5 – ONLY A LIFE
Aveva
lasciato la clinica quasi correndo.
La gonna
stretta limitava i suoi movimenti e, una volta arrivata alla macchina, fu il
traffico mattutino ad intralciarla.
Tutto questo
però non la irritò, si limitò ad accrescere la sua eccitazione.
Lacrime di
gioia incominciavano a pizzicarle gli angoli degli occhi, ma si decise a
trattenerle ancora un po’.
Prima c’era
una cosa da fare.
Ad House
bastò sentire il rapido e inconfondibile ticchettio dei tacchi di Lisa Cuddy nel
corridoio che portava al suo ufficio, per capire cosa stava accadendo.
Erano
settimane che non li udiva così vicini.
L’ultima
volta che era stato nell’ufficio del suo capo, lei gli aveva consegnato un
biglietto con l’indirizzo della clinica dov’era in cura; il giorno dopo si era
recato nel maestoso palazzo, poco prima dell’orario di chiusura e aveva fatto la
sua parte.
Non aveva
osato più chiederle niente, e lei era stata particolarmente impegnata in
quell’ultimo mese: tante assenze, riunioni e ore extra d’ambulatorio. Non aveva
mai tentato di fermare qualche sua procedura azzardata; in realtà, non si erano
scambiati che poche parole relative ad un paio di casi.
Tacito
accordo.
Un’attesa
silenziosa, condivisa solo con rapidi sguardi che bruciavano come fuoco.
Fino ad
ora.
Seduto sulla
sua poltrona, lo stomaco stretto in una morsa, ascoltava quei passi avvicinarsi
sempre di più.
Lei non entrò
subito.
Rallentò non
appena i loro sguardi si incrociarono attraverso le pareti di vetro, fino a
fermarsi.
Gli sorrise
al di là di quel vetro, e House ringraziò che ci fosse quella barriera che gli
impedisse di toccarla, afferrarla…avrebbe potuto fare qualcosa di terribilmente
idiota come abbracciarla, e i suoi assistenti erano nella stanza accanto,
concentrati nel risolvere un caso che lui aveva diagnosticato già la sera
precedente, ma pur sempre troppo vicini.
Si alzò e
andò a chiudere le persiane, isolando quel suo piccolo angolo di mondo dagli
occhi indiscreti dei suoi colleghi.
Solo a quel
punto lei entrò.
Gli andò
incontro senza più esitazione, stringendolo in un abbraccio.
Una parte di
sé avrebbe voluto resistere a quella manifestazione d’affetto, ed esserne
nauseato.
Era solo un
desiderio masochista, come ne aveva tanti, che però questa volta non ebbe la
meglio.
I momenti
perfetti devono rimanere tali.
Vanno
preservati.
Questo lo
sapeva anche House.
“Sono
incinta.” le parole si persero sulla pelle del suo collo, facendolo
rabbrividire.
Appoggiò una
mano sulla sua schiena; un gesto automatico, fuori dal suo controllo.
Come i
pensieri che gli invasero violenti la mente.
Le
sensazioni.
La paura.
La dannata
voglia di stringerla forte e insieme l’angoscia di poterle fare del male.
Quando Cuddy
si staccò da lui, House poté vedere che stava piangendo.
E sorridendo
anche, ancora.
“Grazie”
House dovette leggerlo sulle sue labbra perché, pronunciandolo, alla donna non
riuscì neanche un suono.
Si accorse
che gli stringeva forte una mano.
Ricambiò la
stretta.
“Bene.”
Idiota.
Era tutto
quello che aveva da dirle?
“Quanto…?”
indicò con la mano libera la pancia di Lisa, un gesto rapido e impacciato.
“Tre
settimane.” rispose lei, sfiorandosi il ventre con il palmo.
Nei mesi
seguenti avrebbe ripensato a quell’istante ogni volta che le avesse visto
ripetere quel gesto.
“Stai bene?”
sapeva benissimo che bombardarla di domande scontate non avrebbe distratto
nessuno dei due dal particolare che in quel momento gli impediva di pensare
lucidamente: non solo Lisa Cuddy aspettava il loro bambino, ma era così vicina a lui,
con un’espressione radiosa e la mano stretta nella sua.
