qualunque cosa
Una brevissima ff AU scritta qualche tempo fa dopo aver buttato giù un rapido schizzo a matita^^
Spero che vi piaccia...^_^
'Qualunque cosa'
'Il tuo strale, fortuna, mi renda il più felice o disgraziato mortale...'
(William Shakespeare, 'Il mercante di Venezia')
La prima cosa che colpì i miei sensi intorpiditi, fu un
nauseabondo e stomachevole odore di naftalina. Arricciai il naso, e provai a
spostarmi su un fianco, ma dovetti constatare che non era stata una grande
idea: una fitta dolorosa risalì la mia gamba, per propagarsi come scossa
nell’anca.
Rassegnato sospirai, e ricaddi tra le bianche lenzuola,
mentre nuvole nere si addensavano con dolore tra i miei pensieri, tra il caldo
di quella asettica stanza d’ospedale. L’orologio alla parete ticchettava
sommessamente, mentre sforzandomi più che potevo cercavo di richiamare alla
mente come e perché mi trovassi in quel luogo.
C’era stata una battaglia, questo mi suggeriva l’istinto,
altrimenti non avrei potuto spiegarmi i dolori che come piccoli vulcani pronti
ad eruttare mi rimbombavano sotto alla pelle, ne tanto meno la lunga cicatrice
ricucita che mi solcava quasi per intero il braccio destro, bruciando come
fuoco. Allungai piano la mano sinistra per arrivare a sfiorarla, e nell’esatto
istante in cui lo feci, come un fulmine a ciel sereno la sua immagine mi balenò
davanti agli occhi.
Lina.
Un turbinio di emozioni si affacciarono nella mia mente
annebbiata, mentre forme confuse si susseguivano deliranti tra i miei pensieri…
Sangue. Troppo sangue.
Troppo anche solo per poter credere, per poter sperare…
Al diavolo.
Senza nemmeno rendermene conto mi ero sollevato dal letto in
cui giacevo, incurante dei dolori che mi si attorcigliavano ovunque nelle
articolazioni. Presumetti di essere sotto l’effetto di qualche tranquillante,
perché quando posai piede a terra, improvvisamente tutto cominciò a vorticare,
e dovetti appoggiare la mano al freddo ferro del letto in cui ero stato
trasportato mentre mi trovavo in stato di incoscienza.
Non sarebbe dovuto succedere.
Ero la sua guardia del corpo, dannazione, perché mi ero
lasciato andare mentre aveva bisogno di me?
Strinsi i pugni talmente forte sull’inferriata da far
sbiancare le nocche, mentre di nuovo le immagini confuse di quanto era successo
mi facevano girare la testa.
Di Lina ricordavo solo una cosa.
Il suo sangue.
Era troppo…Troppo.
Così rosso, così vivido…Non avrebbe dovuto macchiare quella
sua pelle di porcellana, io ero lì per quello, per impedire… che succedesse.
E invece eccomi, talmente incapace da non essere nemmeno in
grado di reggermi in piedi, nella stupida stanza di uno stupido ospedale.
Ma ero la sua guardia del corpo, maledizione.
Mossi un passo in direzione della porta. Le tempie mi pulsavano
tanto da offuscarmi la vista, ma non mi importava, non mi importava di niente.
Improvvisamente un piccolo strattone mi costrinse a fermarmi. Strabuzzai gli
occhi: non mi ero reso conto del piccolo tubicino che collegava il mio braccio
destro alla flebo che penzolava di fianco al mio letto. Non esitai: con un
colpo deciso mi strappai l’ago dal dorso della mano, non me ne facevo niente di
certe frivolezze se non potevo sapere subito dov’era Lina.
La mia Lina.
Dei. Per ogni goccia del suo sangue avrei dato diecimila
volte la mia vita. Ma evidentemente ero troppo idiota anche solo per sperare di
difenderla. Arrivare a quella stupida porta mi stava facendo impazzire.
Ma di colpo mi fermai in mezzo alla stanza, e portai una
mano tremante alla fronte. Tutta la foga che avevo provato solo due minuti
prima di precipitarmi fuori a vedere che ne era stato di Lina improvvisamente
pareva congelata in me.
