C’è
un posto nell’universo, senza tempo e senza spazio,
dove io sto
per assaggiare la tua tacchinella al melograno
e tu per
scartare il mio regalo.
Auguri,
tesoro.
Sette
notti, tutto incluso
1
Quel sole le
stava
friggendo il cervello.
Registrava
l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il
progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una
sorta di curioso interesse accademico.
In quel
momento,
ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a
venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo
di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta
dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e,
dunque, ritenne di essere già fortunata così. A
poterla almeno vedere ancora.
D’altra
parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini
in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto
percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il
sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un
tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava,
quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto,
ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire
qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei
proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di
ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi. Lo
ignorò, senza pietà per la sua recente pedicure
perché fermarsi sarebbe equivalso a rallentarsi, che sarebbe
equivalso a prolungare la loro permanenza sotto quel sole feroce, che
sarebbe equivalso ad un ricovero assicurato in Pronto Soccorso.
Che
poi… ce l’avevano un Pronto Soccorso in quel posto
sperduto del Cilento?
«Ti
voglio bene anche io, tesoro», rispose l’altra con
molto meno sforzo ma tradendo lo stesso una certa tensione nella voce.
Carla esultò in silenzio, perché
l’amica continuava ad essere molto più sportiva di
lei e decisamente più in forma e, questo, era qualcosa che
non le avrebbe mai perdonato davvero.
Ma
avrebbe
mantenuto il passo. Forse sarebbe morta nel farlo, ma era decisa a
proseguire.
«Cristo,
fermiamoci Fra. Sta per partirmi un polmone»
«Se
stai
zitta e cammini, risparmi il fiato. Vedrai che ne varrà la
pena».
Ci
provò
sul serio. Provò a convincersi che la piccola tettoia con
tre centimetri di ombra che aveva intravisto con la coda
dell’occhio alla sua destra non fosse tanto invitante, la sua
unica salvezza dal collasso certo, la sola promessa di refrigerio nella
totale, riarsa immobilità che le circondava.
E il frinire
delle
cicale… le sembrava che quegli insetti fossero milioni, in
agonia più di lei e avessero deciso di stabilirsi nel suo
cranio a tempo indeterminato a dimostrazione che c’era sempre
il modo di peggiorare una situazione già difficile di suo.
«Guarda
che a me della torre Normanna non me ne frega un ca-»
«Shhh!
Non.Pronunciare.La.Parola.Con.La.C!», la sgridò
l’amica, sul volto un’espressione tetra.
Carla
inspirò profondamente ed ebbe la sensazione che il petto le
si liquefacesse. La sua amica aveva ragione, naturalmente.
Si erano
meritate
quella vacanza.
Ogni mail
che s’erano scambiate in
quell’anno, ogni messaggio sul cellulare, ogni brindisi a
festeggiamento di una batosta erano stati una piccola pietra lanciata
su uno specchio d’acqua apparentemente quieto: invece di
sprofondare negli abissi, quelle pietre erano rimbalzate una, due,
infinite volte.
E
l’acqua aveva preso vita.
La loro
amicizia
aveva preso vita.
Era
inquietante
la
sintonia che s’era instaurata tra loro: due amiche, complici
come mai sarebbe accaduto tra due sorelle. Perché loro due
avevano avuto il privilegio di potersi scegliere.
«Giusto.
Niente parola con la C», confermò il loro mantra
delle ultime settimane, quello che continuavano a ripetersi da quando
l’uomo che doveva condurre Francesca all’altare
aveva ritenuto opportuno fare prima una sosta a Caracalla. Anzi,
più di una, così come avevano precisato gli
agenti che avevano arrestato il promesso sposo per favoreggiamento
della prostituzione. Un
cliente abituale, l‘avevano definito.
Come se
avesse
fatto una qualche differenza se fosse stato occasionale.
La sua amica
era
andata in caserma quando il bastardo l’aveva chiamata. Carla
si sarebbe fatta puntare una pistola alla tempia, ma non le avrebbe mai
chiesto il motivo per cui Francesca, avvocato di successo della
capitale, aveva garantito per quell’uomo e l’aveva
fatto uscire. Non era affatto da Francesca, ma si sa: l’amore
rende ciechi. Con la buona disposizione d’animo che
contraddistingueva ultimamente lei, invece, avrebbe corrotto tutti i
trans della Tiburtina e si sarebbe assicurata per quel porco un
biglietto di sola andata per Regina
Coeli.
