oceano
Autore: Fecalina.
Titolo: Oceano mare.
Fandom: The Hunger Games.
Personaggi principali: Finnick Odair, Annie Cresta, altro personaggio.
Personaggi
nominati: Peeta Mellark, Katniss Everdeen, Johanna Mason, Beetee, Mags,
Enobaria, Presidente Snow.
Timeline: pre-The Hunger Games, The Hunger Games, Catching Fire,
Mockingjay.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Romantico, Drammatico.
Rating: Giallo.
Note ed eventuali
dell'autore: [1] le parti tra virgolette sono citazioni tratte dal romanzo Oceano mare
(Alessandro Baricco, 1993).
[2]Le parti in corsivo sono dei flashback,
quelle normali, invece, sono un eventuale spazio temporale compreso tra
l’ultima capitolo di di Mockingjay e l’epilogo.
[3]I 65° Hunger Games sono i primi ai quali
partecipò Finnick Odair.
[4] E’ la prima fan fiction che scrivo nel
fandom di Hunger Games, quindi spero non sia una schifezza xD In ogni caso sono
aperta ad ogni critica, spero vi piaccia :)
Oceano mare
-Love is like a river: at the end, it becomes something bigger-
“Sabbia a perdita d'occhio, tra le ultime colline e il mare – il
mare – nell'aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento
che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.
Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e
basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità –
verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell'uomo che inceppa il
meccanismo di quel paradiso, un'inezia che basta da sola a sospendere tutto il
grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella
sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona,
minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata.”
Era presto, era l’alba, e due, anzi tre, figure si specchiavano
nell’acqua salata dai colori del Sole. Finnick sorrideva, strofinandosi le mani
sugli occhi per impedire che si chiudessero.
Era difficile, restare svegli, soprattutto con il rumore delle onde in
sottofondo.
Sembravano annullare tutto, quelle onde, anche la voce ferma del padre
che gli chiedeva le reti da pesca, persino la realtà del colpo di tosse
–violento, secco e sempre più frequente- di suo papà.
Finnick scese dalla barca, recuperando le reti e passandole all’uomo:
c’era d a fare, quel giorno, ce n’era sempre, ma quel giorno di più.
L’indomani era la mietitura, e Finnick sapeva che, la Mietitura
–quella parola sussurrata che sembrava spaventare tanto tutti- era un evento
importante.
Capitol City li guardava, quel giorno, più di qualsiasi altro, gli
occhi di una strana donna vestita con colori sgargianti si posavano su di lui
come sul resto della gente che si riuniva in pazza.
Distrattamente, quasi con disprezzo, velato disgusto.
La barca –piccola e diroccata- era pronta per salpare, per
intraprendere il suo viaggio verso l’oceano, quel mondo sconfinato e
meraviglioso che tutti amano, che nessuno capisce, perché: cosa c’è da capire
nella libertà?
Lui non lo sapeva, quella parola non la conosceva, a scuola –tra
guerre e inni e storie sul Presidente- non gliel’avevano insegnato il
significato.
Una sola volta l’aveva sentita pronunciare, in un sussurro sommesso di
un vecchio marinaio al porto del Distretto 4.
L’aveva recepita, criptata, custodia.
Mai pronunciata.
Non sapeva cosa fosse, la libertà, ma sapeva che sapore aveva: quello
dell’acqua del mare.
“Finn, hai preso tu gli ami da pesca?”
Il bambino scosse la testa, gli occhi azzurri puntati su quelli del
padre.
L’uomo sospirò, borbottando qualcosa che a Finnick non era permesso
ripetere.
“Corri, vai a casa prenderli, ma fai in fretta e attento ai
Pacificatori”
I Pacificatori.
Che parola orrenda, Finnick rabbrividiva ogni volta che la sentiva.
Il bimbo scese dall’imbarcazione e corse sulla sabbia, i granelli gli
si insinuavano tra le dita dei piedi, freschi.
Corse a perdifiato fino a casa sua, quella piccolissima abitazione
fatta di due stanze, un bagno e una cucina.
