All’ombra della quercia di mezzadria
“Davvero non le avete mai provate?” chiese la
ragazza bionda tra il meravigliato ed il divertito, per poi continuare
“Allora, avanti, che state aspettando, prendetene una! Sono un po’
care, è vero, ma io non ho certo bisogno di soldi per rimediarmene un
paio...è incredibile come voi altri uomini riusciate a mettere il sesso
davanti ad ogni altra cosa, anche davanti al denaro, ma, in fondo, un po’
di ginnastica non fa mai male, no? Avanti, dunque, non fate complimenti, favorite
pure!” ripeté Silvia porgendo loro, anche con una certa
insistenza, le due canne appena rollate.
“E proviamo allora...” fece il ragazzo dai
biondi ricci, ma non riuscì neppure a portarla alle labbra che
l’altro lo fermò prendendogli il braccio.
“Alessandro, non credo che dovresti...” disse
guardandolo dritto negli occhi, le iridi di un azzurro chiarissimo velate da
un’ombra di preoccupazione più che palese.
“Avanti Manuel, che vuoi che sia?” e ignorate
tutte le preoccupazioni -o, come le chiamava lui, paranoie- dell’altro,
cominciò a fumare, mentre Silvia ghignava soddisfatta.
Sarà stato perchè quando era molto piccolo
-avrà avuto all’incirca quattro o cinque anni- si era visto morire
davanti agli occhi, per overdose, un barbone o perché sua madre lo minacciava
costantemente di morte anche solo se si fosse azzardato a fumare una semplice
sigaretta, che Manuel, al contrario del suo migliore amico, rifiutò
l’offerta della bionda.
“Com’è?” chiese a
Alessandro tra il curioso ed il preoccupato e quello roteò gli occhi
spazientito, sbuffando.
“Guarda che gli ho dato solo una tirata e poi mica fa
subito effetto...” lo rimproverò e la ragazza non potè
trattenere un’odiosa risatina.
“Certo che sei proprio un ingenuotto, eh
ragazzino?” lo schernì lei per poi rivolgersi all’altro
“Si può sapere dove l’hai raccolto?” chiese
riferendosi a Manuel come se stesse parlando di un cane randagio trovato per
strada.
“E chi se lo ricorda più come ci siamo
incontrati...” rispose Alessandro che ora
cominciava a sentire i primi effetti dell’erba.
“Come sarebbe che non...” ma non riuscì a
finire la frase.
“Senti, ma non è ora che tu vada?” gli
fece l’amico, evidentemente scocciato, e Manuel dopo aver dato uno
sguardo all’orologio che aveva al polso saltò giù dalla
panchina, allarmato.
“Dannazione! Devo attaccare tra cinque minuti!”
esclamò agitato, montando in sella alla sua bicicletta “Ci si
vede!” gridò loro cominciando a pedalare veloce verso la zona
più bassa e più vicina al grande lago che bagnava, compreso il
loro, più di una quindicina di paesetti di campagna.
E così, mentre Alessandro contava le formiche,
dividendole in due gruppi distinti: quello delle formiche verdi e quello delle
formiche gialle, Manuel se ne stava a torso nudo in
mezzo a un campo, intento, per sei euro e mezzo l’ora, a raccogliere
meloni, con la schiena a pezzi e la pelle ambrata dal sole.
Nella settimana che seguì, Manuel non ebbe molto
tempo per uscire ed andarsene a bighellonare come, invece, aveva fatto durante
tutta l’estate, in quanto stretto tra il lavoro e le paginate di versioni
di greco da fare, rigorosamente, all’ultimo momento, ma
quel venerdì, liberatosi da ogni impegno e con in testa un bel
programmino per il weekend, s’alzò tardi, fece colazione con un
piatto di pasta ed una bistecca per poi partire, chitarra in spalla, alla volta
del poggio, dove aveva appuntamento con Alessandro che, Manuel pregava e
sperava vivamente, non fosse in compagnia di quella ragazza di nome Silvia.
Le sue preghiere furono ascoltate, ma solo per metà,
così come solo per metà le sue speranze divennero fatto certo, in
quanto, se lei non c’era, c’erano dei segni, delle tracce, per
così dire, che ne indicavano, senza alcun dubbio,
il passaggio, una per tutte la canna che Alessandro stava per accendersi quando
Manuel arrivò correndo come un pazzo.
