α.
La
luce che pioveva dalle finestre spalancate della biblioteca era
calda, un torrente dorato in cui turbinavano, oziosi, vortici
impalpabili di pulviscolo. Camminando pacatamente sotto la finestra
più grande, i tacchi a scandire un ritmo lento e cadenzato
sul piano
di una costosa scrivania di legno scuro, il professor Lienhard
Heisenhover leggeva.
«No
rest without love, no sleep without dreams of love».
Aveva una voce roca e musicale, un timbro denso e vibrante
che
accarezzava ogni sillaba con l’emozione incontentabile di un
attore
di teatro ‒ la poesia sulle sue labbra diventava materia vivente,
tangibile, passione infusa in parole e trasformata in arte: «Be
mad, or chill, obsessed with angels or machines, the final wish is
love».
La
biblioteca aveva un’acustica perfetta, e a
quell’ora ‒ le due
del pomeriggio ‒ non c’erano altri suoni a turbarne il
silenzio
assoluto. Gli studenti sedevano dove capitava, sui davanzali delle
finestre e sui tavoli, sui tappeti lisi stesi tra una scrivania e
l’altra, e tutti guardavano con il fiato sospeso la figura
del
professore, il piccolo miracolo che la sua voce e i suoi occhi e la
sua energia stavano compiendo. C’era tensione, e aspettativa,
un’atmosfera raccolta e vagamente stupefatta, quasi
Heisenhover
stesse officiando il rituale di una misteriosa religione tribale.
«…
the hand moves to
the center of the
flesh, the skin trembles in happiness and the soul comes joyful to
the eye».
Creava un armonia
bizzarra, Heisenhover, con l’arredamento severo della
libreria:
sullo sfondo di scaffali scuri alti fino al soffitto, zeppi di volumi
dalle rilegature pesanti e impolverate, la sua giacca color ruggine
sembrava quasi mimetizzarsi, sparire. Aveva poco più di
trent’anni,
ma il completo dal taglio antiquato e la cravatta ‒ un autentico
pezzo da museo ‒ lo facevano sembrare molto più vecchio,
così
come gli occhiali da lettura in bilico sul naso affilato.
L’uso
di indossare lenti correttive invece di sottoporsi alla correzione
chirurgica della presbiopia era completamente scomparso da almeno
quattro secoli.
«Yes,
yes… that’s what I wanted, I always wanted, I
always wanted ‒
to return to the body where I was born».
Concluse la poesia con un sussurro pieno di dolcezza e
chiuse
il libro, lasciando che il silenzio facesse da eco alle sue ultime
parole. Passò qualche istante prima che, sedutosi sul bordo
della
scrivania con le gambe penzoloni, ricominciasse a parlare.
«Allen
Ginsberg». Scandì, agitando il libro per
richiamare l’attenzione
di qualche alunno che, conclusa la lettura, aveva lasciato vagare lo
sguardo distratto fuori da una finestra «Uno dei migliori
poeti
arcaici, secondo la mia modesta opinione. Che ne pensate? Lo
conoscevate già?».
Non
ci fu nessun cenno d’assenso, ma il professore non si
aspettava
nulla di diverso. Sorrise ‒ aveva occhi scuri e sottili,
intelligenti ‒ e scosse piano la testa. Alla domanda seguì
un
certo scompiglio ‒ una trentina di studenti giovani e lievemente
intontiti che lottavano per sfilarsi gli istan-traduttori dalle
orecchie e riporli nelle apposite custodie ‒ e poi, di nuovo,
silenzio imbarazzato.
«Ok,
del resto la Federazione non si preoccupa troppo di mandare in onda
programmi culturali. Allora, vediamo…»
tentennò, lasciando vagare
lo sguardo tra gli studenti «… Cooper».
Un
ragazzo magro, con gli occhi sporgenti e il viso coperto di efelidi,
sollevò la testa di scatto e arrossì fino alle
orecchie. Non doveva
avere più di diciotto anni.
«Il
tema portante della poesia è l’amore. Secondo te
qual è la
visione che i poeta ha dell’amore?».
«Di
sicuro... be’, una visione positiva. Perché anche
se l’amore è
un… fardello, come dice il poeta,
è anche alla base delle
passioni positive, è una specie di forza creatrice. Lo
descrive come
la sua essenza, in qualche modo».
Parlò in modo affrettato,
il viso paonazzo, e puntò lo sguardo dritto a terra. Se
anche
Heisenhover non avesse imparato a memoria le generalità di
ciascuno
degli iscritti al suo corso, non sarebbe stato difficile capire che
David Cooper era un omega.