Poi, nel
cuore
della notte, Francesca aveva bussato alla sua porta e a lei era bastato
un solo sguardo a quegli occhi asciutti come il deserto per capire che
era a pezzi. Dopo qualche giorno aveva fatto i bagagli per entrambe ed
erano semplicemente sparite dalla circolazione per quella vacanza che
programmavano da mesi, da quando Francesca l’aveva ingaggiata
per arredare il suo studio legale, vacanza che non avrebbe dovuto
prevedere una sincope nel Cilento ad agosto, ma esclusivamente Piña Colada
a dicembre su una spiaggia delle Hawaii. Tuttavia il tempo a sua
disposizione era stato quello che era stato e Carla, in last minute, era
riuscita a trovare solo Acciaroli, perla del Cilento e luogo in cui,
molto probabilmente, avrebbe lasciato la pelle.
«Fra,
devo fermarmi. Tu continua, ma se io faccio un altro passo è
altamente probabile che sia anche l’ultimo»,
l’implorò. Implorare a volte funzionava con la sua
amica. Non molto spesso, in verità, e lei si chiese quanto
il bastardo avesse dovuto implorarla per convincerla a tirarlo fuori di
prigione. Sempre se l’aveva fatto. Carla non
l’aveva mai vista cambiare idea se era convinta di qualcosa,
anzi. Solitamente accadeva il contrario: più la pregavano,
più Francesca s’impuntava.
L’amica
la guardò in tralice. «Ti stai
rammollendo», asserì senza scomporsi.
«Il valore storico di questa torre è immenso. Lo
sai che faceva parte di un sistema difensivo di cinquantotto torri su
tutta la costa da Agropoli fino a Sapri, ideato dagli spagnoli nel XVI
secolo?»
«Cerchi
di impressionarmi con la tua memoria fotografica? Guarda che ti ho
vista, stamattina, mentre sfogliavi la guida turistica. Quindi, lo so
perfettamente che neanche a te frega un ca-», le narici di
Francesca ebbero uno spasmo di rabbia, «-volo dei tesori
archeologici della zona. Torniamo indietro, Fra. Stasera ci chiudiamo
in camera, ci ubriachiamo fino a perdere i sensi e domani ci spostiamo
da qualche parte con un po’ più di vita. Palinuro.
O Marina di Camerota. O quello che ti pare»
«…quello
che la guida non riporta, però, è che ci sono dei
cunicoli sotterranei che collegano tutte le torri. Sono stati usati dai
partigiani durante la seconda guerra mondiale»,
proseguì imperterrita l’altra.
Carla si
azzittì perché nella voce di Francesca
c’era quella determinazione contro cui, lo sapeva bene, non
esisteva possibilità di vittoria. Appoggiò una
mano sulla ringhiera rovente in ferro battuto di
un’abitazione lì vicino per sostenersi e si
fermò definitivamente.
«Cunicoli, dici?».
L’idea era allettante.
Tunnel sotterranei, ombra, fresco. E poi non era la cima di una torre
da cui potersi lanciare nel vuoto, per un colpo di calore o per una
delusione d’amore.
«Pare
di
sì. E ho intenzione di corrompere il custode per farci
accedere. Sembra che conservino ancora gli effetti personali dei
fuggiaschi».
Carla
afferrò la ringhiera anche con l’altra mano,
mentre si lasciava scivolare sui primi gradini che conducevano
all’ingresso della casetta di tufo. «Quindi potrei
semplicemente perire nel tentativo di scovare qualcosa che nemmeno le
guide turistiche riportano. Prosegui pure, piccola esploratrice. Io
sono arrivata». E con un sospiro si accasciò sullo
scalino in pietra che le ustionò la porzione di gluteo
lasciata scoperta dagli shorts
che indossava.
L’amica
le lanciò solo uno sguardo, senza tradire alcuna emozione.
«Come vuoi». Si girò e riprese a scalare
la pendenza della strada con rinnovato vigore.
Quando Francesca
svoltò l’angolo ci vollero solo pochi secondi
prima che il rumore dei sandali di cuoio contro
l’acciottolato ardente si affievolisse del tutto e Carla
piombasse nel silenzio di quell’afoso pomeriggio estivo. Non
permise ai sensi di colpa di farsi strada dentro di lei: Francesca
aveva il sostegno della sua rabbia a condurla, ma lei aveva la
pressione massima a novanta nei suoi giorni buoni e quindi una
giustificazione più che valida per parecchi picchi di
pigrizia improvvisi a venire. Rimpianse solo di non essere stata
previdente al punto da munirsi almeno di una bottiglia
d’acqua prima di affrontare il deserto e sollevò
una mano per schermarsi il viso dall’implacabilità
del sole, mentre lanciava uno sguardo alla piccola piazza su cui si
affacciavano diverse abitazioni come quella che aveva eletto a proprio
rifugio.
Per
essere
bella,
Acciaroli era più che bella. Era affascinante, suggestiva.