E nessuno
poteva vederli.
“Sto
benissimo, House.”
Lisa non si
stupì di trovarlo così spaventato.
Conosceva
House, e poteva capire cosa potesse significare tutto questo per lui.
Come accadeva
spesso, moriva dalla voglia di sapere cosa gli passasse per la testa, mentre la
fissava impassibile, combattendo una guerra contro qualunque emozione che
minacciasse di manifestarsi sul suo volto, o in qualche suo cenno.
Un’autocensura costante.
Tranne la sua
mano che non la lasciava.
“Tu come
stai?” glielo chiese con cautela, facendo l’ingresso nel territorio emotivo di
Greg House in punta di piedi. L’unico modo per non esserne buttata fuori con
violenza.
“Sei tu
quella incinta.” rispose il diagnosta, brusco.
Cuddy
continuò a fissarlo, aspettando dell’altro.
House
sospirò, come se le stesse concedendo la vincita di una qualche battaglia. “Sto
come uno che ha memorizzato canali porno sui primi sette numeri del telecomando,
non ha idea di cosa sia quella cosa che cammina dentro il suo armadio da due
mesi ed è fermamente convinto che il ciclo naturale di ogni alimento inizi in
una scatola di latta!”
House le si
avvicinò ancora, fissandola negli occhi. “Almeno due mattine a settimana mi
sveglio sul divano o sul pavimento, con una bottiglia di scotch vuota e una
scatola di Vicodin altrettanto vuota accanto a me. Le uniche volte che ho avuto
a che fare con bambini è stato perché stavano morendo, escludendo quel moccioso
che si era preso l’ultimo lecca lecca alla fragola giù in sala d’aspetto, e ho
dovuto dargli venti dollari per averlo indietro…mi sono sentito quasi in colpa
per aver fatto buttare via venti dollari a Wilson per uno stupido lecca lecca
e…”
“House…” Lisa
tentò di fermarlo, ma il diagnosta non accennò a smettere di parlare, né di
fissarla così intensamente negli occhi, né di stringerle la mano tanto da farle
quasi male.
“Non ho
orari, in realtà non ho neanche un orologio che funzioni. La sveglia si è rotta
qualche settimana fa e mi sta benissimo così. Quando lavoro…” si fermò un
istante per respirare a fondo. “…quando ho un caso non esiste niente di più
importante per me.”
Lisa annuì,
portandosi la sua mano alla pancia.
House esitò
qualche istante, prima di accarezzarla con le dita; la ritirò subito dopo, come
se si fosse scottato.
“Sapevo come
sei prima di chiederti di farmi da donatore, e anche quando abbiamo deciso che
avresti riconosciuto il bambino come tuo. E anche tu sapevi tutte queste cose.
Andrà bene House, no sono certa.”
“Non so
quanto fidarmi di una che si fida di me…”
Lisa non
ribatté nulla, limitandosi a guardarlo ancora per un po’, prima di lasciare la
sua mano e fare un passo indietro. “Preferirei aspettare un po’ prima di dirlo a
qualcuno.”
“A parte
Wilson…” chiese subito House, contrariato.
“Certo, a
parte Wilson.”
“Se vuoi che
non si sappia in giro togliti dalla faccia quell’espressione esaltata da donna
che ha scoperto la cura contro la cellulite e indossa gonne un po’ più
corte…riuscirai a distrarre uomini eterosessuali, lesbiche e bisessuali dalla
crescita del piano di sopra.”
“E per quanto
riguarda gay e donne etero?”
“I gay non ti
guardano e le donne etero…non esistono!”
Lisa scoppiò
a ridere, in un modo così spontaneo da lasciare House di stucco.
“Ve bene,
seguirò il tuo consiglio.”
“Cuddy,
dovrai crescere un bambino, non puoi seguire i miei consigli!” esclamo House
esasperato.
“House, andrà
bene. Fidati di me.” sorprendendolo, lo abbracciò ancora, prima di lasciare il
suo ufficio.
