Nightmares keep you a w a k e.
[l’acchiappasogni]
Ancora una volta gli incubi ti tengono sveglia.
Pensi a quello che ti hanno fatto fare
– non volevi, non volevi, dannazione, non volevi –
e pensi a quello che direbbe tuo fratello se sapesse cosa
hai fatto
– erano persone? sembravano persone, ma loro dicono che
non lo erano, non lo erano, non lo sono vero? –
e vorresti morire e scomparire da qualche parte, in
silenzio: perché se non puoi stare accanto a tuo fratello, allora ti
lasciassero stare almeno con l’altra tua famiglia, quella che non c’è
più.
Ma ti hanno legata a quel letto, per evitare che tu ti
faccia ancora del male.
Non capiscono proprio niente.
Allora giri la testa da un lato, lasciando scivolare le
lacrime sul cuscino, lasciando che i tuoi occhi respirino
– anche se
vorresti solo annegare –
e nel farlo vedi un altro paio di occhi a mandorla
dall’altra parte dell’infermeria: il tuo cuore si ferma per qualche secondo,
prima di saltarti prepotentemente in gola.
Sono occhi simili ai tuoi, che sanno di casa.
Sanno di casa e tu non ragioni più, non ora – la troppa
felicità, forse lo hai scordato, è capace ti toglierti anche le più semplici
facoltà di pensiero.
Per un attimo pensi – Ge Ge! – e lo dici, lo gridi,
piangendo, e tiri quelle catene che ti fermano lì.
Per un attimo pensi – pensavo di non vederti mai più,
mi sei mancato, mi sei mancato, mi sei… - e lo dici, ancora una volta,
gridando e piangendo.
Quegli occhi a mandorla si sollevano su di te,
sopracciglia appena crucciate, braccio teso all’infermiera che lo sta fasciando
per bene. Stretto-stretto.
E’ uno sguardo vuoto, quello di quegli occhi a mandorla: come se non capisse
quello che, nella vostra lingua, gli sai dicendo tra le lacrime. Allora
ti rendi conto che quegli occhi a mandorla non la capiscono, la vostra lingua.
Rispondono qualcosa, quegli occhi a mandorla, ed è una
voce seccata che sei tu, a non comprendere.
Ed in un attimo, quel mondo orribile ed ingiusto è tornato
al proprio posto.
Non è il tuo Ge Ge. Non ti guarderebbe mai così,
lui.
E’ troppo giovane. E’ troppo cattivo.
E’ troppo estraneo, e hai voluto vedere solo quello che
volevi vedere.
Boccheggiando, non hai più voce né lacrime.
Ge Ge.
Ge Ge.
Ge Ge.
Quegli occhi che sanno di casa scostano lo sguardo dal
tuo, e le infermiere che vi stanno guardando sembrano terribilmente deluse, e
sbuffano e alzano lo sguardo al cielo e si scambiano occhiate preoccupate.
E tu lo odi, e lo detesti, perché per un attimo ti aveva ingannata, facendoti
pensare di essere finalmente a casa.
(E tu ti odi, e ti detesti, perché, anche solo per un attimo, ci
avevi creduto.)
Passano due settimane, prima che ti facciano uscire da
quell’infermeria e ti lascino libera di camminare per quel luogo lugubre tutta
da sola.
Ma, ancora una volta, gli incubi ti tengono sveglia.
Ti hanno comprato bei vestitini, carini e vezzosi, sperando che tu decida
finalmente di comportarti come una bambina della tua età: tu non li metti, e le
tue notti sono infestate da incubi di bambole vestite di pizzo e dalle mani di
porcellana infrante, tenute insieme da fili come marionette, che danzano su
cadaveri
– no, no, akuma
–
sporchi di sangue: bambole eleganti, leggiadre, ed
irrimediabilmente rotte.
