Autore: R e d_ V a
m p i r e
Titolo: Dove si
trova il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore
Personaggi: Lovino
Vargas/Italia del Sud, Antonio Fernandez Carriedo/Spagna
Generi: Malinconico,
Introspettivo, Sentimentale
Avvertimenti: What
if...?, Shonen- ai
Rating: Verde
Credits: Titolo
preso in prestito da ''Harry Potter e i doni della morte'' di Joanne
Kathleen Rowling e prima ancora dal Vangelo di Matteo 6,19-23. I
personaggi e bla bla bla non mi
appartengono, ma sono di Hidekaz Himaruya-san e io non ci guadagno
niente con questa cosetta qui.
Note: Il titolo
è stato scelto completamente a caso, non badateci troppo
perchè non sono affatto brava a tirarne fuori di decenti. Il
tutto è ambietato nei giorni nostri, come si può
notare dal discorso fra Romano e Antonio e dalle descrizioni, prendendo
spunto dalla crisi (che la infilano sempre ovunque, perchè
non anche in una fanfiction, dico io. Almeno è buona a
qualcosa - ecco); io c'ho provato, non credo di esserci riuscita
perfettamente, ma vabbè. Non sto a spiegare la citazione di
Romano per quanto riguarda Antonietta (Maria Antonietta), mentre i tre
attentati di cui parla a Ivan riprendono quelli che ci sono stati negli
ultimi giorni a Volgograd. Le frasi in spagnolo sono made in google
translate, quindi non ci faccio troppo affidamento. E niente. E'
più che altro un esperimento e un regalo che mi sono voluta
fare per l'ultimo dell'anno. E che faccio anche a voi. Spamano l'ultimo dell'anno,
Spamano tutto l'anno (?) <3.
Dove si trova il tuo
tesoro, lì sarà anche il tuo cuore
L'aria che si respira
nella stanza di un malato è strana.
C'è
quell'angoscia che ti serra il petto in una morsa feroce, quasi
impedendoti di respirare. Poi c'è la tristezza, che pungola
in maniera fastidiosa e illucidisce gli occhi, facendo raccogliere le
lacrime ai lati di questi senza che vengano però versate.
C'è anche la rabbia, la rabbia che ribolle dentro e viene
trattenuta dai lacci dell'impotenza, in grado di tagliare la carne e
irrigidire i muscoli, ben più dolorosi ed insopportabili di
ferite fisiche. E poi c'è la puzza che ristagna nell'aria,
per quanto si ci affaccendi a farla cambiare, e ti rivolta lo stomaco
come un calzino costringendoti a combattere contro le ondate di nausea.
Ma
non c'è solo questo.
C'è
un sentore più lieve, qualcosa di indefinito e impalpabile
che non riesci a cogliere appieno, sfuggente com'è: la
speranza. La speranza si infratta in ogni angolino, si nasconde nella
piega di ogni cuscino e fra le lenzuola. Tu non riesci a vederla, ma
c'è. E questa ti permette di rimanere nella stanza e al
contempo ti invoglia a fuggirne il più presto possibile.
Può essere così crudele, menzognerà
com'è, la speranza.
Eppure
in quella camera padronale, in ombra per via delle pesanti tende che
ricoprono gli ampi finestroni e permettono unicamente a tenui fasci di
luce impolverati che trovano spiragli fra questi di riversarsi in pozze
più chiare sul pavimento scuro, non c'è il
cattivo odore che aveva temuto di trovarvi una volta messo piede
lì dentro.
Non
c'è il nauseante puzzo di morte che si aspettava, ma la
calda se pur sottile fragranza della terra buona battuta dal sole
cocente. La stessa che sentiva sempre, da bambino, quando entrava
lì dentro. Ma anche se adesso, respirando piano, non ne
avverte che quello che è solo un ricordo della sua infanzia,
è quasi sollevato di poter risentire quel profumo nostalgico
dopo tanto tempo.
L'ha
così tante volte ricercato, dopo essere andato via. Ma per
quanto calde, le estati della sua Sicilia non sono mai riuscite a
donare alla propria terra quella stessa fragranza che ha sopperito al
profumo di una madre mai avuta, nei suoi ricordi.
E'
un colpo di tosse a riscuoterlo dai suoi pensieri, costringendolo a
strizzare gli occhi per poter vedere in quell'infida penombra. Anche se
non ci riesce perfettamente, ricorda bene quella camera. E la sente
così tristemente vuota, quando un tempo era invece
così ricca di tutto. Sono rimasti pochi spartani mobili ad
arredarla, quelli che il padrone di casa è riuscito a
salvare come non è stato in grado di fare con il resto della
sua dimora.