Cinque mesi dopo.
Doveva essere
solo per qualche notte, ma erano passati mesi e lui era ancora lì.
Ogni volta
che ripensava a quella telefonata, arrivata nel cuore della notte, l’eco della
paura gli faceva visita come aveva fatto all’ora.
“House sono
io. Credo di avere una minaccia d’aborto, devo andare subito in ospedale.”
Non si
ricordava cosa le aveva risposto, ma solo che dopo due minuti era alla guida
della sua auto, infrangendo ogni limite di velocità, correndo verso casa
sua.
L’aveva
trovata sulla porta, la mano stretta sul ventre e gli occhi terrorizzati.
“Stai
tranquilla, non ti agitare.” appena aveva sentito il suono delle sue parole,
lacrime avevano incominciato a rigarle il viso.
“House, ho
paura, non posso perdere il bambino.”
“Non perderai
il bambino.” non riuscì a comprendere, allora, dove trovasse tutta quella
sicurezza nel parlarle, nel rassicurarla, mentre le gambe gli tremavano, e la
tensione aumentava quel pulsare doloroso che solo il Vicodin riusciva ad
allontanare.
Erano
arrivati in clinica mezz’ora dopo.
C’erano
volute tre ore di lunga attesa, prima che la stabilizzassero.
“Per adesso è
fuori pericolo, ma la gravidanza è a rischio, dovrà stare in assoluto riposo
almeno fino alla fine del primo trimestre.”
Cuddy aveva
annuito al suo medico, mentre una strana angoscia incominciava a crescerle
dentro.
Era alla
settima settimana di gravidanza, e l’aspettava almeno un mese a letto, senza
poter far niente.
Il
lavoro.
Quando si era
voltata verso House, aveva letto una strana luce nei suoi occhi.
Erano calmi e
sicuri.
Tornarono a
casa all’alba, e nessuno parlò finché non furono davanti al giardino di
Lisa.
“Vado a casa
a prendere un po’ di roba e vengo a stare da te.”
Lei lo guardò
esterrefatta.
Tutto si
aspettava, ma non quello.
“Solo qualche
notte, finché non fai venire qualcuno che possa aiutarti.” precisò.
“Va bene,
grazie.”
Non capì bene
cosa stava accadendo ma qualunque cosa fosse, le dava uno strano senso di
pace.
Doveva essere
solo per qualche notte, ma erano diventati mesi e lui era ancora lì.
La minaccia
d’aborto era passata con la fine del primo trimestre di gravidanza, ma lui
viveva ancora a casa sua.
Dormiva
ancora nel suo letto, mangiava quello che lei gli preparava e i suoi vestiti
occupavano metà del suo armadio.
Dal giorno in
cui le avevano detto che sarebbe andato tutto bene, che non rischiava più di
perdere il bambino, cambiò solo una cosa.
Incominciarono a fare
l’amore.
Quella prima
mattina, dopo la notte passata in clinica temendo il peggio, Lisa gli aveva
chiesto di sdraiarsi accanto a lei, di lasciare perdere il divano.
Avevano
spento le luci, chiuso le persiane; avevano bisogno del buio per recuperare
quella notte d’inferno.
Lei lo aveva
baciato e lui aveva risposto ai suoi baci.
Quei baci,
nelle notti che si susseguirono, diventarono la loro tortura, a cui le carezze
non offrivano che un breve sollievo.
Non osarono
però andare oltre, bloccati dall’idea di qualcosa di fragile che avevano il
compito di proteggere, l’unica cosa così importante da mettersi tra loro e
quella passione che era diventata il dolce dolore di ogni notte.
Dal giorno in
cui le dissero che sarebbe andato tutto bene, che non rischiava più di perdere
il bambino, quel timore paralizzante passò, lasciando solo loro due, ad
aspettare un figlio che sarebbe arrivato, e ad aspettarlo sotto lo stesso
tetto.
Non ci fu
bisogno di dirsi che le cose erano cambiate, che quelle notti insieme non erano
un’eccezione alle loro vite solitarie, ma erano le loro vite stesse, così
drasticamente cambiate.