«“Il
peso dell’amore”… sono parole
scritte parecchi secoli fa,
eppure quanto ci riguardano?». Enfatico, si tirò
nuovamente in
piedi e squadrò gli alunni dall’alto del suo palco
improvvisato
«In che modo, esattamente, l’amore può
essere un peso per noi? E
perché continuiamo a cercarlo ‒ perché continua a
renderci così
felici ‒ se è tanto difficile da
sopportare?».
Una
ragazza in prima fila, con il naso all’insù e
corti capelli
spettinati, alzò la mano.
«Marie
Shaw, giusto?». Beta, aggiunse tra
sé e sé. Aveva cercato
in tutti i modi di togliersi quel vizio, ma ogni volta che si trovava
a parlare con qualcuno non poteva fare a meno di classificarlo
in base al sesso biologico. Riusciva a percepire l’odore
della
ragazza, una fragranza scialba e poco attraente, anche se lei era a
quasi tre metri di distanza in linea d’aria.
«Sì.
Allen Ginsberg era un omega, giusto?».
«Mh,
come mai questa domanda?».
Marie
Shaw scrollò le spalle e gli lanciò
un’occhiata vagamente
imbarazzata, forse temendo di aver detto qualcosa di stupido.
«Boh,»
aggiunse, giocherellando con l’orlo della maglietta
«questo fatto
di desiderare disperatamente l’amore, ma allo stesso tempo di
vederlo come qualcosa di gravoso. Un alfa non parlerebbe
così… per
loro non è mai stato un peso».
Qualcuno
protestò ‒ sicuramente un alfa punto sul vivo ‒ e Marie Shaw
esclamò una risposta che, se ne avesse avuto il tempo,
Heisenhover
avrebbe sicuramente rimproverato. Il suo richiamo, però, fu
coperto
dal rumore di una porta che sbatteva. Trenta teste si voltarono
simultaneamente verso il portone della biblioteca, qualcuno emise un
gridolino di sorpresa ‒ il professore per un attimo pensò,
stizzito, che qualche collaboratore scolastico avesse infranto il
divieto tassativo di disturbare le sue lezioni.
Si
ritrovò, invece, a fissare il nuovo arrivato con le
sopracciglia
decisamente inarcate e la bocca piegata in una linea sottile e
rigida: nella biblioteca, inguainato dalla testa ai piedi in
un’uniforme completa di mostrine, era appena entrato un
soldato.
Era
alto, con i capelli neri pettinati all’indietro e una
fisionomia
curiosamente delicata ‒ non aveva la struttura possente tipica dei
militari, e il suo viso un po’ lungo era tutto un susseguirsi
di
linee graziose. Rivolse un cenno di saluto impettito alla sala piena
di gente e batté i tacchi a terra (gli anfibi di cuoio
fecero un
rumore infernale sul pavimento di parquet), poi lanciò
un’occhiata
incuriosita ad Heisenhover, ancora in piedi sulla cattedra. Non
portava armi.
Lienhard
era quasi sul punto di trovarlo simpatico, quando il soldato decise
di aprire bocca e spezzare impietosamente l’incantesimo.
«Sono
qui per conto dell’Amministratore del quinto distretto di
Fegith»
annunciò, le braccia lungo i fianchi
«affinché venga posto un
freno a questa attività illegale».
Heisenhover
emise un mezzo verso di sorpresa e spalancò le braccia.
Notò, con
la coda dell’occhio, che alcuni studenti stavano radunando in
fretta le proprie cose.
«Attività
illegale? Con tutto il rispetto, non c’è nulla di
illegale in
quello che‒».
«La
legge vieta agli omega non reclamati di frequentare corsi scolastici,
a meno che non siano in possesso di un lasciapassare
dell’Amministratore. Ci è stata segnalata la
presenza di numerosi»
storse il naso «omega non reclamati all’interno di
questo corso.
Certamente saprà, professor Lienhard Heisenhover, che
è
assolutamente vietato e passibile di arresto favorire un simile
comportamento. È difficile credere che non si sia mai
accorto della
loro presenza».
Lienhard
sogghignò, senza accennare a scendere dalla cattedra.
«Vedo
che conosce il mio nome, maggiore. Gradirei avere la stessa
fortuna».
Gli era bastata un’occhiata veloce per riconoscere il grado
delle
mostrine: in quanto sostenitore di numerosi movimenti studenteschi,
spesso immischiati in rivolte e manifestazioni turbolente, aveva
avuto modo di familiarizzare con le forze dell’ordine. Il
soldato
corrugò le sopracciglia, irritato, ma non poteva evitare di
rispondergli.