“Ancora con quella robaccia?” esclamò
ansioso, poggiando la chitarra a terra e sedendosi sulla panchina per meta già
occupata dall’altro che sbuffò visibilmente seccato.
“Cazzo, ma che sei mia madre?” gli chiese acido
ficcandosi in tasca la causa della sua irritabilità “E comunque
non sono affari che ti riguardano...”
“Come sarebbe?” sbottò indignato e sia
nell’espressione che nel tono di voce non seppe nascondere né
l’amarezza per quella risposta così sgarbata, né,
tantomeno, la preoccupazione nei suoi confronti.
Se c’era qualcosa che Manuel non sapeva e non avrebbe
mai saputo fare quella era proprio mentire.
“Comunque io mi sto solo preoccupando per te, per la tua salute...” tentò di
giustificarsi e Alessandro parve quasi infastidito da quelle parole.
“E’ proprio perché stiamo parlando della
mia vita, della mia salute che io posso farne ciò che voglio, quindi non
rompere...” lo rimbeccò brusco “Chiuso il discorso.
Piuttosto, si può sapere che mi devi dire di tanto importante?”
Manuel, che per un attimo lo aveva fissato con gli occhi sgranati e la bocca
semiaperta, con un’espressione così meravigliata, ma al tempo
stesso così idiota che face innervosire Alessandro non poco, tornò immediatamente in sé, riacquistando la
sua solita verve, o almeno così sarebbe parso a chi non lo conosceva
bene come il suo migliore amico.
“Giusto! Devo illustrarti il nostro programma per il
weekend!” dichiarò allegro “Ho chiamato Filippo e lui mi ha
detto che se ci portiamo i sacchi a pelo possiamo dormire a casa sua e suonare
per tutto il giorno! Mirko mi ha assicurato che si occuperà del cibo,
tanto lui cucina bene, e poi...”
“Bello.” lo interruppe ironico l’altro,
fingendosi interessato “Allora, mi raccomando, divertitevi...” e il sorriso scomparve dalle belle labbra di
Manuel.
“Come sarebbe a dire divertitevi? Tu non vieni?” gli domandò indispettito
per poi vederlo annuire.
“Ho già un altro impegno e non posso proprio
rimandare...” gli spiegò semplicemente, Manuel, però
capì.
“Esci con quella ragazza di nome Silvia?” intuì,
pregando però di sbagliarsi, di essere saltato a conclusioni affrettate,
di avere frainteso tutto.
“Sì.” gli
rispose Alessandro senza neanche guardarlo in faccia, come se si vergognasse,
poi chiarì “Ha detto che vuole farmi conoscere alcuni suoi
amici...”
“Capisco...” sbuffò deluso, ma
determinato più che mai a togliersi un dubbio che l’aveva
assillato non poco dall’ultima volta che l’aveva visto “Rimanendo
in tema...le hai mentito, vero?” gli chiese quindi, per poi spiegarsi
meglio “Quanto lei ti ha domandato come ci eravamo conosciuti e tu le hai
detto che non te lo ricordavi...stavi mentendo, no?”
“Avanti, non dirmi che te la sei presa per una
stupidaggine del genere! Santo Dio quanto sei permaloso!” esclamò
l’altro più che meravigliato “Ragiona, non potevo certo
dirle che quando ci siamo conosciuti mi hai salvato il culo da un branco di teppistelli!
Diamine Manuel, hai tre anni meno di me, avrei fatto
la figura dell’idiota!”
A quelle parole Manuel non rispose, non disse nulla, anche
se di cose da dire ce ne sarebbero state tante, anche troppe forse.
“Comunque sia quella roba non ti fa bene,
tutt’altro...” si limitò a ripetergli infine, dopo un
silenzio che ad entrambi pareva esser durato troppo “Quella roba non
risolverà né i tuoi problemi, né...” ma l’altro
non gli dette neppure il tempo di finire la frase.
“Problemi? Tu sei
fratelli minori li chiami solo
‘problemi’? A momenti mia madre non sa nemmeno che esisto e mio
padre è troppo impegnato a stare dietro a tutti quegli stupidi marmocchi
per accorgersi che ci sono anche io! Le esigenze degli altri hanno sempre la
precedenza sulle mie e nessuno, e
dico nessuno, si preoccupa
minimamente per il sottoscritto! No, tu non sai niente di me, tu non hai idea di quanto faccia schifo la mia vita, tu non sai cosa vuol
dire quando non c’è nessuno
che ti ama!” a quelle parole, pronunciate con rabbia e con forza,
qualcosa, nell’animo di Manuel, cedette e l’ira nelle iridi di
scuro zaffiro di Alessandro si trasformò in stupore quando il pugno
dell’altro gli arrivò diretto e violento sullo zigomo destro,
facendogli scricchiolare sinistramente la mascella e buttandolo a terra.
