Mi piacerebbe declinare ogni
responsabilità per questa minuscola shot, ma mi sembra eccessivo, visto che
l’ho sfornata io. Perciò ne declino i diciassette diciottesimi e li appioppo
alle mie Muse.
Una
storia inesistente
Questa
storia non esiste.
Ma
se esistesse, se solo per un momento esistesse, narrerebbe di grandi cieli
tersi e di boschi dai confini tenui, sfumati come nuvole. Questa storia
s’inerpicherebbe per montagne altissime, su, sempre più su, per stradine ripide
e scoscese, poco sicure e molto, molto rischiose. Salita che fosse in cima, si
tufferebbe dagli strapiombi, senza far caso ad altro che all’aria sferzante
contro il viso, gli occhi chiusi e la saettante felicità d’un momento
spensieratamente audace. E, giunta in terra, planerebbe dolcemente, con ali di
fata, ali d’oro, imbevute di splendore e bagnate dalla luce d’un sole complice
e ammiccante. Stirerebbe le gambe e allungherebbe i piedi sull’erba rugiadosa
d’un prodigio mattutino, che serba, nella sua aria rarefatta e limpida, la
promessa di mille, meravigliose avventure.
Si
muoverebbe poi, veloce più del vento e delle risate dei suoi compagni, verso la
laguna e s’immergerebbe, poco poco, nelle sue acque e s’immergerebbe, poco
poco, nei visi seducenti delle sirene, e del loro vociar magnetico si
cullerebbe, poco poco.
Ma
il destino verrebbe presto a tirarle la manica, a sussurrarle, invitante, il
richiamo delle sciabole e delle nere bandiere sventolanti.
E
così, quatta quatta, si alzerebbe sopra la spuma delle onde, per fronteggiare
stoccafissi e filibustieri, che sono poi la stessa cosa, e ridere di loro,
mentre s’allontana già, salutata dalle grida che giurano vendetta e dai
rimbombi delle cannonate, che non la sfiorano nemmeno. Quando si fa sera,
raddrizzato il cappello verde sul capo e pettinata la rossa piuma, si
recherebbe in visita ai pellerossa, come ospite ad una festa in suo onore, per
tossire su un calumet e mimare il canto del gallo. Alla fine della giornata,
raccolta la banda, tornerebbe al suo caldo e sicuro rifugio, fra gli alberi e
dentro gli alberi. Distesa sul suo giaciglio, fra il frusciar delle foglie nel
vento e il trillar dei grilli, penserebbe alla possibilità di assopirsi, che
già il sonno le si anniderebbe in testa e le coprirebbe il capo con il velo
sottile del buio. E così passerebbe i suoi giorni, scanditi a un tempo dalle
note delicate di un’arpa e dal tambureggiare furioso d’una tribù.
Questa
storia si chiama Peter Pan ed ha un sorriso furbo sulla faccia e le orecchie a
punta. Nessuna storia è senza difetti, e questa ha il vizio di farsi un po’
arrogante e piena di sé, tanto che nemmeno la sua ombra può sopportarla, in
quei momenti, e la lascia per andare a spasso da sé, e poi tocca ricucirsela da
soli, che è una bella grana, perché si prova al massimo a riattaccarla col
sapone. A questa storia Agenore non credeva. A Peter Pan, o Prete Pane, alle
scorribande con i Bimbi Sperduti, al richiamo attraente di un’avventura che si
nascondeva dietro ogni angolo della strada, lui aveva preferito altre cose,
cose serie, cose da adulti, così come le aveva preferite ai regali di Natale,
alla glassa sulle torte e ai salti nelle pozzanghere.
Eppure,
forse, c’era stato un tempo in cui anche lui aveva ballato intorno a un fuoco
all’accampamento degli indiani? Non aveva forse sfiorato anche lui le ali
sottili e sfavillanti d’una fata? Non era anche lui tornato solcando i cieli a
bordo d’una nave volante? E se niente di tutto questo esisteva, allora perché
se ne ricordava?
No, un attimo, no.
Dietro
gli angoli della strada non c’era alcuna avventura, nessun balenante incanto,
nessun’isola che aspettava solo di essere esplorata. Dietro gli angoli della
strada che Agenore percorreva, c’era solo la via che lo portava all’ufficio,
come d’abitudine.