L'immenso
armadio di noce pregiata, scurissimo e solcato da venature
più chiare, in cui da bambino amava nascondersi per poi
frugare fra gli eleganti vestiti che sembravano quasi nascosti
lì dentro, come parte di un segreto, chiedendo poi ad alta
voce perchè non venissero indossati al posto di quegli abiti
da contadinotto che prendevano solo un'anta del vecchio mobile. Spesso
in risposta otteneva solo una risata e poi che venisse tirato fuori da
quelle mani brune e grandi, sempre calde e profumate di terra e sole.
«Quel che
importa veramente eso es lo que hay en ti. E' ciò che sta dentro,
mi pequeño» a quel tempo non capiva cosa volessero
dire quelle parole e si limitava a scalciare per farsi lasciare e
strillare insulti, ricevendo in cambio solo altre risate e una carezza
a scompigliare i capelli ramati.
Se
volge di poco lo sguardo verso destra può scorgere il
baluginare del proprio riflesso; ma è distorto, rimanda solo
un'ombra scura che non può davvero credere appartenga a
sè. Avvicinandosi noterebbe come il vetro sia impolverato,
infranto in una rete di piccole crepe macchiate di chiazze scure.
Probabilmente è solo un miracolo che lo tiene ancora insieme
ed impedisce alla superficie di crollare in mille pezzi, abbandonando
la cornice di puro argento annerito dal tempo e dall'incuria in cui
è ancora incastonata.
Ma
non sono l'armadio, lo specchio o lo scrittoio di chissà
quale epoca - proprio non ricorda - ad attirare la sua attenzione.
Questa è tutta per ciò che sta al centro della
stanza, e che viene baciato da qualche tenue fascio di luce. Quel tanto
che gli basta per accorgersi del rosso cupo, delle frangette dorate
rovinate, di quelle pesanti tende che si aprono come su di un
palcoscenico, mostrando invece gli intarsi nel legno del letto a
baldacchino. E gli occhi si arrampicano lungo le coperte fin troppo
candide, tanto da ferire lo sguardo anche nel buio, sentendo l'ansia
montare e il cuore battere più forte, al punto da credere di
avercelo in gola, per ogni centimetro guadagnato.
E'
tentato ad indietreggiare ed indietreggia, in virtù di una
codardia che l'ha sempre contraddistinto, accucciandosi alla porta da
cui è entrato e stringendo forte il pomello su cui ancora
posa una mano, come a voler assicurarsi una via di fuga. Quasi temesse
che abbandonandolo e addentrandosi lì dentro, questa si
richiudesse alle sue spalle per non aprirsi più e quella
stanza finisse per fagocitarlo e non lasciarlo più andare.
«...non
pensavo saresti venuto.»
E'
una semplice considerazione, esalata da una voce greve ma sempre la
stessa, anche se fiaccata dalla malattia. Capace però di
fare male al pari di una coltellata in pieno petto e privarlo del
respiro, malgrado la tosse che senta ancora rimbombare nel silenzio non
sia la propria, ma quella dell'altro.
«Non
sono venuto per te, bastardo»
Fa
strano, deve ammetterlo, chiamarlo così dopo tanto tempo.
Magari non è poi una gran novità,
perchè ha questa tendenza ad usare ugual premura con tutti.
Ma non ha mai usato quel particolare tono di voce, nell'appellare allo
stesso modo il crucco mangia-patate, ad esempio.
Questo
il malato deve saperlo, perchè un sorriso compare
nell'ombra, si affaccia timidamente dalle labbra che sembrano non
piegarsi a tale uso da tanto ed aver quasi dimenticato come si faccia.
E se solo l'altra Nazione potesse vederlo, è quasi certo che
scapperebbe davvero senza voltarsi più indietro.
«No,
ovviamente. Perdóname,
sono muy grosero.
Ma ho qualche - cough, piccolo problema logistico. Non ti
dispiacerà se non mi alzo per salutarti come si
deve.»
Sembra
quasi una domanda, anche se non viene pronunciata con quell'intenzione.
C'è quasi la reminiscenza della stessa scanzonatura con il
quale gli si approcciava un tempo, ma è troppo fragile e
ostentata per poter essere vera. E poi c'è la cortesia, che
non sembra abbandonare l'iberico nemmeno quando è costretto
a letto in quel modo tanto meschino.