“Sei uno stupido!” gli urlò in faccia
seguendolo a terra, afferrandolo per lo scollo della maglietta a mezze maniche
e scuotendolo forte “Sei un fottutissimo vittimista del cazzo, uno
smidollato che gode nel piangersi addosso e nell’auto commiserarsi perché
ha troppa paura dell’amore, hai
capito bene, dell’amore che gli
altri provano per lui! Nessuno ti ama? Nessuno ti ama, dici?!” e nel
pronunciare queste ultime parole alzò ulteriormente la voce, mentre i
suoi occhi s’illucidivano, velandosi di lacrime “Mi consideri
davvero così poco? E’ tutta qui la fottutissima considerazione che
hai di me e dei miei sentimenti? Io darei la vita per te, e tu dici che nessuno
ti ama? Se quello che vuoi sentirti dire è che ti odio allora te lo
dirò: Io ti odio! Ti odio! Ti
odio! Ti odio più di qualsiasi altra cosa o persona al mondo, ti odio
più di quanto tu possa odiare me! Sei contento adesso? Sei contento
adesso, brutto vittimista di merda? Ora che ti ho offeso anche io, ora che ti
ho detto che ti odio potrai commiserarti a tuo piacimento fino alla fine dei tuoi
giorni! Affoga pure nella tua ipocrisia, nella tua codardia, tu che non hai
né il coraggio di farti amare né, tantomeno, quello di ammettere
d’essere un vigliacco, dando la colpa agli altri! Manda pure a puttane la
tua vita, la tua salute,
perché sono tue e di te non me ne frega più niente,
hai capito? Non me ne frega più niente!” ma
le stille salate che gli scivolavano copiose dagli occhi, ardenti di rabbia e
di dolore, tradirono clamorosamente i suoi veri sentimenti. E mentre le lacrime
di Manuel cadevano sulla pelle del volto di Alessandro,
dolorose come spine, quest’ultimo si chiedeva come avesse potuto essere
così cieco, così egoista, così codardo.
Aveva davvero bisogno delle canne, della polvere e
dell’alcol o forse era solo un fottutissimo capriccio il suo?
Gli strattoni di Manuel pian piano s’indebolirono,
fintantoché le sue mani non si fermarono, lasciandogli la maglietta e
anche la voce, prima irata e furiosa affogò in un muto pianto, mentre il
respiro gli si spezzava per colpa dei taciti singhiozza e della foga che gli
avevano arrossato il volto e gli occhi.
“Ti odio...”
mormorò ancora, rivolto, più a se stesso che all’altro,
quasi per auto convincersi di quello che, mentendo spudoratamente, diceva, per
poi alzarsi in piedi, prendere la chitarra ed andarsene via, il più
lontano possibile da lì, il più lontano possibile da Lui.
Portare all’esasperazione Manuel non era mai stata una
cosa facile, eppure lui c’era riuscito con una facilità più
che impressionante.
La maggior parte delle persone danno amore solo quando sono
sicure di poterne ricevere a loro volta, basando il proprio rapporto con gli
altri su quel sentimento -sempre più raro a trovarsi- chiamato
gratitudine.
Manuel, però, ben presto, ancor prima di Alessandro, aveva imparato che è proprio la
gratitudine il sentimento che più facilmente cade vittima
dell’egoismo, ma non si era scoraggiato, anzi, aveva continuato ad amare,
nonostante tutto, con una costanza ed una determinazione a dir poco
invidiabili, anche se la cosa non gli riusciva bene come avrebbe voluto, di
biasimare se stesso sempre prima degli altri.
Non era stata, però, la carenza,
da parte di Alessandro, di gratitudine -a quello, ormai, ci si era abituato da
molto, molto, tempo- a far saltare i nervi al povero Manuel, bensì la
mancanza di fiducia che l’altro aveva avuto nei suoi confronti, la paura
di un sentimento tropo grande e da troppi ritenuto sbagliato e che avrebbe potuto rovinare, irrimediabilmente, la loro
amicizia.
L’unica colpa -e assieme punizione- di Manuel
consisteva nell’averlo amato troppo e con un’umiltà ed un
buon cuore tali che, alle volte, era stato impossibile, e non solo per lui, non
approfittarsene almeno un po’.
