Danielle si
svegliò con un sussulto. Si alzò in piedi ed
afferrò il fucile. Ansimava e le sue tempie pulsavano come
percosse da batteristi impazziti. Vedeva a malapena, il rifugio era
immerso nel buio. La sua piccola piangeva e strillava, agitandosi nella
culla improvvisata.
« Cosa c’è, piccola mia? »
chiese in un sussurro. « La mamma è qui.
»
La piccola strillò ancora più forte. Agitava i
pugnetti serrati senza sosta, strofinandoli sul musino contratto dal
disappunto. Danielle si meravigliò per l’ennesima
volta dell’energia che conteneva quel piccolo corpicino.
E, come tutte le notti da una settimana a quella parte, si
spaventò.
Prima di prenderla in braccio raggiunse una delle aperture del rifugio
e sbirciò fuori. La giungla era muta e scura; gli alberi,
grigi e contorti sopra il riparo, ondeggiavano al placido ritmo della
brezza.
Guardò a sud. Il cuore raddoppiò i battiti.
La colonna di fumo nero era ancora là.
Saliva dalle colline, più nera dello stesso cielo notturno.
Di notte era ancora più inquietante, come ogni cosa. Chi la
manteneva scura e costante da giorni?
Nel profondo della sua mente Danielle lo sapeva.
Erano loro.
Quelli che bisbigliavano nella giungla.
Cercò di non pensarci. Cercò di non pensare
nemmeno a Robert.
L’ennesima protesta di Alexandra la costrinse ad abbandonare
ogni congettura. La piccola era disperata e si dibatteva furiosa.
Probabilmente aveva fame, non mangiava dal crepuscolo; oppure si era
sporcata. Danielle la prese in braccio e l’annusò.
No, era pulita. Aveva soltanto fame.
Gli strilli cessarono non appena la bocca della piccola
trovò il capezzolo di Danielle. Insieme si sedettero sul
letto. Ad Alexandra piaceva ascoltare il piccolo carillon di Robert
mentre prendeva il latte. Prestava sempre attenzione alle
note di Bizet che uscivano dal piccolo congegno.
Danielle esitò un attimo.
Se fuori
ci fosse qualcuno, pensò poi,
avrebbe già
sentito la piccola piangere.
Accese il carrillon.
Negli ultimi giorni l’ascolto di quella litania aveva
strappato a Danielle più lacrime di tutte quelle versate per
la morte di Robert. Guardare la ballerina di plastica volteggiare
aggraziata riusciva a deprimerla ancor più del silenzio
della giungla, più della solitudine. Due giorni prima,
durante una crisi di pianto, aveva afferrato la scatola per lanciarla
via. Voleva che smettesse di suonare, di evocare ogni ricordo legato a
Robert.
Poi aveva rinunciato, con il braccio già levato.
Cosa le sarebbe rimasto? Oltre ad Alexandra, nient’altro.
Quando l’ennesima lacrima le rigò la guancia,
Danielle tornò ad interrogarsi su quella scelta. Aveva fatto
bene a risparmiare quell’oggetto? Con un
singhiozzò ricacciò indietro le lacrime ed
accarezzò la testolina di sua figlia, sforzandosi di
sorridere ed annuire. « La musica piace alla mia piccola,
» sussurrò. « E continueremo ad
ascoltarla insieme. »
Fuori un animale lanciò un richiamo acuto. Nel rifugio si
introdusse una folata di vento. Sparse qualche mappa incompleta sul
pavimento e strappò un lamento alla piccina.
Poi, di colpo, Danielle si irrigidì.
Percepì
la
presenza.
Un brivido le scese rapido lungo la schiena.
Aveva sentito molte volte quella sensazione negli ultimi giorni. Quando
la giungla bisbigliava sottovoce era sempre presente. L’aveva
avvertita anche alla Roccia Nera e alla Torre Radio.
La netta sensazione di non essere sola.
Non poteva essere, non nel rifugio. Nel rifugio non era mai successo.
D’improvviso si sentì sola e vulnerabile. Spense
il carrillon e si accucciò di fianco al letto, Alexandra
protestò succhiando più forte. Speventata,
Danielle tese l’orecchio. Non si sentiva niente. Il
generatore stava lentamente borbottando quello che sembrava il lento
lavorio notturno di un frigorifero.
Poi sentì le voci.
Erano vicine, ma sembravano provenire da tutt’intorno al
riparo. Poteva essere la giungla a parlare, così come
qualcosa che si nascondeva nella giungla. Oppure poteva non essere
nessuno, solo uno scherzo della mente.
Una delle voci si fece più vicina.
« No, » sussurrò terrorizzata Danielle.
« C’è qualcuno là fuori.
»
Con le mani tremanti staccò Alexandra dal seno e la ripose
nel piccolo nido di asciugamani. Controllò il fucile ed
allentò il coltello nella fondina. Strisciò verso
l’entrata principale del riparo cercando di fare il minimo
rumore possibile.
Poi il generatore si bloccò di colpo.
Il silenzio si fece così pressante che Danielle
rabbrividì. Strinse la fredda canna del fucile, indecisa se
uscire a verificare la situazione o rimanere acquattata in silenzio.
Gettò un’occhiata alla piccola, era tranquilla.
Probabilmente si sarebbe addormentata nel giro di qualche minuto.
