La mia vita era in bianco e nero.
C’era la tua pelle nivea e
c’erano i tuoi capelli di
petrolio.
Eri nocivo da guardare (figurati da
respirare), perché i
tuoi occhi inghiottivano tutto quanto.
Mi avevano informato di pazzia
incombente quando avevo
smesso di sottomettermi ad ogni battito delle tue ciglia ed avevo
iniziato a
risucchiare la tua immagine nelle mie iridi per imprimerla a fuoco.
Avevo compreso malesseri psichici
quando avevo notato che il
tuo viso era stato selezionato, impacchettato e destinato alla memoria
a breve
termine.
Avevo tutta le ossa rotte, ma mi
ergevo come una statua in
diamante: mi brillavano gli occhi, dentro splendevo completamente.
Interamente nella mia mancanza di
componenti, sia mentali
che fisiche, mi ero spinta troppo oltre e la tua perfezione era
diventata arte.
Mi ero sviluppata da quel punto di
vista tanto da non
riuscire più a comunicare con il genere umano; non dire, non
fare, non
sorridere, non mentire, non piangere, non ridere, apatia allettante.
Le poesie migliori si tramutavano in
luoghi comuni, il mio
cervello era stereotipo di insanità mentale.
Tu ridevi, sogghignavi ed i tuoi
denti affilati mi
squarciavano: erano bianchissimi, il sangue invece era come le piume di
un
corvo.
Non ricordavo più il
colore dei tuoi occhi.
(Forse non lo avevo nemmeno mai visto)
I polmoni rivendicavano la propria
libertà, perché respirare
era diventato un lavoro forzato e troppo faticoso.
Avresti dovuto guardarmi per
conoscermi (meglio), perché in
realtà ero un libro aperto. Avevo eliminato ogni traccia di
finzione ed ero
rinata per la seconda volta.
Sembra banale dire “di
nuovo in vita” per chi lo è sempre
stato.
E rimasto.
E rimane.
Un ricordo orribile e frastagliato di
com’ero prima.
Continuo a pensarci, ma non trovo il
nesso logico, come fare
per tornare, perché probabilmente ti sarei piaciuta.
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