Il giorno in
cui le dissero che sarebbe andato tutto bene, House fece portare il suo
pianoforte a casa di Lisa, e lei rimase a fissarlo mentre lo accordava,
appoggiata al muro, con le braccia strette intorno alla vita.
Aspettò che
finisse senza parlare, e quando lui finalmente si alzò dallo sgabello e la
guardò, capì che non c’era proprio niente da dire.
Lo baciò con
tutta il desiderio che aveva dovuto reprimere in quelle settimane, inebriata
dalla consapevolezza che questa volta non ci sarebbero stati limiti o
condizioni, e stordita dalla sensazione di libertà, di felicità.
Fu una notte
lunga, che li stremò.
Poi Lisa
tornò a lavorare, pochi mesi che la separavano da un’altra lunga pausa.
Scoprì che
vivere con House le permetteva di svegliarlo di persona ogni mattina, e di non
vederlo più arrivare in ritardo.
House scoprì
invece che c’erano modi di essere svegliati che valevano quelle due ore di sonno
in meno…e Lisa Cuddy ne conosceva parecchi.
Stava per
entrare nel sesto mese di gravidanza, e ormai non c’era nessuno in ospedale che
non sapesse che fosse incinta.
Le magliette
larghe non erano un buon diversivo, quando tutti erano abituati ad ammirare
tutt’altro tipo di abbigliamento.
Per quanto
riguardava l’identità del padre, erano in pochi ad avere ancora qualche
dubbio.
Furono in
pochi a stupirsi, e ancora meno riuscivano a trattenere un sorriso al pensiero
del misogino Gregory House alle prese con la già volubile Lisa Cuddy, in preda
agli sbalzi d’umore tipici della gravidanza.
“Una coppia”,
incominciava a dire qualcuno.
“Come procede
la gravidanza?”
“Incomincia
ad assomigliare ad un ippopotamo.”
“Sei
innamorato di lei?”
“Sei
geloso?”
Era la prima
volta che Wilson affrontava il discorso.
Aveva
assistito in silenzio alla graduale mutazione del suo solitario amico,
combattuto dal sollievo nel vederlo cambiato e dal terrore di vederlo cambiare
troppo.
“Stai per
avere una famiglia.”
“Stai per
perdere un occhio.”
L’oncologo
scosse la testa, sorridendo.
“Odio
quell’espressione soddisfatta.” House lo guardava torvo, rigirandosi un dei suoi
affezionati pennarelli tra le dita.
“Ti ci dovrai
abituare, perché sono davvero molto soddisfatto.”
“Sei riuscito
a vedere le tette della tua assistente?”
“No, ma
finalmente sto vedendo il cuore del mio migliore amico.”
“Omosessuale
represso!”
“Sei
innamorato!” Wilson gli puntò un dito contro, senza smettere di sorridere, ma
incominciando ad indietreggiare verso la porta dell’ufficio di House.
“Sei un
bastardo traditore! Tu…” il diagnosta esitò qualche istante prima di continuare.
“…esci subito dal mio ufficio, bastardo traditore!”
L’oncologo
lasciò la stanza ridendo tra sé e sé, mentre House, frustrato, incassava la sua
prima sconfitta nelle loro battaglie dialettiche.
“Shane?!”
“Si…”
“E’ un
nome…originale.”
“Già…”
Lisa Cuddy
alzò gli occhi al cielo, frustrata dall’ennesima spiegazione che doveva dare in
proposito.
Questa volta,
però, non c’era bisogno di mentire.
Lei conosceva
abbastanza House, da poter capire la situazione.
“L’ha vinto a
poker.”
“Cosa?”
“Il diritto a
scegliere il nome. Ce lo siamo giocati a poker e lui ha vinto.”
“Lisa…ma
perché?”
“Stacy, sono
stata bloccata a letto per due mesi, ed erano i primi giorni che abitava da me…
In qualche modo dovevamo passare il tempo!”
“E giocavate
a poker?”
“Si…anche.”