Prese gli ami da pesca e ricominciò a correre, più veloce, perché si
faceva tardi e suo padre doveva cominciare a lavorare, o sarebbero arrivati i
Pacificatori.
Ma Finnick era pur sempre un bambino, così, quando a una decina di metri
dalla spiaggia notò una figura seduta contro una parete, si avvicinò.
“Che ci fai qui?” chiese accigliato alla figura minuta.
“Guardo il mare” rispose questa con semplicità.
“Ma è pericoloso, tua mamma non te lo ha detto che se i Pacificatori
ti trovano qui tutta sola sono guai?”
“Mia mamma non lo sa”
Finnick continuò ad osservarla, confuso: quella bambina andava a
scuola con lui, suo padre aveva un negozio in piazza.
Suo padre era suo cliente.
Era sempre sovrappensiero, però in un modo strana.
Aveva la testa fra le nuvole, ecco.
Ma non avrebbe dovuto, non si può avere la testa fra le nuvole in un
posto come quello in cui vivevano loro.
Nemmeno a 7 anni.
Era strana, ma di uno strano carino, che lo incuriosiva.
Così, quando un Pacificatore gli si avvicinò a passo di marcia,
Finnick le lanciò la scatola con gli ami in grembo, dicendo che era lì perché a
suo padre servivano urgentemente degli ami da pesca.
Il Pacificatore andò via, quella volta, ma avrebbe potuto non farlo,
avrebbe potuto non credergli.
Però, nonostante questo, era stato più forte di lui, l’istinto di
proteggerla.
Lo sarebbe sempre stato.
***
Annie si alza, è l’alba.
Si affaccia alla finestra e il mare le da’ il buongiorno, le onde che
s’infrangono sugli scoglie e i colori tenui di cui si colorano le nuvole hanno
sempre avuto un effetto calmante su i lei.
Scende le scale, sicura di trovarlo in cucina, il vestito biancastro
svolazza mentre lei saltella giù gradino dopo gradino.
E’ seduto sulla sedia di fronte al tavolino, pensieroso e un po’
assonnato, mentre con la mano si strofina gli occhi per non cedere al sonno.
Lei ride, e lui le da il buongiorno, sorseggiando latte e indicandole
la tazza piena dall’altra parte del tavolo.
“Grazie mille”
Lui le tende un piccolo recipiente azzurro “Zolletta di zucchero?”
E si sorridono.
“Allora? Cosa si fa oggi?”
“Si va in barca” le dice lui, ancora il sorriso non ha abbandonato i
loro volti.
E lei non può fare a meno di scompigliargli i capelli biondi e
stampargli un bacio sulla guancia rosea.
“Forse il mondo è una ferita e
qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano.”
Il profondo e immenso blu dell’oceano, immenso e forse quasi profondo
quanto gli occhi di quel ragazzo che amava in un modo incredibile quasi quanto
i suoi sogni ad occhi aperti.
Era il mare: il loro custode, il padrino di due ragazzi che
condividevano un amore innocente in un mondo in cui, per l’innocenza, non c’era
spazio, ma intanto li proteggeva, indignandosi col resto del mondo e
gonfiandosi d’ira, scatenando tempeste.
Le tempeste, nel distretto 4, erano una vera e propria tragedia: il
raccolto veniva distrutto dalla pioggia, il mare incombeva, la marea si alzava
fino, a volte, ad arrivare ad inondare le strade vicino al porto, mogli e figli
in pena per i loro uomini, persi nel mare,
inghiottiti dall’oceano.
Capitol City aveva regole rigido riguardo alla navigazione: aveva costruito una diga, a kilometri dalla
costa, i pesci arrivavano da est e da ovest, dove i territori erano controllati
da squadroni di Pacificatori.
Le misure di sicurezza si restrinsero quando il vecchio Joe provò a
scappare, un giorno.
In realtà non era vecchio, Joe, aveva solo una quarantina d’anni, ma
tutti lo chiamano così, ormai, perché lo sanno tutti che quando si è un vecchio
marinaio si è degni di rispetto.
Fallì, ovviamente.