I vestiti sono lì, nella tua stanza senza chiave
– hanno tolto la serratura tanto tempo fa, per evitare che
potessi chiuderti dentro –
impilati sulla sedia di ciliegio. Pizzi, merletti, colori
sgargianti.
Tu, addosso, hai la stessa camicetta da notte nera e
logora che indossavi due settimane fa e che non ha più un buon odore, ma non
hai alcuna intenzione di indossare quei vestiti e diventare la loro bambola.
Gli incubi persistono, notte dopo notte.
E vorresti dormire, vorresti davvero dormire, ma ti
tengono sveglia.
Devi andar via.
Non è più solo un capriccio, ora. Devi andar via, è una
cosa necessaria per la tua sopravvivenza.
Decidi di farlo, una notte d’aprile.
Ti scoprono sulla soglia, perché il guardiano della porta
comincia ad urlare e ti spaventa e cominci ad urlare anche tu. Ancora una volta
quel tipo buffo della scientifica con gli occhiali spessi e rotondi prega i
finder di lasciarti stare, che non stai bene – non lo capiscono?
Ma lo sai, che è lui che ti ha dato i vestiti.
Quando ti lasciano stare e lui si avvicina, quindi, fai
l’unica cosa plausibile.
Cominci a correre, più veloce che puoi, perché d’altronde
è quello che sei brava a fare.
Ma sei stanca, e non hai dormito, e le tue gambe si
sentono offese dall’incredibile disgusto che provi per loro, e decidono di
abbandonarti proprio in quel momento.
Li senti, i loro passi, che si avvicinano.
Ti legheranno di nuovo a quel letto, in infermeria,
davanti agli occhi di tutte le infermiere.
Le lacrime si affacciano ancora prepotenti ai tuoi occhi,
mentre viri per la grande sala buia che viene usata per l’allenamento di voi
armi per la Guerra – dove sei stata solo una volta, ma che ricordi essere
enorme e speri possa esserlo abbastanza di inghiottirti e farti sparire per
sempre, fra le altre armi di spade e fucili e tutti quegli altri strumenti per
uccidere di cui non hai mai avuto motivo di imparare il nome.
La stanza non è vuota, sebbene sia notte fonda.
Al centro della stanza c’è lui, seduto, e ci sono quegli
occhi imbronciati – chiusi - che sanno di casa e di terra natale, di famiglia e
parenti e amici che non ricordi di aver mai avuto.
Quando chiudi rumorosamente la porta alle tue spalle e il
respiro ti si blocca il gola, quegli occhi si aprono e quel volto si gira verso
di te, colto di sorpresa.
Scuoti forte il capo, affondando i canini nel labbro. “Per
favore, per favore, non dire nulla, non dire…”
Non ti capisce, ed è chiaro, e in quel momento di panico
cerchi di ricordare quelle poche parole che ti hanno forzato giù per la gola,
piuttosto che fatto imparare.
“Per favore…”
mormori, ed il tuo inglese fa schifo ed è a malapena comprensibile,
tuttavia lui sposta lo sguardo sulla porta – rumore di passi – mentre tu,
incespicando sulle tue gambe inutili e traditrici, annaspi verso il catasto di
manichini usati per gli allenamenti.
Ti senti una bambina, mentre ti nascondi dietro di loro e
ti fai piccola piccola.
A volte dimentichi di esserlo, sentendoti solo una
semplice prigioniera di guerra.
Loro entrano. Posano lo sguardo su quegli occhi
imbronciati.
“Cosa ci fai qui?” chiedono, e tu non li comprendi e
smetti di respirare per non farti notare.
Il ragazzino batte ciglio: e con le sopracciglia appena
crucciate, lentamente, risponde. “Meditare.”
Ed è il tempo sbagliato ed il modo sbagliato, ma tu non lo
sai, e non lo sa neanche lui.
“La ragazzina è passata di qua?”
“No.”
Come capisci ragazzina, che dev’essere un altro
modo per dire il tuo nome, “no” è una parola che capisci.