“Ok, non
voglio sapere tutto ciò che ha ottenuto attraverso quelle stupide partite.”
“Saggia
decisione.”
“E’ il mio
personaggio preferito in The L
word!”
“House, non
puoi dare a tua figlia il nome della tua lesbica preferita!” Wilson sapeva che
era una battaglia persa, ma Cuddy gli aveva chiesto di provare a farlo
ragionare.
“Certo che
posso! Anzi, è un mio diritto! L’ho vinto a poker.”
“Oddio…”
“Credo sia un
bellissimo nome.”
“Vuoi
chiamare tua figlia Shane?”
“Voglio
chiamare mia figlia Shane.”
27 maggio 2008
“Shane House.”
“Shane?”
“Shane.
House.”
L’infermiera
scrisse rapida il nome sulla cartella.
“Bene. Se
vuole può andare da sua moglie. Vi porteremo la bambina tra poco.”
“Lei non è
mia…” tentò di ribattere House, incerto. “Ok, lasci perdere. Faccia in fretta
con mia figlia.”
Non aveva
assistito al parto.
L’idea di
vederla urlare, piangere e soffrire lo angosciava troppo.
Lei aveva
capito.
Come
sempre.
“Sei tu che
hai raccontato all’infermiera che siamo sposati?”
“Noi non
siamo sposati.” la voce di Lisa era debole, ma questo non smorzò la decisione
delle sue parole.
“Appunto…”
House si
avvicinò al letto, spostando inquieto lo sguardo sul suo viso segnato dallo
sforzo.
“Hai un
pessimo aspetto.”
“Ho partorito
neanche mezz’ora fa.”
“E’ inutile
che trovi giustificazioni, hai davvero un pessimo aspetto.”
Fu sollevato
nel vedere, sul viso della donna, un accenno di sorriso.
“L’hai
vista?” la voce della donna era impastata dalla stanchezza.
“No, non
ancora.”
“E’
bellissima, House…”
Il diagnosta
rimase a fissarla in silenzio, mentre una strana sensazione gli scombussolava lo
stomaco.
Come faceva ad essere così forte e così
delicata allo stesso tempo?
Le prese una
mano, mentre con l’altra le scostava una ciocca di capelli dalla fronte
sudata.
Gesti così
scontati per chiunque altro, ma non per lui.
Sentì le dita
di lei accarezzare le sue, ed inevitabilmente i suoi pensieri tornarono a quel
giorno di otto mesi prima, in cui le loro mani si erano strette così forte da
farsi male.
Allora si
stavano aggrappando l’uno all’altra, ma ormai non ce n’era più bisogno.
La
consapevolezza di essere, in qualche modo, insieme, era penetrata poco a poco in
loro, nutrita dagli sguardi, dai gesti, dei piccoli cambiamenti che entrambi
avevano fatto, in funzione di una vita per due.
O per
tre.
L’ostetrica
entrò rapida e silenziosa nella stanza, tenendo la bambina tra le braccia.
House non la
sentì arrivare, e quando si voltò per seguire lo sguardo di Cuddy, si ritrovò
sua figlia tra le braccia.
“Ecco, le
tenga la testa.” l’ostetrica gli sistemò addosso il piccolo fagotto con gesti
esperti, e in pochi attimi era già scomparsa.
House rimase
immobile, fissando un paio di occhi uguali ai suoi, su un viso che ricopriva a
fatica il palmo della sua mano.
Riprese a
respirare solo quando Lisa gli si avvicinò, accarezzando la testa di Shane.
“Prendila
tu.” la supplicò.
La donna
ubbidì, stringendosi la bambina al petto.
House le
guardò, strette l’una all’altra, finché non sentì che tutto quello era troppo
per lui.
Quando Lisa
Cuddy alzò ancora lo sguardo, se n’era andato.
“A che ora è
nata?”
“Un’ora
fa.”
“E cosa ci
fai qui?”
House fece
spallucce, distogliendo lo sguardo da Wilson, che lo fissava allibito da dietro
la sua scrivania.
“Torna
immediatamente in clinica!”