E il vecchio Joe morì, all’età di 45 anni, con un esecuzione pubblica.
Così arrivarono gli squadroni, e Capitol City imprigionò anche il
mare.
Joe non aveva famiglia, non gli importava del futuro, perché un giorno
in quel mondo non valeva mezza spina di pesce.
I ragazzini, nel buio delle loro camere, facevano a gara ad immaginare
come si fosse sentito quel marinaio una volta oltrepassata la diga, prima che
gli squadroni arrivassero.
Annie era la più brava, ad immaginare, a farlo e tenere quelle
fantasie per se, senza rivelare il segreto di Joe e del suo cuore che si fermò
per un attimo, alla vista dell’immenso oceano che gli donava la libertà.
Ma poi era finita, e quel battito mancato diventò un cuore muto in un
corpo che giaceva sull’asfalto.
Almeno fino a quando il corpo non fu portato via, la tempesta
cominciò, furiosa, facendo scivolare via il corpo d Joe dal furgone dei
Pacificatori, trascinandolo alla riva e poi inghiottendolo.
Così ce l’aveva fatta, l’oceano mare, a liberare Joe.
Ed ora lavorava per Annie e Finnick, che mentre tutti se ne stavano a
casa, mentre i Pacificatori controllavano le
strade, si rifugiavano sulla spiaggia.
Perché nessuno, con il mare che infuriava, si sarebbe avventato nella
parte vecchia del porto, quella dismessa, quella che conosceva Joe.
“Non hai paura?”
Le chiese una volta Finnick, mentre osservavano la pioggia ticchettare
a terra.
“Ci sei tu e c’è il mare. Perché dovrei averne?”
E così, occhi negli occhi, Finnick le sorrise, appoggiando le labbra
su quelle di lei, che avevano il sapore dell’acqua di mare.
Fu lì, in quel capanno, che divennero ciò che sarebbero sempre stati.
Fu lì che, pelle contro pelle, divennero più uniti che mai.
Annie e Finnick.
Intrecciando i loro esseri e le loro anime, incatenando i loro cuori.
Erano piccoli, avevano quattordici anni, ed era il giorno rima della Mietitura:
i 65° Hunger Games*.
Non lo programmarono –come avrebbero potuto farlo?- ma accadde,
accadde e fu come essere cullati dal mare, spinti dalle onde l’uno verso
l’altra, mentre le bocche si cercavano e
le mani di lui si perdevano nei capelli color miele di lei.
E fu forse un Ti amo, forse una carezza a renderli consapevoli che,
loro due, sarebbero stati Per Sempre.
***
Corrono sulla spiaggia, i capelli di Annie
sono mille boccoli di miele che s’intrecciano nel vento.
Finnick è dietro di lei, e corre veloce,
cercando di raggiungerla: le urla di aspettarla, ma lei non lo ascolta, diretta
verso la barca.
Corrono e corrono ancora: veloci,
spensierati, due bambini alle porte di una pasticceria, anzi, più veloce.
Perché quando Peeta va a trovarli corrono
in cucina, golosi di quelle torte che quasi ti dispiace mangiare per quanto
sono belle.
Però ora sono più veloci, ora corrono
contro il vento, inciampano sulla sabbia ma non si fermano, almeno non fin
quando Annie volta la testa.
Il vestito bianco fruscia, Finnick la
guarda rapito.
La testa della donna è rivolta verso nord:
il suo sguardo è troppo alto per guardare il mare e troppo basso per ammirare
il cielo.
“Cosa guardi?” le chiede Finnick,
afffiancandola.
“L’orizzonte. E’ perfetto, non trovi?
Quasi quanto te.”
E ride.
“Aveva la bellezza di
cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la
solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.”
Era passato tanto tempo, davvero tanto, da quando Finnick trovò quella
bambina dagli occhi chiari appoggiata al muro, da quando cercò per la prima
volta di proteggerla.
10 anni, ecco quant’era passato.
Bevve un altro sorso di vino: bianco, perché si sposa bene con il
pesce, e lui amava il pesce.
Era un pescatore, dopotutto.