I muri in
pietra delle
case
erosi dai secoli, la solidità del legno d’acero
dei battenti, gli stretti percorsi di sampietrini su cui si
affacciavano i balconi in ferro battuto e le occasionali torri di
guardia angolari. L’aria. Con il profumo degli agrumi e di
qualcosa di più nascosto, antico, perduto.
Si aveva
l’impressione di essere stati proiettati di colpo nel piccolo
borgo medioevale che, Carla lo percepiva chiaramente, ancora echeggiava
vita e movimento.
Il
movimento,
per
l’appunto.
L’essersi
fermata non le aveva apportato alcun beneficio termico; il calore
sembrava addirittura aver trovato un bersaglio migliore nella sua
staticità e lei seppe con certezza che se non correva subito
ai ripari non avrebbe mai potuto ascoltare la voce della sua amica che
le raccontava entusiasta della piccola esplorazione che contava di
effettuare in quegli improbabili cunicoli sotterranei.
D’istinto
spostò lo sguardo in basso e seguì un breve
tratto di lastricato polveroso immaginando che, forse, in quel preciso
istante lì sotto si stava spostando anche Francesca.
Al fresco.
I suoi occhi
indugiarono al limitare di una piccola viuzza registrando qualcosa di
insolito nel panorama ripetitivo che si proponeva al suo sguardo. Un’insegna
di
legno
consunta penzolava pigramente da uno spuntone di ferro dalla
lavorazione essenziale. Attraverso il velo distorcente del calore,
riuscì a distinguere la parola
“Antichità”, ma la cosa che le fece
aggrottare la fronte era l’altezza a cui l’insegna
si trovava. Circa un metro dalla pavimentazione, ad occhio e croce.
A meno
che
quello
non fosse un paese popolato da gnomi, lì c’era un
sottoscala.
E
c’era
l’ombra.
Il meccanismo a
molla presente nelle sue gambe - che non sapeva nemmeno di possedere -
scattò e Carla si diresse rapida verso il punto designato
dal suo spirito di conservazione.
Ed eccola. La
porta
d’ingresso di una bottega a cui era possibile accedere
tramite cinque, forse sei scalini più in basso. Carla
provò ad indovinare qualche movimento dietro il vetro opaco
dell’anta di legno ma, quando capì che la porta
era soltanto socchiusa, lasciò da parte ogni ulteriore
indugio e scese giù.
*****
«Dio
sia
lodato», sospirò non appena riuscì a
sgattaiolare all’interno del negozio. La variazione di
temperatura non doveva essere eccezionale ma quel piccolo locale
polveroso, stipato di chincaglierie e di ogni genere di oggetti di
varia forma e grandezza, le parve il posto più bello in cui
avesse mai avuto occasione di mettere piede. Brividi deliziosi
iniziarono a percorrerle la pelle scoperta delle braccia e delle gambe,
percepì tutto d’un tratto il sudore che le
imperlava la fronte e la base del collo e capì che,
dopotutto, la felicità era davvero fatta da piccole cose:
tipo un riparo, al momento del bisogno.
Si
guardò intorno.
Più
che
il negozio di un antiquario, sembrava quello di un restauratore.
Tre sedie, di
cui
una azzoppata, attendevano di essere rimpiallacciate intorno ad un paio
di tavolini pieni di bozzi e graffi. Cornici d’ottone
sbiadito ammassate le une sulle altre impreziosivano paesaggi marini o
ritratti di anonimi sconosciuti. Su quasi ogni superficie piana a
disposizione c’era lo scheletro di una lampada da comodino,
un abat-jour
sbilenco o il braccio di quello che, un tempo, doveva essere stato un
pretenzioso lampadario a goccia o a cascata.
«Uhm…
c’è nessuno?», domandò con
scarse speranze di essere disattesa. Non aveva abbastanza fede
nell’umanità per credere che esistesse ancora
qualcuno che lasciava intenzionalmente le porte aperte in sua assenza
e, dunque, si sentì sciocca per quella domanda retorica.
Tuttavia non ricevette risposta e ritenne saggio mantenersi nei pressi
dell’ingresso, mentre riprendeva la valutazione critica
dell’oggettistica del negozio.
Non
c’era
alcun intento espositivo nella disposizione della merce,
stabilì. Eppure lei, che di mestiere faceva
l’arredatrice, vide il potenziale celato dietro quel cumulo
di mobili e cianfrusaglie. I negozi d’antiquariato che talora
visitava a Roma per conto di qualche cliente erano ben differenti:
lucidi, organizzati, efficienti. E, sebbene non avesse una particolare
predilezione per il disordine, dovette ammettere che la trascuratezza
di quel posto aveva una sua attrattiva: la promessa
dell’esplorazione e della scoperta.
Tra
quegli
orologi, ad esempio. A pendolo, a cucù, da parete, inseriti
in orrende statue, intagliati nel legno o nel quarzo.