L'italiano
stringe forte la mano che non artiglia la maniglia della porta, volta
il viso ed emette uno sbuffo stizzito. In realtà cerca solo
di nascondere l'indecisione che lo morde e gli impedisce di muoversi;
non avanzare, non tornare indietro. Incapace come sempre di prendere
una vera e propria posizione.
«Stai
zitto, deficente. Sprechi solo fiato.»
Il
sorriso nell'ombra tremola un po', fino a sparire del tutto sostituito
da un sospiro sofferto, che aleggia nell'aria. Sembra quasi
accarezzarlo, raggiungerlo e sussurrargli di rassegnazione e
disperazione. L'italiano è quasi del tutto certo che l'aria
satura di quella stanza lo stia facendo completamente uscire di senno.
«Roma...
Romano ven
aquì» lo chiama, ed è un
battito saltato il suo cuore. Ancora un colpo di tosse, e finalmente
può scorgere quegli occhi così verdi fissarlo con
vero dolore «Por
favor»
Suona
tanto come una preghiera, più che una richiesta. Italia del
Sud non ci riflette, non ci pensa proprio mentre la sua mano abbandona
l'ultima ancora, immergendosi nella stessa oscurità che
ammanta l'altro. Rabbrividisce quasi, sfiorando con la punta delle dita
le coperte, intravedendo il profilo del corpo magro da esse celate;
anche se non dovrebbero, rimangono un piacevole contrasto con quella
pelle più scura, di sangue non proprio puro. Del sangue di
un figlio bastardo
della propria terra, a cui ha dato tutto e da cui poi è
stato prosciugato.
Il
viso che ha davanti ha ancora la bellezza di un tempo, se pur sofferta.
C'è ancora, nei lineamenti scavati, nei segni scuri che
ombreggiano gli occhi. Nel pallore che rende innaturalmente
più chiaro, quell'incarnato che dovrebbe essere invece cotto
dal sole.
E
sono proprio gli occhi a catturare l'attenzione dell'italiano, occhi
verdi che ardono e non sa se è follia o dolore o speranza,
ciò che li anima. Forse tutte e tre le cose.
Quello
sguardo capace di catturarlo ed annientarlo come nessuna guerra
è stata in grado di fare. E che lo incatena a lui ancora una
volta, anche quando pensava di essere ormai libero da tempo.
«Sono
felice che tu sia qui»
«Sei
ridotto malissimo, bastardo»
Questa
è una sua propria considerazione, volta a distogliere
l'attenzione dall'altro da una questione ben più spinosa che
non sia la propria salute. L'iberico fa spallucce, accenna un altro
sorriso e poi allunga a fatica una mano oltre il bordo delle coperte,
con il palmo rivolto verso l'alto.
Romano
rimane a fissarla per lunghi istanti prima di deciderci ad appoggiarci
sopra la propria, avvertendone un calore quasi bruciante al contatto
delle pelli. Sentendosi ardere, dove quelle lunghe dita da musicista lo
sfiorano. Quasi tentato di ritirarla bruscamente per far cessare di
tremare il suo corpo. O forse solo il suo cuore.
«Neanche
tu sei messo troppo bene, mi
pequeño» fa notare semplicemente lui,
con un candore ed una serietà che oggi come ieri sono in
grado di spiazzarlo.
Lo
stupore viene cacciato presto, sostituito dall'irritazione ed un altro
sbuffo; come se non si fosse visto allo specchio, lui. Come se non
notasse quanto è dimagrito, malgrado si sforzi di mantenere
un'apparenza curata, con i capelli ramati in ordine e il ricciolo
svettante al lato del capo, senza mai un filo di barba e di nuovo nella
sua divisa militare, usata fin'ora solo nelle parate e nelle grandi
occasioni. Non pensava sarebbe mai dovuto tornare a indossarla, questa
volta per combattere una guerra interna. Una guerra ancora agli inizi,
combattuta per strada dal popolo contro il popolo. Spera che non
debbano mai arrivare a vederla nascere davvero.
«Chi
è messo bene, in questo fottuto periodo? Forse solo quel
bastardo magia-patate di Ludwing. E quello scemo di mio fratello gli va
ancora dietro... proprio un bel momento, doveva scegliere quel crucco
di merda per ''aiutarlo a camminare sulle sue gambe''. Parla tanto di
rigore e tolleranza, lui...» sputa fuori, proprio non riesce
a trattenerle le parole amare nel ripensare a Germania e quello che sta
facendo a Veneziano. E tutti loro. Ma onestamente a lui non frega
niente, il problema è il suo sciocco fratellino; non sa come
ne uscirà dalla crisi con quella testa di cazzo bionda tutta
birra e wurstel.