Qualcuno (o qualcosa) bisbigliò forte ed il vento
mugolò in risposta. La cerata che copriva la struttura prese
a schioccare al ritmo delle folate. Danielle si alzò di
scatto, con il cuore in gola ed il fucile puntato, uscì
svelta nell’oscurità. Piccole goccioline le
punteggiarono il viso come aghi. Stava cominciando a piovere. Un
venticello freddo faceva scricchiolare il legno dei fusti.
Nulla di strano, nessuna voce.
Forse,
pensò,
è
tutta immaginazione.
Le risposero i sussurri.
« Ahss… Ahss… Ahss…
» parve sibilare un essere invisibile alle sue spalle.
Danielle si voltò. Nel mirino della sua arma vedeva solo le
ombre della notte. Il suo indice premeva il grilletto tremando. La
canna del fucile ondeggiava al ritmo della sua agitazione.
Si rese conto di aver voglia di gridare.
« Chi siete? Cosa volete? » urlò con
voce traballante.
Le rispose solo il vento.
Abbassò l’arma e si incamminò verso il
generatore tenendo gli occhi puntati sugli arbusti. Il grosso
apparecchio era immobile, ma intatto. Estrasse dalla tasca la torcia
che teneva sempre con se e l’accese. Il fascio di luce
illuminò gli ingranaggi coperti da foglie secche e il
piccolo quadro di comando. Quando notò il tasto di
accensione premuto su OFF soffocò a stento un grido.
Lì fuori c’era veramente qualcuno.
E quel qualcuno aveva appena spento il generatore.
« Ahss… Ahss… Ahss…
»
La situazione si animò in un attimo.
Una folata violenta colpì il rifugio e ribaltò
una cassa di rifornimenti. I sussurri divennero grida e poi tuoni
cavernosi. La pioggia cominciò a cadere fitta dal cielo
divenuto improvvisamente nuvolo. I lampi illuminarono gli alberi,
zigzagando al di là delle fronde.
La paura paralizzò Danielle.
Il suo cuore batteva frenetico, minacciando di esploderle in petto.
Un bambino pianse nel buio.
« Alexandra! » gridò Danielle lasciando
cadere la torcia.
Si mise a correre mentre intorno a lei infuriavano gli elementi.
Un’ombra le tagliò la strada, seguita a breve
distanza da una seconda, più veloce ed ansimante.
Danielle sparò alla cieca. Il rumore del colpo nemmeno si
udì nel frastuono generale. Il proiettile si perse tra le
frasche.
Con l’ennesima sferzata il vento strappò la
copertura del rifugiò, capottandola. Le mappe volarono nella
notte ed Alexandra pianse ancora più forte. Danielle si
gettò a capofitto nella costruzione ormai scoperchiata ed
allagata.
Quando raggiunse la culla della piccola, urlò
d’orrore.
Era Vuota.
Negli asciugamani zuppi non rimaneva che la forma del corpicino di
Alexandra.
Danielle cominciò a mugolare e graffiarsi il volto per la
disperazione. Avevano rapito la sua bambina. La sua piccola adesso era
nella giungla, nel buio, nella pioggia, circondata dalle voci.
Sconvolta e fradicia uscì dal rifugio semidistrutto
dal temporale e caricò il fucile. La pioggia non permetteva
di vedere che a qualche metro, tanto era
intensa.
« Alexandra! Alexandra! » gridò Danielle
al buio.
Dio,
pensò,
hanno
preso la mia bambina!
Desolazione e furia crebbero in lei, scuotendole il petto e serrandole
la gola. Il fucile sparò ancora. Una, due, tre volte. A
casaccio. Poi Danielle lo lanciò via e cominciò a
correre nella giungla. I rami ostruivano la via, lacerandole gli abiti
e sgambettandola più volte senza pietà.
Non possono andarsene
così. Non con la mia bambina!
Corse a perdifiato, senza sosta e senza meta. I sussurri erano spariti,
sovrastati dal fragore della tempesta. La giungla non offriva alcuna
indicazione ed era piena di insidie, nascoste
dall’oscurità e dalla fitta vegetazione.
Danielle aveva il fiatone, la gola secca e le gambe malferme. Le era
penetrata la pioggia fin nelle ossa e sentiva il gelo pervaderle i
polmoni ad ogni respiro.
Si fermò, esausta. « Ridatemi mia figlia!
» singhiozzò.
Nessuno le rispose e lei cadde in ginocchio.
« Ti prego Dio, restituiscimi mia figlia »
pregò con gli occhi annacquati dalla pioggia e dalle lacrime.
Per un attimo udì un debole pianto.
Sempre più lontano, sempre più debole.
Poi i lampi smisero di illuminare il cielo e ci fu solo
oscurità.
Poi smise di piovere ed arrivò il silenzio.
Danielle era sola.
------ Fine ------
E' la prima "storia" che pubblico su EFP.
Colgo l'occasione per salutare tutti quanti e fare i complimenti ai
creatori del sito, veramente stupendo.
Spero di non aver sbagliato qualcosa nella meccanica generale. Spero di
no, nel tal caso, aspetto segnalazioni.
Ed aspetto anche commenti, ovviamente.
Un saluto. Prometto di leggere qualche storia e commentarla.
Avverto che sono pigro...
Teklis (alias Danilo)