Perché…
Perché se fuori da quella stanza Lina non ci fosse più
stata…Cosa avrei fatto una volta varcata la soglia?
‘Non dire idiozie…’
Eppure, tutto quel sangue…
Mi resi conto che stavo tremando.
Potevo affrontare tutto, tutto. E nella mia vita l’avevo
fatto, davvero.
Ma non potevo oltrepassare quella porta se fuori di lì non
ci fosse stata Lina ad aspettarmi. E non lo sapevo adesso. Lo sapevo da sempre.
Come sapevo perché la seguivo, perché la difendevo, perché
vegliavo su di lei.
Un lieve pizzicore mi fece tremare le palpebre, e lì,
piantato in quella stanza d’ospedale, per la prima volta dopo molto tempo, ebbi
paura.
Paura da morire.
Non quella paura carica d’adrenalina che mi era capitato di
provare alla vigilia di molte battaglie, ne tanto meno quella paura di
sbagliare o cadere nel vuoto.
Questa era una paura diversa, era una paura cupa e delirante,
che mi attanagliava le viscere e mi impediva di abbassare quella dannata
maniglia, per il terrore di scoprire se avrei rivisto la donna che amavo.
Perché questo era. Io l’amavo, immensamente.
Amavo quei suoi occhi da bambina, i suoi capricci innocenti e la forza del suo
spirito.
Lina, come una tempesta. Come un fiore che sboccia tra la
neve.
Eppure, non ero stato in grado di proteggerla, come tante
volte le avevo promesso.
Mi ero svegliato solo, in un letto d’ospedale, e di lei,
avevo ricordato per primo il suo sangue.
Ed ero tanto vigliacco da non riuscire a varcare quella
porta. Tanto spaventato da non voler scoprire come poteva essere vivere senza
di lei.
Ancora indugiavo, quando, senza che me ne fossi reso conto,
la porta si aprì per me, e una donna minuta, vestita di bianco, scivolò
silenziosamente dentro alla stanza.
Avevo gli occhi velati, e dovetti sbattere più volte le
palpebre per metterla a fuoco, ma quando lo feci fu con uno sguardo accigliato
che dovetti confrontarmi:
“Signor Gabriev, cosa ci fa già in piedi?” Mi rimproverò
l’energica infermiera, i cui occhi si strinsero ulteriormente quando si rese
conto della flebo che spenzolava senza scopo preciso alle mie spalle.
“Ecco…Io…” Mi ritrovai a balbettare, mentre la donna
stringeva le braccia al petto, squadrandomi minacciosa.
“Lei dovrebbe essere a letto a riposare! Non a vagare come un
anima in pena per la stanza…Dove credeva di andare??!”
L’infermiera allungò un braccio verso di me, nel tentativo
di ricondurmi a letto, ma mi divincolai:
“Io…Io devo andare da…Lina.”
Il suo nome uscì dalle mie labbra quasi come una supplica.
E lo era.
E i miei occhi già cercavano tracce di cordoglio nello
sguardo della donna che mi stava dinnanzi.
Ma quello che vidi, riaccese una scintilla.
L’infermiera continuava a guardarmi spazientita, e cercando
di risistemare la flebo, che ancora pendeva sconsolata come il cappio di un
condannato a morte, commentò con noncuranza:
“La ragazza che hanno portato qua con lei…Certo. Ma anche
lei in questo momento ha bisogno di riposare, non è il caso di farla agitare…E
questo vale anche per lei!”
Improvvisamente quella scintilla divenne un fuoco, e un
calore immediato prese a riscaldarmi il petto. La frenesia che avevo avuto di
andare da lei, che si era come congelata nel momento in cui avevo considerato
l’ipotesi di non rivederla mai più, si stava ora sciogliendo velocemente,
lasciandomi impaziente e ansioso.