Ed è una risposta secca, di chi vuole essere lasciato in
pace, di chi è impegnato e di chi è totalmente disinteressato del prossimo, al
punto da aiutarlo ignorando la sua esistenza.
Il tuo cuore batte un po’ più forte, perché non gli
crederanno, lo sai che non gli crederanno, e…
Loro se ne vanno.
La porta si chiude.
I passi si allontanano.
Incredula, rimani lì dietro i manichini. Non osi muoverti
di un millimetro, per paura che sentano un rumore e tornino e ti riportino in
quel letto, in quell’infermeria.
Quegli occhi che sanno di casa non ti guardano neppure una
volta, mentre tu tieni i tuoi fissi sulla schiena.
Finchè non si chiudono su un mondo più tranquillo e un po’
meno pieno di incubi di prima.
(Quando ti verrà a cercare, un’ora dopo, ti troverà
accoccolata su un fianco e con un pollice in bocca.
“Gaki.”
Mocciosa, mormorerà, in quella che è la sua lingua e non la tua.
Il giorno dopo verrai trovata e punita e segregata di
nuovo in infermeria, ma avrai passato una notte tranquilla e senza sogni.
Perché, per la prima volta, qualcuno è stato dalla tua parte.)
Mesi dopo, sei ancora una volta nascosta dietro i
manichini. Sono un po’ dei guardiani, quei manichini che si frappongono fra te
e il resto del mondo.
Leverrier ti stava cercando. Volevi solo essere lasciata
in pace da quell’uomo orribile.
E questo è diventato un po’ il tuo lido sicuro. Ci sono
sempre quegli occhi lì, quegli occhi che affermano con sicurezza, ogni volta,
di non averti vista. Quegli occhi che ti ignorano, e ai quali tu sei grata per
questo.
Leverrier è sempre presente nei tuoi sogni, ultimamente:
ti terrorizza.
Gli incubi ti tengono sveglia.
Ogni tanto, in quella stanza con i manichini, quel
ragazzino litiga con il suo maestro, ogni tanto litiga con i suoi compagni, e
comprendi che lui non ha avuto problemi a diventare una macchina
stermina-akuma, e che fa già il suo lavoro sebbene non possa essere poi così
più grande di te.
Non lo comprendi.
“Come puoi?” gli chiedi, allora, mettendo insieme due
parole semplici-semplici e il tuo pessimo accento sdrucciolo, per esprimere
quella domanda che ti rode un po’ dentro.
Lui ti guarda, per una rara volta, con un piccolo broncio
sulle labbra. Forse comprende la tua domanda: tuttavia, invece di rispondere,
si volta dall’altra parte.
Probabilmente, pensi, gli mancano le parole.
Il giorno dopo, loro decidono di non credere più alle
parole di quel ragazzino spocchioso. Trovano il tuo nascondiglio dietro i
manichini, ti tirano su brutalmente e a nulla servono le tue lacrime.
“Non capisci che il mondo ha bisogno di te?” ti dicono, ti
ripetono, ma per te sono solo suoni vuoti.
Quel giorno, sarete puniti entrambi.
Hai tentato di suicidarti ancora una volta.
Perché gli incubi continuano a tenerti sveglia, e vuoi
solo riposare un po’.
Quel ragazzino è spesso in infermeria, sebbene non sembri
mai avere ferite gravi. Tanto sangue, molto sangue, e neppure una ferita. E’
spesso in infermeria, eppure non vi scambiate né uno sguardo né una parola.
Pensi sia arrabbiato con te, perché per colpa tua è stato
punito anche lui che non aveva fatto nulla di male.
Altaleni tra il sonno leggero e la veglia, aleggi sotto il
velo dell’incoscienza.
Tra un momento e l’altro, fra le lacrime che ti destano
dal sonno, vedi due occhi che sanno di casa sospesi sul tuo letto. – Mi ha
perdonata – pensi.