Aveva sbagliato, ne era più che consapevole;
desiderava il perdono, ma non lo pretendeva perché, perché pretendere sarebbe stato
l’ennesimo atto d’egoismo nei confronti dell’altro,
l’ennesima ferita da aprirgli nell’anima senza curarsi del suo
dolore, della sua sofferenza.
“Che c’è Alessandro,
non ti diverti?” gli chiese Silvia urlando per sovrastare la musica
techno-house sparata a tutto volume dall’enorme stereo nel salotto di
casa di lei.
Il ragazzo allora si guardò intorno, posando lo
sguardo su quelli che avrebbero dovuto essere i suoi nuovi amici e si chiese
che cosa diavolo ci facesse lui lì, in quell’orgia d’idiozia
e stupidità, quando avrebbe voluto solo correre da Manuel.
“Hei Alessandro, dico a te! Ti senti bene?” insisté
la ragazza, ma anche stavolta non ebbe risposta. No, Alessandro non si sentiva affatto bene, tutt’altro: il nodo che
gli chiudeva lo stomaco s’allentava solo per lasciar salire verso
l’esofago, come pieno di spilli, una sensazione di nausea insopportabile.
Aveva bisogno di Lui, aveva bisogno di Manuel; qualcosa in
lui fremeva all’idea di averlo accanto a sé, come accanto a
sé lo aveva avuto per tanto tempo.
“Io me ne vado!” esclamò d’un
tratto, alzandosi in piedi di scatto e scavalcando Silvia per poi correre verso
l’uscita di quella dannatissima casa.
Nonostante la veneranda età, avrà avuto
all’incirca una novantina d’anni, l’enorme quercia di
mezzadria -così chiamata perché, con le sue possenti radici,
piantate in profondità sulla cima del colle più alto del piccolo
comune di campagna, separava i campi che un tempo erano appartenuti ai
mezzadri- si elevava imponente per circa una quarantina di metri, protendendo
le sue braccia verdi e nodose verso il sole d’agosto che, dall’alto
di un cielo così blu da ferire gli occhi, incendiava l’aria con il
suo terribile calore proiettava sull’erba mezza bruciata l’ombra
della pianta stessa, sotto la quale giaceva, dando quasi l’impressione
d’esser morto, un ragazzo che non dimostrava più di sedici anni.
Se ne stava immobile, disteso a terra sulla schiena, con gli
occhi chiusi ed il petto che s’alzava e s’abbassava piano sotto il
comando lieve del respiro, mentre una debole brezza gli accarezzava leggera la
pelle e cullava, quasi con dolcezza, le corolle scarlatte dei papaveri dai
petali di carta velina.
Manuel aveva sempre adorato quel luogo, sin dalla prima
volta in cui, quasi per sbaglio, l’aveva scoperto: l’altezza della
collina, per quanto modesta potesse essere, garantiva una visione magnifica del
vicino lago; i campi di grano erano coltivati, se non del tutto, quasi come un
tempo e le erbacce non conoscevano i diserbanti, ma solo le mani callose ed
esperte dei contadini dalla schiena rotta dalla fatica e la pelle annerita dal
sole a scoppio, il tutto completato da una gran quantità d’aria
pulita da respirare a pieni polmoni senza il timore, a lungo andare, di
lasciarci le penne.
Tuttavia, la cosa che più di tutte, in quella specie
di locus amenus, aveva colpito Manuel
era stata, indubbiamente, la quercia di mezzadria, quel titano di legno e linfa
che se ne stava fiero sul punto più alto del territorio come a
dominarlo.
All’inizio si era detto che provare ammirazione per
una pianta fosse una cosa alquanto stupida, eppure le sue iridi smeraldine non
potevano fare altro che sgranarsi per lo stupore ogni qualvolta si trovava di
fronte a quella creatura e pensava all’inesauribile tenacia con la quale
questa aveva resistito all’irreparabile scorrere del tempo,
all’infinito mutare delle cose e delle persone, ai coltellini svizzeri
che avevano inciso, sulla sua corazza di dura e spessa corteccia, nomi di
persone unite dall’amore, o il più delle volte, dal capriccio.
