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Il Tempo ha una strana conformazione. Non riusciamo mai
a percepirlo per ciò che è realmente. Se non esistessero gli orologi non saremmo
nemmeno in grado di concepirlo oggettivamente. Tendiamo sempre ad elaborare lo
scorrere del tempo attraverso di noi. Ecco allora che una tediosa lezione sembra
non terminare mai: il Tempo pare aggrapparsi strenuamente ad ogni minuto
passato, le lancette dell’orologio completano il loro periodo con estrema
lentezza. Ma poi ci sono quelle belle serate con gli amici, che vorresti che non
finissero mai. Quelle serate nelle quali il tempo sembra avere fretta di
trascorrere, così che le risate e le chiacchiere hanno ogni istante contato. Si
tenta disperatamente di trattenere quei momenti, eppure scorrono alla velocità
della luce, ci sguillano via dalle mani come i dettagli di uno sogno appena
svegli. Ma il Tempo è strano. Arrivano quei particolari momenti nei quali il
Tempo trascorso pare essere passato in un battito di ciglia, eppure al contempo
sembra essersi dilatato per poter contenere tutti i ricordi. Questa particolare
concezione del Tempo è quella del ritorno dal viaggio. Si era come partiti il giorno prima, ma
quanti luoghi avevamo visitato, quante persone avevamo conosciuto, quante cose
avevamo imparato, quante emozioni avevamo provato…
Temevo il
momento della partenza, sarei voluta rimanere lì per sempre, lì avevo trovato
tutto ciò che andavo cercando. Ma il taxi era giunto inevitabile, le mie valige
erano sistemate nel bagagliaio, io mi ero seduta nel sedile posteriore e
l’autista aveva messo in modo l’auto.
Mi misi le cuffie
del lettore mp3 nelle orecchie: quello era uno dei quei momenti nei quali una
canzone melanconia non può far altro che conciliare i pensieri.
Davvero ero stata a Londra due
settimane?
Ne ero certa?
Avevo lasciato i miei genitori all’aeroporto
due giorni prima…
Kiergaard una volta aveva affermato che la
felicità è un fantasma che esiste soltanto quando è già stato, non potevo essere
più d’accordo. Mi rendevo conto solo allora, mentre ritornavo, che ero stata
davvero felice in quei quattordici giorni. Ma come ero potuta essere felice?
Lontana dai miei cari, separata dagli amici, divisa dalla mia città…
“Quanto tempo sei rimasta a Londra?” mi chiese
l’autista in inglese, scotendomi dai miei pensieri.
Quanto tempo ero rimasta a Londra? Due
settimane oggettivamente, però se avessi dovuto rispondere considerando il tempo
da me percepito non ne avrei avuto idea. Troppo poco e troppo.
“Due settimane,” risposi in quella lingua che
quasi mi ero divenuta automatica.
“Troppo poco,” mi disse l’uomo al volante.
Sorrisi debolmente. Troppo poco. Già, forse era così.
Avevo amato la mia quotidianità. Dovevo
gestire completamente da sola la mia vita, non c’era nessuno che si sarebbe
potuto prendere carico dei miei errori, le responsabilità erano totalmente mie.
Amavo andare a lezione, per quanto spesso i miei compagni fossero antipatici.
Amavo il clima multiculturale. Amavo l’atmosfera londinese. Amavo Greenwich.
Amavo essere sola, ma al contempo non esserlo. Amavo l’inglese e sentirlo
parlare da tutti. Ma, soprattutto, adoravo essere amica di Beatriz.
L’amicizia
con Beatriz era stata una di quelle brucianti. Era stata come un fiammifero: una
scintilla, una potente fiamma e il rapido spegnimento della stessa. Per caso ci
eravamo rivolte le parola, ma poi era stata una folgorazione. Non credo di
essere mai andata così d’accordo con una persona. A me e Beatriz piacevano le
stesse cose, ma avevamo gusti differenti. Ricordo che già la prima sera del
giorno che ci conoscemmo andammo insieme al cinema, all’epoca davano Pirates
of the Caribbean: Dead Man's Chest, e ambedue non vedevamo l’ora di vederlo,
o meglio, di vedere Johnny Depp, quindi la scelta del film non era stata affatto
difficoltosa. Ma quello era stato solo l’inizio. Trascorremmo tutte e due le
settimane sempre insieme. Ecco, riflettendoci ora a mente fredda, capisco cosa
mi piacesse davvero: l’esclusività della nostra amicizia. Io avevo lei, lei
aveva me. Basta. Nessun’altra persona, per quanto poi conoscessimo anche altri.
A cena la prima che arrivava prendeva il tavolo vicino alla finestra; se a
colazione erano rimaste poche brioche la prima ne prendeva anche per l’altra;
nella biblioteca la prima occupava un computer per sé e uno per l’altra.
Sciocchezze a primo acchito, eppure erano cose straordinarie ai miei occhi.
Pensavamo in due. Non c’era nulla di morboso o appiccicaticcio nella nostra
amicizia, sin dal primo giorno ci comportavamo così. Ogni sera, dopo cena, andavamo al
Greenwich Park, il luogo che più ho amato di Londra, e lì chiacchieravamo
passeggiando. Quanto chiacchieravamo! Discutevamo di ogni cosa! Ora guardandomi
alle spalle mi chiedo come fosse possibile che chiacchierassimo così tanto in
una lingua che non era nostra, eppure veniva così naturale.