Perché?, pensi.
“Lenalee.” Dicono quegli occhi, preoccupati. “Lenalee,
sono qui.”
“Lenalee.”
Non sei del tutto cosciente, ma piangi lo stesso.
Di gioia, però.
Perché, una parte di te, seppur piccola, lo sa che
il tuo Ge Ge è tornato a casa.
Per un po’ non sei costretta a fare nulla, e gli incubi
vanno via. Passi il tempo nel nuovo ufficio del tuo Ge Ge, gli porti il tè di
Jerry e indossi gli abiti che ti regala lui. Gli unici momenti di timore sono
quelli in cui cominci a dubitare che tutto questo sia reale, e a pensare che
potrebbe essere tutto frutto della tua fantasia e che un giorno ti sveglierai e
gli unici occhi che sanno di casa non faranno altro che detestarti in silenzio.
Ge ge ti insegna l’inglese, dolcemente, e lo fa in una
maniera così buffa che ti fa ridere e non ti sembra neppure di imparare. Ma ti
era dimenticata di essere stata una bambina brillante, e riesci ad imparare
tutto assorbendo come una spugna i raggi solari che tuo fratello emana, e vivi
dei suoi sorrisi e pensi che quella è casa.
Dopo qualche settimana, alla visita di Leverrier, tu torni
in quella stanza con i manichini, ma non ti nascondi.
Ti siedi accanto a quegli occhi imbronciati, e chiudi i
tuoi.
Lui non fa domande, non dice nulla.
Tu sei tranquilla: il tuo Ge Ge è qui con te, e terrà
quell’uomo lontano. Non gli permetterà di farti del male.
Di questo sei sicura.
Quel giorno, prima di andar via, con il tuo inglese
migliorato chiederai il nome a quel ragazzo imbronciato che fa di tutto per non
sembrare una brava persona.
Lui risponderà, evitando di guardarti in faccia, che il
suo nome è Kanda.
E il suo inglese è, incredibilmente, peggiore del tuo
nuovo di zecca.
Dopo un po’, tuttavia, Leverrier si impone su tuo
fratello, perché tu sei un’esorcista e il mondo ha bisogno di te ed è colpa tua
in fondo se un po’ di gente muore e viene trasformata in akuma in giro per il
mondo.
Perché tu, che puoi aiutare le loro anime, ti rifiuti di
farlo.
Questa volta comprendi quelle parole, e comprendi che
vogliono farti passare per un’insensibile.
Vorresti dire che non è colpa tua, che non ce la fai e
basta, tuttavia rimani zitta.
Affoghi quel fiume di parole, arginandolo nelle labbra
strette in una linea sottile.
La tua seconda missione in assoluto – la prima risale, a
dire il vero, a quasi un anno fa - è con Kanda e Marie, e si rivela un
disastro.
Alla fine, infatti, è Marie a doversi occupare di tutto,
perché tu sei troppo terrorizzata per farlo e Kanda è troppo occupato a
prendersi colpi per te e sanguinare per potersi occupare anche di altro.
Quella sera è già fuori dall’infermeria, e tu sei scossa e
non fai che chiedere scusa, e non ti rendi neppure conto che sei tornata ancora
una volta ad esprimerti nella tua lingua madre.
Lui non comprende le parole, ma sembra aver intuito il
senso.
“Non faccio per te.” Dice, con il suo inglese ancora un
po’ sgrammaticato. “Tuo fratello ha chiesto.”
Alzi lo sguardo, battendo ciglio. “C-come?”
“Di tenere d’occhio.” Fa spallucce lui, legandosi i
capelli in modo da scostarli dal viso.
Vorresti dirgli che continua a coprirti fin da prima che
tuo fratello giungesse all’ordine. Non lo fai.
Tu scuoti il capo, e continui a chiedere scusa. Perché non
è la prima volta, che è lui a rimetterci per colpa tua.