Manuel aprì piano gli occhi, l’animo ancora
sconvolto da quello che, in un attimo d’ira, era riuscito a confessargli,
alle bugie, indubbiamente ben poco credibili, che gli aveva urlato contro, in
lacrime e portando la propria attenzione sulla sua amica quercia si chiese se,
come lei, sarebbe riuscito a resistere o se avrebbe finito per spezzarsi come i
nodi delle spighe di grano, rinsecchite ed assetate, battute dal vento.
Si sarebbe spezzato. Senza di lui si sarebbe spezzato, lo
sapeva bene, si sarebbe spezzato.
Chiudendo gli occhi fermò le lacrime che, silenziose,
erano giunte al ciglio e tentò, anche se invano, di concentrarsi su
altri pensieri, mentre le cicale lo pregavano, con la loro solita insistenza, di
unire la melodia triste della sua chitarra, abbandonata poco lontano da lui
sull’erba, al loro coro d’instancabile frinire.
Manuel conosceva ogni rumore di quel luogo, a lui
così caro; sapeva riconoscere i passi stanchi dei vecchi contadini che
l’avevano visto crescere e quelli delle loro vecchie mogli che
l’avevano allevato con i frutti dolci e succosi dei loro frutteti, ma
quel lieve calpestio d’erba che lo scosse dai suoi pensieri non
apparteneva a nessuna delle persone che abitualmente s’arrampicavano,
come lui, fin lassù.
Era un passo leggero,
un passo che aveva seguito per anni e
che ora aveva preso decisamente una cattiva strada, nonostante lui avesse cercato
in ogni modo d’impedirglielo.
“Sei venuto a rendermi il pugno?” gli chiese,
mantenendo gli occhi chiusi, come se a guardarlo in faccia, si vergognasse.
“E’ davvero bello qui...ci vieni spesso, non
è vero?” sviò Alessandro e l’altro sbuffò
irritato.
“Sì e lo sai benissimo anche tu, ma non hai
risposto alla mia domanda. Comunque se vuoi colpirmi fallo pure, ne hai tutto
il diritto, io non reagirò.” tagliò corto Manuel e l’altro
annuì.
“Bene...” mormorò avvicinandosi piano a
lui ed inginocchiandoglisi accanto.
Voleva quel pugno ad ogni costo, lo voleva forse più
di qualsiasi altra cosa al mondo, perché rappresentava per lui il
castigo, l’ultima ferita, quella definitiva e concreta che, o almeno lo
sperava, l’avrebbe separato da lui.
Era dunque più che pronto sia al dolore che al
livido, quando avvertì le mani dell’altro prendergli con
delicatezza il volto e le labbra che tanto a lungo e tanto segretamente aveva
desiderato, posarsi sulle proprie, delicate come petali.
Trasalì, sgranando gli occhi, che colpiti dalla luce,
prima filtrata dalle palpebre, non riuscirono subito a mettere a fuoco il volto
dell’altro, nonostante fosse a pochi millimetri dal suo.
“Volevo renderti l’amore...” gli
mormorò, quasi per giustificare il proprio gesto, con una dolcezza che
non usava più da ormai tropo tempo e con un rimorso vero e sincero per
il dolore causato “Volevo renderti l’amore che mi hai dato senza
mai chiedermi nulla in cambio, volevo ringraziarti per avermi riportato sulla
strada giusta, volevo scusarmi per il mio comportamento di merda e per tutte le
idiozie che ti ho detto, ma soprattutto, volevo fare qualcosa che desideravo fare da molto, molto tempo.”
Manuel non reagì subito, come se dovesse assorbire,
metabolizzare e comprendere quelle parole, quella confessione.
“Io...io credevo di averti perso...”
balbettò infine con gli occhi sgranati, per poi alzarsi di scatto a
sedere ed abbracciarlo, stringendolo forte a sé, tremante.
Non ebbero bisogno alcuno di parole per perdonarsi o per
amarsi e quando il sole cominciò ad affondare nel lago, tingendolo
d’oro e di porpora e Alessandro gli si fu addormentato tra le braccia,
fragile e bello come uno di quei tanti fiori che, come gemme su di un gioiello,
adornavano i campi di grano attorno a loro, Manuel si volse verso la grande quercia di mezzadria e quasi inconsciamente le
sorrise, pensando che, con lui al suo fianco, ce l’avrebbe fatta, avrebbe
resistito, proprio come lei.
Fine.
Ecco, l’ennesimo sclero
della sottoscritta. Vi lascia scusandomi per gli errori sicuramente presenti
nonostante la rilettura e correzione e sperando che recensiate...ciao dalla
vostra Isi.