Erano passati 43 giorni dall’ultima volta che l’aveva vista.
Quarantatre.
Non un ora in più.
Lo sguardo rivolto verso la finestra: fuori il sole non è ancora
sorto, e Finnick si chiese se sarebbe sorto ancora.
Se avrebbe potuto ancora guardare un alba con lei, se lei stessa
avrebbe visto quella imminente.
Strinse la presa sul bicchiere, quasi in procinto di romperlo.
Avrebbe dovuto essere lì, esserci per lei, per prendere il suo posto,
per proteggerla.
Era quello ciò che le aveva promesso: di amarla e proteggerla fino al
suo ultimo respiro.
E invece non aveva tenuto fede a quella promessa, a lei, che era l’unica
cosa della sua vita per ciò valesse la pena rischiare la pelle.
E invece non c’era, era a Capitol City, tra parrucche colorati e
tessuti scintillanti che fasciavano il corpo di perfetti sconosciuti.
Il bicchiere si ruppe, finalmente, nelle sue mani, e lui gridò.
Un urlo sordo, uno disperato, quello di un uomo che aveva spaccato la
sua televisione, quello di un uomo che aveva perso.
La settimana dopo andò a casa di Percy, a guardare quel macabro
spettacolo di cui si era ritrovato ad essere protagonista.
Annie era viva.
Finnick pianse.
Annie vinse.
Finnick pianse.
Annie tornò, e non fu mai più la stessa.
Al distretto era spaesata, rideva istericamente: Finnick le corse
incontro, spionando chiunque intralciasse il suo cammino.
E poi la vide: gli occhi persi, definitivamente, in quel paese delle
meraviglie che da sempre era stato il suo rifugio, quel luogo in cui era
annegato perché oramai il mondo in cui
vivevano l’aveva annientata.
E lei allora era scappata.
“Finn!” sussultò gettandosi fra le sue braccia.
Era Annie, la sua Annie: aveva la bellezza di cui solo
i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine,
perfetta, di ciò che si è perduto.
***
L’alba è il loro momento: di Annie e
Finnick.
Quello di Katniss e Peeta è il tramonto,
si ritrova a constatare Annie mentre scompiglia i capelli biondi di Finn, che
intanto gioca con la sabbia.
L’alba è finita, ma non da molto: il mare
è calmo e il loro giro in barca deve ancora iniziare, ma non c’è fretta.
Quella, ad Annie, non piace.
Finnick si alza in piedi, ignorando la
sabbia e concentrandosi sulla donna
dagli occhi verdi:
“Pronta per il giro in barca?”
Annie osserva le onde del mare alzarsi e
abbassarsi con l’incostanza di chi sa di essere tanto perfetto da non aver
bisogno di seguire schemi precisi.
La perfezione è un dogma, e niente potrà
scalfirla o rovinarla.
“Hai gli occhi del colore del mare” constata
con un sorriso.
Il biondo la guarda attentamente, per poi
scoppiare a ridere.
“Saliamo, forza”
E salpano.
“La prima
cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la
notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima
orrore, l'ottava i fantasmi della follia, la nona è la carne e la decima è un
uomo che mi guarda e non uccide. L'ultima è una vela. Bianca. All'orizzonte.”
Katniss
correva, veloce e di soppiatto: era con Peeta, Finnick riconobbe Johanna.
Sarebbero
stati bene, sarebbero stati tutti bene.
Gli ibridi
erano tanti, feroci, disumani: il pelo folto e la bava alla bocca, gli occhi
vitrei che comunicavano un solo concetto: morte.
Finnick
sapeva che non ce l’avrebbe fatta, che era giunta la sua ora.
Pensò ad
Annie, a cosa stesse facendo in quel momento: magari era a letto, rannicchiata
sotto le coperto, sulle labbra il nome del biondo.
Come avrebbe
fatto? Chi le avrebbe detto che era morto? Come avrebbe reagito?
Pensò a quel
volto tanto bello, a quello sguardo disincantato da bambina di quattro anni,
pensò a come tutto quello sarebbe stato rotto dalle lacrime.