Ma Kanda fa spallucce come se non avesse davvero
importanza.
Tu lo sai che ne ha.
Kanda risponde alla tua domanda con quattro mesi di
ritardo – arriverai, conoscendolo meglio, a considerarlo un record di velocità
in quanto a risposte per domande importanti.
“La mia famiglia.” Esordisce, quando siete già tornati a
casa da una settimana, e siete seduti fianco a fianco davanti ai manichini.
Apri gli occhi e lo guardi, ma i suoi occhi sono ancora chiusi.
Rimani in silenzio, perché sai orma che non ha senso
parlare o meno, se ha intenzione di dire qualcosa.
“Ci sono solo Akuma, ad Edo, ora.”
Ricordi, allora, la tua domanda. Mormori un ‘oh’ privo di
convinzione, scostando lo sguardo.
“Io ho solo Ge Ge.” Ammetti “Non ricordo la mia famiglia.
Sono stati uccisi dagli Akuma, tutti. Però non riesco lo stesso a combattere
come fai tu.”
“Perché non ricordi.” Sbotta lui, ed è quel tono caustico
che da tempo non rivolge nei tuoi confronti. “Io sì.”
Rimanete in silenzio, perché non c’è nulla da dire e, in
fondo, lo sai che ha ragione.
E che è una differenza enorme, quella.
(Qualche ora più tardi, prima di alzarsi in resa al
brontolio del suo stomaco, mormorerà soltanto “Avevo una sorella.”
In quel momento capirai che, come tu avevi cercato rifugio
da lui vedendo qualcun altro di totalmente diverso, lui aveva offerto
protezione a te per rimediare del suo fallimento nel proteggere qualcun altro
di totalmente diverso.
E penserai che, in fondo, è meglio così.)
E’ passato più di anno, ma ancora una volta gli incubi ti
tengono sveglia.
Hai appena sognato il viso di quel bambino
– no, no, di quell’akuma –
che si deforma fino a diventare quell’orribile macchina da
guerra infernale e come, anche da macchina da guerra infernale, riuscisse a
singhiozzare e a piangere senza lacrime e dare a lei la colpa di tutto, quando
lei non c’entrava proprio niente.
Ancora una volta, gli incubi ti tengono sveglia.
Ma, adesso, non hai più neppure una ragione per lamentarti.
Perché non sei più sola.
Da anni, ormai, Ge Ge è tornato e quel luogo lugubre
sembra quasi una casa, e non hai più neanche il diritto di piangere e pensare
che “è tutto sbagliato, è tutto sbagliato”, perché è il sorriso di tuo
fratello che ti porge il fascicolo della nuova missione, ed è il sorriso di tuo
fratello che ti dice “stai attenta” e tu puoi solo rispondere con un
sorriso e dire “vado, allora” e lasciarti alle spalle quella casa
orribile, ma pur sempre casa, con la speranza di poterlo rivedere ancora a
dirgli, ancora una volta, “Sono a casa.”
Non sei più sola.
Non sei sola, tranne quando lo sei.
In missioni come questa, chiusa nella tua stanza della
locanda
– perché sei sempre tu, da sola, perché sei l’unica
ragazza, perché pensano di farti un favore e darti un po’ di privacy e tempo
libero da passare con i tuoi demoni tutti personali –
sei sola.
Chiudi gli occhi, e quel viso riaffiora prepotentemente dalla caterva di
ricordi – quelli gettati in un angolo, e catalogati come “da dimenticare”. Solo
che non si dimenticano mai davvero.
Li riapri, osservando il soffitto ed il buio soffocante
che lo preclude al tuo sguardo.
Ed anche lì, riflesso dei tuoi pensieri, vedi quel volto.
Ti alzi di scatto, gettando le lenzuola di lato.
Il pavimento è freddo, sotto i tuoi piedi scalzi. Anche la
maniglia della porta lo è.