Mentre ero assorta nei miei pensieri
nostalgici, Londra correva fuori dai finestrini del taxi. Era bellissima. Quel
giorno il sole risplendeva imperante nel cielo, i suoi raggi avvolgevano la
città come mai aveva fatto durante il mio soggiorno. Brutto scherzo, il suo, di
farmi rimpiangere ancora di più la mia partenza.
Il taxi continuava a correre affianco al
Tamigi, e di lì a poco vidi il London Eye stagliarsi in cielo davanti al Big
Ben. Sorrisi tra me ripensando a quel venerdì che decidemmo di andare tutti al
London Eye la sera. Ricordo che faceva un freddo assurdo, tremavo come una
foglia, stringendomi nella mia giacca a vento. Poco lontana da me e Beatriz,
anche lei tremante dal freddo, c’era un ragazzo biondiccio in pantaloni e
maglietta corti: mi faceva gelare ancora di più. Questi all’improvviso si girò
verso di me.
“Hai freddo?” mi chiese, trattenendo le
risate.
“Sì, sennò perché starei tremando?” gli
risposi acida, lanciandogli un’occhiata malevola. “Da dove vieni tu per aver
caldo?! Dalla Siberia?!”
Il ragazzo
si lasciò andare ad una grassa risata. “Quasi,” disse. “Sono russo.”
Nonostante la figuraccia, non potei fare a
meno di scoppiare a ridere.
“Non prendermi in giro, allora! Nel mio paese
ci sono quaranta gradi adesso. Non è colpa mia se nel tuo ce ne saranno
quattro!”
Ridemmo insieme tutta la serata. Il ragazzo si
chiamava Alexei. Chissà dove sarà ora.
Ormai le case andavano diradandosi. La
tranquilla periferia londinese stava prendendo il posto della rumorosa e caotica
metropoli. All’improvviso sentii una grande tristezza afferrare il mio cuore, e
lacrime silenziose iniziarono a sgorgare dai miei occhi. Strano che non avessi
iniziato a piangere prima. È che ormai entrati nell’autostrada la mia partenza
era incontrovertibile. Dieci minuti prima avrei potuto anche fermare il taxi e
scappare. Ma era troppo tardi: Londra era alle mie spalle, l’Italia, invece, era
davanti a me.
Non avrei più visto Beatriz, né Alexei. Non
avrei più cenato nella Cafeteria del campus. Non avrei più dormito nella mia
bellissima camera. Non sarei più entrata nella gigantesca libreria di Greenwich.
Non mi sarei più addormentata il martedì sera con il karaoke del pub sotto la
finestra della mia camera. Non avrei più pranzato con un hamburger davanti al
Cutty Sark. Non avrei più scambiato due chiacchiere con Emma, Lizzie, John e
tutti gli altri addetti del campus. Non avrei più passato le serate al Greenwich
Park con Beatriz. Non avrei più preso la Docklands Light Railway per andare nel
centro di Londra. Non sarei stata più indipendente come in quel momento.
Volevo tornare indietro.
Perché mi era sembrato che la mia vacanza
fosse durata una vita?
Perché mi è parso di conoscere Beatriz e
Greenwich da sempre?
Perché alla fine il mio soggiorno era durato
il tempo di respiro?
Le mie lacrime continuavano a scendere
inesorabili, mi era impossibile fermarle. Anche l’autista le notò.
“Are you O.K.?” mi
domandò, preoccupato, guardandomi dallo specchietto retrovisore.
“I’m just… I’m just gonna miss London…”
risposi, tentando di asciugarmi le lacrime con la manica della maglia.
“Everybody misses London. You’ll
come back soon…”
“I hope so,” dissi, con gli occhi visibilmente
arrossati.
Tra Londra
e Gatwick ci sono parecchi chilometri di campagna. Quella tanto celebrata
campagna inglese, con i suoi prati verdi lussureggianti, gli alti alberi e
piccoli cottage che sbucano qua e là. All’epoca ero fresca dalla lettura di
Orgoglio e Pregiudizio e Ragione e Sentimento, e non mi fu
difficile perdermi nelle mie fantasie. La vedevo Elizabeth camminare per quei
prati per dirigersi verso Netherfield Park per vedere Jane. E immaginavo
Marianne correre in quei campi sotto una pioggia battente, la vedevo cadere ed
essere soccorsa da quel mascalzone di Willoughby. Ma il sollievo di queste fantasie fu breve.
In lontananza si iniziava a scorgere l’aeroporto. In breve tempo il taxi si
fermò davanti alla porta delle partenze. Scesi, raccattai tutti i miei bagagli e
pagai il taxista.
Mi voltai
verso la porta scorrevole e mi venne da sorridere. Solo quattordici giorni prima
mi trovavo proprio lì, in attesa di andare a Greenwich. Due settimane prima non
avevo proprio idea che sarebbe stato il periodo più felice della mia vita. Se
solo fossi potuta tornare indietro! Se solo fossi potuta tornare indietro avrei
vissuto l’intera esperienza con una consapevolezza diversa. Chissà, questa
consapevolezza avrebbe rovinato tutto. No, andava bene così. I ricordi non
sarebbero sbiaditi con facilità.
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