O dietro a
quello
specchio color oro annerito dai decenni, lì dove uno
scaffale traboccava stoicamente volumi gonfi
d’umidità, con le coste rovinate e le consunte
copertine di cuoio rese lucide dall’uso.
Quel
negozio
poteva rivelarsi la sua Eldorado personale.
Capì
di
aver abbandonato ogni cautela quando prese a rigirarsi tra le mani un
orologio da taschino decisamente antico, con il vetro di protezione
tutto scheggiato e la catena spezzata. Doveva esserci di sicuro un
meccanismo di apertura posteriore della cassa…
«È suo. Per cento
euro».
Carla
sussultò appena e s’impose di continuare a
valutare l’oggetto con attenzione senza voltarsi,
perché infilarsi in un negozio per sopravvivere alla calura
non era tanto scortese quanto arrivare di soppiatto alle spalle di una
persona.
«Per
sistemarlo ce ne vorrebbero almeno ottanta. Credo che le
farà compagnia ancora per un bel po’»,
rispose e lanciò un’occhiata alle sue spalle
mentre riponeva l’orologio su una mensola, assieme ad altri
in condizioni più o meno simili.
Quello che
suppose
fosse il proprietario del negozio era chino su un tavolino bacheca e
nemmeno guardava nella sua direzione.
«Restauratrice»,
sentenziò l’uomo sollevando e abbassando il vetro
del tavolo, prima di spruzzare qualcosa nelle giunture e ripetere il
movimento.
«Arredatrice»,
rettificò lei senza
aggiungere che il restauro era una passione che non aveva mai
approfondito adeguatamente.
«Ah,
ma
allora è nel posto giusto. Quel Trumeau del
‘700 alla sua destra la stava proprio aspettando. Glielo
regalo per quattrocento euro. Un affare». Proseguì
nella sua occupazione mentre lei lanciava un’occhiata al
mobile indicatole.
«Per
un Trumeau
del
‘700 gliene davo anche mille, di euro. Ma quattrocento per un
cassettone con alzata? Senza offesa, ma nel suo negozio fa un
figurone». Carla incrociò le braccia e si
voltò completamente verso quel piccolo imbroglione.
L’uomo,
ancora piegato sul tavolino, sollevò il capo e lo sguardo su
di lei per lanciarle la prima, vera occhiata da quando era
sopraggiunto. E continuò a fissarla anche mentre si
raddrizzava e prendeva uno strofinaccio lercio dalla tasca del suo
pantalone di stoffa scuro per pulirsi le mani.
La ragazza
ricambiò lo sguardo e registrò istintivamente i
dettagli di quel volto. Non avrebbe potuto definirlo bello, come non
poteva definire bello quel locale. Eppure possedeva qualcosa di
accattivante. Forse il taglio degli occhi, forse
quell’accenno di barba, o il rigore di quei capelli tagliati
cortissimi che cozzava con l’immagine di trasandatezza
suscitato dai suoi indumenti.
«Se non ha
intenzione di acquistare nulla, che ci fa nel mio negozio? Vuole forse
vendere qualcosa?». Il proprietario infilò lo
strofinaccio logoro nella tasca del pantalone con un gesto secco e,
prima di chinarsi a sollevare il tavolino bacheca, Carla
notò come un angolo delle labbra dell’uomo fosse
appena piegato verso l’alto.
«La
porta era aperta», aggiunse in tono troppo orgoglioso per
illudersi di non sentirsi obbligata a giustificare la propria presenza
lì.
Lui la
guardò ed inarcò un sopracciglio mentre si
spostava con agilità reggendo il peso tra le braccia.
Carla
osò un’occhiata rapida ad un bicipite che tendeva
la stoffa della camicia che lui indossava. «La porta era
aperta e io stavo morendo di caldo, lì fuori»,
aggiunse in tono molto più mite. «Sono entrata
solo per ripararmi dal sole», confessò.
L’uomo
annuì con fare assorto e sistemò il mobiletto in
un angolo, dopo aver ricavato un po’ di spazio colpendo un
paio di volte col piede una colonnina intarsiata che, evidentemente,
non aveva più diritto ad una doppia – uso singola.
«Dunque lei non è una fatalista»,
commentò acciuffando la pezza lurida nella tasca dei suoi
pantaloni per ridistribuire lo sporco. Osservò la nuova
disposizione e, quando si voltò nuovamente verso di lei, ne
parve sufficientemente soddisfatto. «Eppure, camminando
s’è fermata proprio vicino al mio negozio. Per
sfuggire al sole ha scelto di scendere e di entrare, piuttosto che far
ritorno al suo B&B».
La
studiò pensieroso, prima di incrociare le braccia al torace.
«Non
tutte le cose accadono per caso, Carla».
Minific di tre capitoli.
Uno al giorno, a partire da oggi.
A domani!
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