrebbe
conciliato il sonno, lo
sapeva, ma era quasi certa che non sarebbe riuscita a chiudere occhio
comunque.
Seduta
al tavolo, in attesa che
l’acqua raggiungesse la giusta temperatura nel bollitore, lo
sguardo le cadde
sulla lucetta lampeggiante sul display del telefono fisso. Si
alzò e non senza
un po’ di timore premette il pulsante della segreteria:
qualcuno le aveva
lasciato un messaggio.
«Ciao
Molly, sono John. Ehm, volevo solo scusarmi per come mi sono comportato
l’altro
giorno e per le cose orribili che ti ho detto. Non le pensavo davvero e
mi
dispiace davvero tanto. Appena puoi vieni a trovarmi, prometto che
questa volta
sarò un padrone di casa migliore. Buonanotte».
Molly
sorrise appena e cancellò
il messaggio. Sarebbe passata da John quello stesso pomeriggio, visto
che aveva
il giorno libero.
Il
bollitore iniziò a fischiare
e Molly si affrettò a spegnere il gas, lasciandolo
però così com’era: non aveva
più bisogno del tè, voleva soltanto andare a
dormire.
***
Era
quasi l’alba e una luce tenue
si stendeva gradualmente sul pavimento, disegnando sempre
più nettamente
l’ombra di Sherlock, appollaiato sul divano in modo da dare
le spalle alla
finestra.
Dalla sua posizione poteva
scorgere Molly rannicchiata sotto il piumone, col gatto ai suoi piedi e
il
volto dall’espressione serena. Probabilmente stava sognando
qualcosa di bello.
Sherlock
unì la punta delle
dita all’altezza della bocca e socchiuse gli occhi,
ripercorrendo mentalmente
le parole che Molly gli aveva detto quella notte.
Gli
aveva rinfacciato di averle
detto cose che fondamentalmente non pensava, di averle mentito, e come
prova
aveva fornito il suo poco interessamento su come Jim Moriarty
l’avesse
avvicinata per poter arrivare fino a lui.
Aveva detto che non le aveva
chiesto se lui l’avesse fatta soffrire e questo, secondo la
sua logica, portava
all’unica conclusione che sì, Jim Moriarty
l’aveva fatta soffrire. Ma in che
modo? Dubitava che le avesse fatto del male fisico, non era nel suo
stile
sporcarsi le mani – e con una ragazza, poi. Forse la
sofferenza a cui si
riferiva Molly era a livello sentimentale: Moriarty aveva finto di
amarla e,
scoprendo che era tutta una menzogna, doveva averla delusa, oltre che
ferita.
Quando
ancora non conosceva la
vera identità di Jim Moriarty e Molly gliel’aveva
presentato, al Bart’s, lui
stesso l’aveva fatta star male – secondo John
– dicendole che era gay e che
avrebbe fatto meglio a troncare subito con lui. Ma grazie al suo
intervento la
loro relazione era finita e una volta smascherato aveva pensato di
nuovo di averle
fatto davvero un grosso favore. Per questo non le aveva chiesto nulla
in
merito.
Forse
non era la risposta alla
domanda che contava per Molly, ma la domanda stessa. Se le avesse anche
solo
chiesto se Moriarty le avesse fatto del male sarebbe stato sufficiente,
nonostante
lui non ne capisse il senso.
Insomma, gliel’avrebbe chiesto
se avesse notato qualche sintomo di malessere, qualche significativo
cambiamento nella sua routine…
Ma
ora che ci faceva caso,
erano state molte le occasioni in cui lui, senza nemmeno accorgersene,
aveva
fatto stare male Molly. A volte era stato palese, come alla Vigilia di
Natale. A
volte era stata semplice noncuranza, il suo modo di fare. Ma mai niente
era
cambiato in lei: aveva sempre eseguito il suo lavoro con efficienza e
competenza, l’aveva sempre assistito in laboratorio senza mai
provare rancore
nei suoi confronti… Mai nulla l’aveva portato a
pensare che forse aveva fatto
qualcosa di sbagliato. Perché Molly era fatta
così: perdonava, perdonava sempre
e comunque e passava oltre.
Si
alzò dal divano con un
movimento fluido e senza fare il minimo rumore si diresse verso la
camera da
letto. Non entrò, si fermò semplicemente sulla
soglia per appoggiarsi allo
stipite della porta con una spalla.
Jim
Moriarty poteva aver conquistato
un pezzetto del cuore di Molly, ottenere la sua fiducia e il suo
affetto, ma
non era nulla in confronto a quello che lei di sua spontanea
volontà aveva
donato a Sherlock ogni giorno da quando l’aveva conosciuto.
Quella notte in particolare,
prima che fingesse di saltare giù dal tetto del
Bart’s, aveva accettato di
aiutarlo nonostante l’alto livello di rischio. Molly sapeva
che se qualcosa
fosse trapelato avrebbe perso il lavoro, ma non sapeva che, essendo a
conoscenza di una parte del piano di Sherlock, sarebbe potuta diventare
un
facile bersaglio per gli scagnozzi di Moriarty.
Perciò
chi era il peggiore, lui
o il consulente criminale? Chi l’aveva fatta soffrire di
più e chi tuttora la
stava facendo soffrire, incapace di ricambiare ciò che lei
gli donava?
Sherlock
fece un passo
all’interno della stanza, senza perdere di vista il gatto che
lo fissava coi
suoi occhi rifrangenti. Si chinò su Molly e con estrema
cautela le rimboccò le
coperte fin sotto al mento.
«Non
ti ho mentito, Molly
Hooper», sussurrò quasi in labiale, ma
giurò di aver visto del rossore sulle sue
guance.
Sherlock
accennò un sorriso e
si allontanò silenzioso com’era venuto.
Aprì di nuovo la finestra del salotto e
poco prima di saltare sulla scala d’emergenza
gettò un ultimo sguardo verso la
camera da letto: sorprendendo anche se stesso, sperò che
l’avesse davvero
sentito e che non smettesse mai di essere se stessa.
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