«...di
certo non quel pervertito di Francis. Dovresti vederlo, quante arie si
dà. Come se avesse la soluzione in tasca, lui. Gli
finirà come ad Antonietta, te lo dico io» nel
parlare finisce per sedersi sul materasso, al fianco del malato che si
limita ad ascoltare il suo sfogo, stringendogli la mano.
«Persino Ivan! Cazzo... l'hai sentito, no? Neanche l'essere
il diavolo in persona lo salva dal venire preso di mira... tre
attentati in così pochi giorni... forse ha smesso di fare
paura come un tempo. Non ci giurerei, è ancora fottutamente
inquietante...»
«I
tempi cambiano, Romano» mormora dolcemente il ragazzo seduto
contro i cuscini, sfiorandogli il dorso della mano con un pollice. Un
sopracciglio rossastro freme, ed una smorfia si disegna amara sulle
labbra dell'altro.
«I
tempi sono sempre gli stessi, si limitano a cambiare e ritornare
ciclicamente. Non è niente che non abbiamo già
visto. Per questo mi fa incazzare tanto il fatto che torniamo a
caderci.»
Di
nuovo un sorriso si apre sulle labbra smunte dell'altro, facendo
reagire il Sud Italia con uno scatto nervoso di capo e spalle.
«Che
hai da ridere, bastardo?»
Spagna
scuote appena il capo, i riccioli neri che gli incorniciano il bel viso
lo mettono in ombra per un istante, ricadendogli più lunghi
e disordinati sulle spalle. Questo lo fa sembrare ancor più
dolorosamente bello, e costringe l'italiano a distogliere lo sguardo.
«Sei
cresciuto, mia piccola Italia... forse l'Indipendenza ti ha fatto bene,
alla fine.»
Quello
è un tasto dolente. Anche Antonio può leggerlo
negli occhi nocciola, screziati di verde, della Nazione più
giovane. E' una ferita aperta per entrambi. Nel silenzio rotto solo dai
loro respiri - quello affrettato dell'italiano e quello profondo e
affaticato dell'iberico - possono entrambi risentire gli echi del
passato. Il suono di una porta chiusa, che non riesce a coprire il
«Me ne vado».
La disperazione davanti ad Austria, nel rivendicare testardamente il
possesso su un territorio non più proprio.
Il
primo a muoversi è proprio Romano. Allunga la mano libera
con incertezza, esitando nel posarla su una guancia magra dell'altro.
Quasi temendo un contatto così diretto, o ritrovarsi di
nuovo incatenato a quegli occhi.
«Non
ha fatto bene a te, España»
La
Nazione più grande sorride ancora, piegando il capo ed
appoggiando la propria mano su quella dell'italiano per premersela
contro e impedirgli di sfuggire. Sembra quasi riprendere colore, solo
grazie a quel gesto.
«Si
accetta sempre la sofferenza per il bene di chi si ama, mi niño»
E
Romano Vargas vorrebbe solo piangere, adesso. Piangere e rifilare una
testata allo stomaco di quel grandissimo idiota che continua a
sorridere, ma si trattiene solo perchè non è
più un bambino e perchè significherebbe aggravare
ancor di più le condizioni di salute dell'altro.
E
allora si limita a sollevare le coperte e lasciarsi scivolare
lì sotto, al fianco dell'iberico sorpreso, accucciandosi
contro di lui e nascondendo il viso contro il suo petto, ostinatamente,
come faceva da bambino.
«Romano...»
«Sta
zitto, i-idiota»
Ci
vuole qualche istante per assicurarsi che quello non sia un sogno e
riprendersi dallo stupore, ma poi le braccia di Spagna lo avvolgono, lo
tengono strette e lo cullano.
Risente
ancora il profumo della terra baciata dal sole, dei campi di pomodoro
in estate, il suono della musica allegra a riempire le sere troppo
calde e troppo lunghe. E sente di poter riposare, di avere una
preoccupazione in meno. Di essere nel posto giusto.
Spagna
sorride contro il suo capo, preme le labbra screpolate contro i suoi
capelli morbidi, attento a non toccare quel ricciolo dispettoso, quasi
cede ad un sonno che dopo lungo tempo sa potrà essere
ristoratore.
«Te quiero,
Romano»
«Sono a casa,
Antonio»
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