Il diagnosta
alzò una mano verso l’amico, facendogli segno di smettere di parlare.
“Cosa c’è?
Non vorrai tirarti indietro?” Wilson non riuscì a dissimulare l’ansia nella sua
voce.
“C’è metà del
mio patrimonio genetico dentro quella…cosina!”
“Sarebbe un
no?”
“Quella
bambina è un potenziale concentrato di egocentrismo e tendenze manipolative! E
di genialità…ovviamente.”
“Ok, è un
no.” L’oncologo si alzò, girò intorno alla scrivania e raggiunse House,
prendendolo per un braccio. “Ora zoppica fuori dal mio ufficio e torna da
loro.”
“Non l’avevi
detta tu quella cavolata sulla disponibilità degli amici ad ascoltarti, sempre e
comunque?”
“No, ti stai
confondendo con qualcun altra delle persone con cui ti confidi... House,
sparisci.” senza dargli la possibilità di replicare, lo spinse fuori dal suo
ufficio e chiuse la porta a chiave.
“Ciao.”
“Ciao.”
Lisa era
ancora sdraiata nel suo letto; avevano spalancato le tende, e nella stanza
entrava un raggio di sole che si posava tra i suoi capelli.
Shane non
c’era, dovevano averla portata via ancora.
“Ero andato
da…”
“Va bene
così, House.”
Gli sorrise,
e lui non poté fare a meno di crederle: andava bene così.
“Ho messo in
vendita casa mia.” in realtà l’aveva fatto un paio di mesi prima, e l’affare era
stato concluso in settimana, ma non aveva mai osato dirglielo; era un passo
grande per lui, un taglio netto con una vita che una volta era tutto ciò che
aveva e voleva, e che non gli apparteneva più.
Lisa annuì
seria; quella notizia era per lei una sorpresa bellissima ma non voleva metterlo
a disagio con qualche manifestazione d’affetto.
Ormai aveva
capito quando era meglio rispettare la sua avversione per le emozioni troppo
forti.
Quindi fece
finta di niente e cambiò discorso: “Si è scoperto cosa c’era in fondo
all’armadio?”
House sembrò
non capire per qualche istante, poi sorrise. “Criceti.”
“Criceti?”
“Una famiglia
di criceti, per la precisione. La donna delle pulizie portava a casa mia anche
il figlio, ogni tanto…e pare che il moccioso avesse deciso di nascondere la sua
cricetina incinta, che la mamma non gli faceva più tenere, nel mio armadio.”
“Un criceto
ha partorito nel tuo armadio?”
“Si…e ogni
volta che il piccolo bastardo tornava a casa mia, portava loro da mangiare.”
“Oddio…Ma
come hai fatto a non accorgertene? Chissà che schifo là dentro!”
“Sapevo che
c’era qualcosa…ma pensavo fosse qualcosa di più eccitante. Scoprire che si
trattava solo di criceti è stata una delusione.”
Lisa scosse
la testa, ridendo.
“Ora sono
stanca House, ho aspettato sveglia che tornassi ma ora devo dormire.”
“Va bene.
Dormi.”
I loro
sguardi però non accennarono a separarsi.
Lisa sapeva
che era troppo presto, che l’avrebbe solo spaventato.
House sapeva
che probabilmente non avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo ad alta
voce.
Le parole si
possono zittire, ma i pensieri talvolta non accettano di esser messi a tacere, e
invadono con prepotenza la mente.
Ti amo.
Ti amo.
“Ho tenuto
uno dei criceti, è in una gabbia sotto il letto.”
Ma lei
dormiva già.
Esattamente
come sperava House.
Si chinò e si
fermò a pochi centimetri dal suo viso.
Poi si voltò
di scatto verso la porta, per controllare che non ci fosse nessuno: era
solo.
Tornò ad
avvicinarsi a lei e, questa volta, percorse rapido i pochi centimetri che lo
separavano dalla sua bocca e la baciò.
“Notte,
Lisa.”
Il giorno in
cui Lisa Cuddy divenne madre, fu anche il giorno in cui, per la prima volta,
Gregory House la chiamò per nome.
Fine
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