“Quindi…Quindi sta bene?” Azzardai, e mentre lo dicevo
sentii che il masso che mi aveva oppresso fino a pochi secondi prima cadeva nel
vuoto, lasciandomi leggero come non mai “ Oh per gli dei, mi lasci andare da
lei…”
“Questo non è possibile. Quella ragazza ha assoluto bisogno
di tranquillità…E inoltre…”
Ma l’infermiera dovette bloccare la sua arringa quando la
presi delicatamente per un braccio, guardandola dritto negli occhi:
“Le assicuro che non la farò stancare, non la sveglierò
nemmeno, se sta dormendo…Ma io DEVO vederla. Anche un solo minuto, anche un
secondo…Credevo di averla persa, per sempre…Lei non ha idea di quanto io abbia
bisogno di quella persona…” Pronunciai quelle parole senza nemmeno rendermene
conto. Ormai era tanto palese a me stesso quanto probabilmente lo era stato per
altri che ci erano arrivati per primi.
Senza Lina non vivevo.
Evidentemente, doveva essersene resa conto anche
l’infermiera, perché rimase un attimo a fissarmi a bocca aperta, per poi
scuotersi di colpo:
“E va bene…Ma non la faccia stancare! E’ nella stanza qui a
fianco.”
Sorrisi, e stavo già per abbassare la maniglia, quando la
voce dell’infermiera, di un tono più basso, mi bloccò:
“Ah, signor Gabriev…Non si impressioni.”
Ero già sulla soglia, e la varcai senza darmene troppo peso.
Lina era viva. Solo questo contava, per me.
Massacrata.
Questa fu la prima parola che mi sfuggì dalle labbra quando
mi avvicinai al letto da cui spuntava una spettinata testolina rossa.
Massacrata.
Un sottile tubo collegava la flebo al dorso della sua mano
destra, parzialmente fasciata. Così come il braccio sinistro, e alcune dita.
Numerose escoriazioni e bruciature rivestivano come macabre decorazioni la sua
pelle lattea, resa adesso ancora più eterea dall’orribile contrasto con i
lividi purpurei. Ma la cosa veramente devastante era la benda che le girava
intorno al capo, e le copriva interamente l’occhio.
Adesso ricordavo, davanti a quello scempio… Quella lama
vicina, troppo vicina al suo volto.
E il sangue, che le imbrattava quelle guance da bambola di
porcellana.
E la sua mano, che non smetteva nemmeno per un attimo di
pararsi davanti a me.
Perché quella lama…
“Quella lama, quel colpo… Erano per me, vero Lina?”
Sussurrai sull’orlo del pianto, allungando una mano per sfiorarle piano una
sottile ciocca scomposta sulla fronte.
Quando le carezzai piano una guancia, attento a non toccare
inavvertitamente gli ematomi, un lieve bisbiglio fuoriuscì sommesso dalle sue
labbra pallide:
“Se sei venuto qua a lagnarti, quella è la porta…”
“Lina…”
Lei si mosse piano, e le sue dita si strinsero debolmente
sulle mie. La sua voce era roca, ma allo stesso tempo diretta come sempre:
“Prima che tu possa dire alcun che, non voglio sentire
pentimenti strappalacrime e inutili sensi di colpa. Sono viva, starò bene,
quindi non fiatare se è qualcosa del genere che avevi in mente di dire.”
Io rimasi muto.
Lina centrava sempre il punto in maniera disarmante.
E sapeva senza che glie lo dicessi quanto ci stavo male.
‘Non dire niente…’
Mi abbassai verso di lei, e lasciai che mi prendesse tra le
braccia, carezzandomi piano i capelli.
Sentivo il suo cuore battere veloce attraverso la leggera
stoffa della camicia dell’ospedale, e il suo odore, quel profumo
indimenticabile che era solo suo, prese ad inebriarmi.
E lì, anche tra il
sangue e le contusioni, tra le lenzuola asettiche di un ospedale, tra la
ruvidità delle bende sulle sue dita e il suo respiro dolce, mi resi conto che
ce l’avremmo sempre fatta.
Qualunque cosa fosse successa, qualunque dolore, qualunque
battaglia, qualunque ferita…
Se stavamo insieme, insieme ce l’avremmo fatta.
Questa è l'immagine (Lo so, sono stata sadica con Lina è_é)
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