Il cuscino che stringi contro il petto mentre bussi alla porta di fronte alla
tua è, invece, ancora caldo.
Lo stringi ancora più forte a te, cercando di trarne un
piccolo conforto.
La porta si apre, e Kanda ti guarda con occhi intrisi di
sonno: ricambi il suo sguardo con i tuoi intrisi di umido.
Dopo qualche attimo di silenzio, lo vedi scostarsi da un
lato ed aprire un po’ di più la porta.
Con aria stanca e un po’ rassegnata, ti fa cenno di
entrare.
In maniera un po’ brusca e, come sempre, senza una
domanda.
Tu sgattaioli dentro rispettando il suo silenzio con il
tuo; la sua schiena ti sfiora quasi il naso, una volta rimboccati sotto le
coperte, e pensi – sarà solo un impressione- che la notte è un po’ meno buia
e spaventosa e fredda, e che il ricordo di quell’akuma – non un bambino, non
più – è appena un po’ più sbiadito di prima.
Sai che, nel caso dovesse succedere qualcosa, Kanda è lì e
non permetterà che ti succeda nulla.
E, in momenti come quelli, sei proprio contenta di avere
un fratello come lui.
Questa roba epica nasce da una drabble che avevo iniziato
a scrivere – ancora una volta per quella challenge delle canzoni. Praticamente
era metà del primo pezzo, con Imaginary degli Evanescence.
Finito il tempo, la canzone che mi parte dopo è
“Tourniquet”, sempre degli Eva. Ovviamente, mi viene in mente come continuo
della prima.
E alla fine nasce sta roba °_° Edit - mi ero dimenticata che, secondo le info su internet, Ge Ge dovrebbe essere il famoso "niisan" in mandarino. O qualcosa del genere. Non so quanto posso fidarmi di internet.
Ultimamente mi piace troppo il rapporto fra Kanda e
Lenalee.
Approfitto dello spazio per ringraziare Edward, Irene
Adler, Lalani, lilithkyubi, Lely1441 e Secret_Requiem per aver commentato
l’altra Oneshot. Non sapete quanto ci tengo e quanto ve ne sono grata.
Penso che per chi scrive non c’è nulla di più bello che
rendersi conto di essere arrivato ai sentimenti di chi legge. Almeno, è una
cosa che personalmente mi rende felicissima.
E mi commuovo sempre a leggere i commenti.
(Anche se mi sento un po’ in colpa, perché ultimamente mi
sento un po’ dire da tutti che faccio passare l’appetito causa magone. –joking,
joking- XD)
Edit: ricordavo che nel flashback di Lavi la nostra tipetta non avesse le scarpe. Però sono andata a ricontrollare, e le scarpe ce le ha. Anche se non sono i Dark boots, quindi sinceramente non so proprio che pensare. In qualche modo ero anche convinta che fosse senza scarpe nel flashback del terzo numero. Me banana, chiedo venia per l'imprecisione °_° Teoricamente, pensando all'iniziale rifiuto che aveva per l'innocence, ero giunta all'arbitraria conclusione che l'avesse... rifiutata e basta, insomma.
PEr l'altra precisazione, beh, a quello ci avevo pensato. Ma Lenalee non ha fatto la scalata per l'Ordine, da quel che ho capito, perchè quella è la via per chi ci va volontariamente, no? Non penso sappia esattamente come uscire di lì. Ha fatto un'unica missione nella timeline della fic, e non penso instintivamente vada a cercare un'uscita nei sotterranei. Mi era sembrata una cosa un po' forzata. Ma effettivamente potrebbe apparire forzata anche questa. Ecco cosa succede quando si scrive a questi orari spropositati X°D Sembra tutto aver senso XD Ahn, e si, la "sorella" l'ho inventata io. PErchè tanto Hoshino non ci dice niente, quindi chessò, potrebbe anche avere un cane a tre e teste e chiamarsi, in realtà, Arnoldo. >_<"