Lui
aveva i suoi baffi impomatati, le scartoffie sulla scrivania, i capelli che
andavano ingrigendosi sulle tempie, il mettere su pancetta e qualche volta
l’Opera, tutto ciò che faceva di lui una persona rispettabile. E per quelle
strade, sicure e confortanti, si muoveva meccanicamente, inseguito dai
rintocchi puntuali del Big Ben, per ricordargli che un giorno tutto questo
sarebbe finito, come il ticchettare di un gigantesco, invisibile coccodrillo
che gli venisse dietro per spaventarlo e, una volta o l’altra, per finirlo.
Ma
cosa c’entrano i coccodrilli? Niente coccodrilli, nella sua Londra umida e
fumosa. Se proprio di animali dobbiamo parlare, limitiamoci a qualcosa di
domestico, come un cane. Un cane che si ostini a fare da tata ai suoi figli,
tzè, che sciocchezza. Se lo sapessero a lavoro, gli riderebbero dietro e poi
nessuno inviterebbe più il Signore e la Signora Darling per le feste comandate.
Presto Agenore uncinava Nana per
spedirla in giardino e si apprestava a trasferire Wendy in una camera da
signorina adulta, ché non era più una bambina. E poi volgeva lo sguardo sui
camini della città, dai quali si alzava, a spirali, un fumo denso, così simile
a quello che veniva fuori dalle tende…
No,
Agenore sapeva che quelle tende non esistevano. Lo sapeva.
Sicché,
vedete, questa storia non esiste. Ma se non esiste, allora nessuno l’ha scritta
e voi non l’avete letta.
E
allora perché la ricordate?
Qualche
opportuna spiegazione:
Peter
Pan è quel formicolante senso di avventura che si prova da piccoli, quando il cortile
sul retro è una terra misteriosa e inesplorata. È l’attrazione irresistibile di
un pallone o di una pistola giocattolo o di una bambola, bella e inghirlandata,
che ci aspetta su una sedia. Il senso di eccitazione che ci prende allo stomaco
di fronte ad un regalo da scartare o a una meravigliosa casa sull’albero. È
accattivante e promette talmente tante avventure, che persino una bambina già
quasi grandetta e assennata non ci pensa due volte a seguirlo. Per questo Peter
Pan non è solo una dorata avventura, è anche l’incoscienza. Il Diavolo
Tentatore, che ti si accosta all’orecchio e ti convince, bambina, ad aprire la
finestra e a saltar giù. Abbraccia il pericolo e pretende che tu lo faccia
insieme a lui. È anche crudele, di quella crudeltà totale e illogica dei
bambini, che dura l’attimo in cui si decide di fare uno sgambetto o di
distruggere il castello di sabbia di qualcun altro e poi evapora. Tutti abbiamo
conosciuto Peter Pan, lo abbiamo serbato nei cassetti della nostra mente e poi,
probabilmente, ce ne siamo dimenticati. E anche se ce ne ricordiamo, sono
sensazioni che non abbiamo più provato e che non proveremo mai più. Per questo
motivo mi piacciono romanzo e commedia. Perché fanno ricordare. Come quando nei
Peanuts Linus all’improvviso si sente la
lingua, episodio che mi ha fatto tornare in mente che anch’io da piccola
l’ho sentita e ne sono rimasta sconvolta.
Non
è solo Capitan Uncino, con la sua sconsiderata paura della morte, incarnata da
un coccodrillo che conta ogni secondo che passa, a contrapporsi a Peter. Prima
di lui e come lui c’è il signor Darling, che ha bandito l’infanzia e seppellito
la fantasia dietro le sue scartoffie da ufficio. Lui ha dimenticato. Nella
storia li ho accostati – il Big Ben di Agenore rintocca come il coccodrillo di
Uncino, per esempio – perché nella commedia J.M. Barrie voleva che lo stesso
attore interpretasse entrambi i personaggi. Chiaro che la fanfiction si ispira
al cartone Disney, per cui ho lasciato da parte o sottointesi i riferimenti
all’opera originale.
Bene, tutto questo lo dico qui perché ho la netta sensazione di non essere
riuscita a rendere l’idea, perciò, toh, tenetevi queste note.