Un colpo
alla testa uccise la bestia davanti a lui, forse non era ancora troppo tardi,
forse avrebbe potuto cavarsela.
Era
sopravvissuto a due Hunger Games, infondo.
Ma non era
di un gioco che si parlava.
Snow li
voleva morti e, stavolta, non era un vincitore che voleva.
Finnick si
voltò per schivare l’attacco di un altro ibrido.
Una luce,
bianca.
Il suo nome
pronunciato in modo soffice, con la voce squillante di una bambina di quattro
anni –Andiamo al mare, Finnick!-.
I suoi
occhi, verdi come un prato in Primavera, così pieni di vita e di sogni e di
speranze, quegli occhi che avevano conosciuto la morte e il sangue e
l’omicidio.
La luce
scompare, e buio fu: intorno all’uomo decine di cadaveri: c’erano Mags e Beetee
ed Enobaria, e poi altri, volti che aveva cercato cercato di dimenticare, volti
che egli stesso aveva sfregiato.
La paura lo
assalì come un animale famelico, facendogli rivivere quegli istanti di terrore,
fame, rabbia.
Quanti
ancora avrebbero dovuto patire ciò che lui aveva vissuto, quanti ragazzi,
bambini avrebbero dovuto uccidere i loro coetanei –loro amici- pur di non
essere massacrati?
Quell’incubo
doveva finire, Katniss ce l’avrebbe fatta, ne era sicuro.
Pensò alla
sua infanzia e pensò che, semmai tutto quello sarebbe passato, se ciò che stava
vivendo non era la morte, semmai avesse avuto un figlio il mondo, per lui o
lei, sarebbe stato diverso.
Fu il suo
ultimo pensiero, quello di lui ed Annie con un bimbo tra le braccia, prima che
la luce ritornasse, prima che aprisse e gli occhi e la vedesse: una vela bianca
all’orizzonte.
L’ibrido
l’aveva colpito.
***
E’ come volare,
come stare sulle nuvole ed essere cullati da qualcosa di ultraterreno, mentre
chiudi gli occhi e il sole ti colpisce in pieno, impedendo persino ora che
l’oscurità ti raggiunga.
E’ così che si
sente Annie, in barca.
E Finnick, beh,
lui si limita a guardarsi in torno pieno di meraviglia, perché ogni volta che
salpano riesce sempre a scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa per cui vale la
pena essere felici.
Passano la
mattina così: seduti sulla barca guardando all’orizzonte, contando le nuvole e
osservando i gabbiani, mentre sotto di loro l’oceano mare li culla, dolcemente,
fino a quando Finnick borbotta che ha fame e ritornano indietro.
La sabbia è
calda, bollente sotto il Sole di mezzogiorno, ma camminare sul bagnasciuga è
piacevole, con i piedi che vengono costantemente bagnati dalle onde.
Finnick corre,
inseguendo un gabbiano.
Quando torna da
Annie ha qualcosa stretto fra le mani: è una conchiglia.
“E’ bellissima,
amore” gli dice accarezzandogli la guancia.
Il biondino le
sorrise, poggiando la testa sulla sua spalla
“Zia Katniss e
zio Peeta arriveranno domani, mamma?”
Annie continua a
stringerlo, annuendo.
“E porteranno
anche Primrose?” chiede il bambino con un pizzico di speranza nella voce,
puntando gli occhi azzurri in quelli verdi della donna.
Annie gli
sorride, annuendo ancora, il bambino ricambia il sorriso: è un sorriso dolce,
fatto di piccoli dentini bianchi e quelle fossette irresistibili.
Assomiglia così
tanto a suo padre.
Il vento soffia,
e loro ridono.
Il mare li
guarda, silenzioso: quello sterminato oceano mare, che veglia su di lor, che ha
giurato di proteggerli, e che lo farà per sempre.
“Sai
cos'è bello, qui? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla
sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai
questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un'orma, un segno qualsiasi,
niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai
passato nessuno. È come se noi non fossimo mai esistiti. Se c'è un luogo, al
mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra,
non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo. Tempo che passa.
E basta.”
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