«Maggiore
Joseph Redthorn». A quel nome, Lienhard
assottigliò lo sguardo e si
fece più attento «Ora, tutti gli omega non
reclamati sono pregati
di seguirmi fuori da questa stanza fino alla centrale del quinto
distretto, dove risponderanno delle loro azioni. Non verrà
tollerata
alcuna resistenza».
Qualcosa
si mosse, al di là della porta, e il professore scorse
alcuni
militari appostati silenziosamente vicino allo stipite. Erano una
decina, forse più, e, a differenza di Joseph Redthorn, alla
cintura
portavano le armi d’ordinanza.
«Signore!».
Alzò la voce, mentre gli studenti cominciavano a radunarsi
contro la
parete della biblioteca opposta rispetto alla porta, rispetto ai
soldati «La legge si pronuncia in termini di istruzione
pubblica, ma
il mio non è che un club di lettura che si riunisce ogni
venerdì
pomeriggio nella biblioteca dell’Universitas. Non svolgiamo
nessuna
attività riconosciuta, e il governo non bandisce la libera
associazione a fini culturali».
«Questo
verrà appurato in centrale». Redthorn non fece una
piega; a parte
qualche rara smorfia di fastidio, il suo viso marmoreo sembrava
freddo e inespressivo.
“Maledizione.”
Lienhard percepì un’ondata di senso di colpa,
amaro e inevitabile,
e capì che per nulla al mondo avrebbe permesso che i suoi
studenti
venissero arrestati davanti a lui. “Ci deve pur
essere un modo…”
Scese
con un balzo fluido e si avvicinò in pochi passi al
maggiore,
cercando di mantenere un’apparenza imperturbabile nonostante
la
morsa di paura avviluppata allo stomaco. Avvertì il suo
odore,
quello sì, un afrore denso e soffocante di alfa ‒ per un
attimo
gli girò la testa, tanto era puro.
«Ascolti,
sono disposto a dichiarare che li ho obbligati contro la loro
volontà. Sono omega, la loro natura gli impedisce di opporsi
agli
ordini di un alfa…» era piuttosto consapevole
delle idiozie che
gli stava dicendo, ma finché quelle stesse idiozie
collimavano con
la coscienza comune di cosa fosse esattamente il rapporto alfa/omega
andavano benissimo «Ha capito? Mi costituisco, è
stata una mia
idea. Non è la prima volta che succede».
«Lo
so». Redthorn abbassò la voce, la
appiattì in un sussurro irato
«Il suo cognome l’ha salvata già
più di una volta, Heisenhover.
In fede, credo che lei sappia che anche questa volta non
sarà
diverso».
“Ah,
ma allora anche tu sei un essere umano”. Ghignò,
inclinando la
testa di lato.
«Non
mi sarei mai aspettato che un Redthorn facesse un
discorso del
genere. Vuole arrestarmi, maggiore, o preferisce che io le dia modo
di accusarmi anche di oltraggio a pubblico
ufficiale?».
Joseph
Redthorn emise un sospiro appena percettibile, carico di
frustrazione, e fece un cenno annoiato agli altri soldati.
«Lienhard
Heisenhover, la dichiaro in stato di fermo con l’accusa di
imposizione. Ha il diritto di rimanere in silenzio».
Si
definiva “imposizione” il reato per cui un alfa
obbligava un
omega non reclamato a compiere una qualsiasi azione contro la sua
volontà; la convinzione comune ‒ coadiuvata da studi che
Lienhard,
in quanto ricercatore genetista dell’Universitas, riteneva
paradossali ‒ era che un omega, specialmente se vicino al calore,
non potesse rifiutarsi di obbedire agli ordini di un alfa. Le
motivazioni, piuttosto fumose, andavano ricercate nella biochimica e
nel complesso linguaggio ormonale che legava i due sessi. In ogni
caso, plausibile o meno, il reato di Imposizione era così
grave e
malvisto che poteva portare all’ergastolo.
Le
manette magnetiche scattarono ai polsi di Lienhard, che fu scortato
con insolita gentilezza fino alla vettura della polizia. Levitava a
qualche centimetro da terra, già pronta ad inserirsi nel
traffico
sempre in movimento delle piste magnetiche, una sorta di uovo gigante
con un lato schiacciato e un guscio di leghe polimeriche praticamente
indistruttibile. L’abitacolo, protetto da una cupola di vetro
antisfondamento, ospitava la cabina del pilota; tutta la parte
posteriore del veicolo era adibita a container, e si aprì
come le
ali di un coleottero per permettere a Lienhard e a una mezza dozzina
di soldati di prendere posto sulle panche di ferro incassate nel
pavimento. Joseph Redthorn, seduto davanti ad Heisenhover,
sollevò
leggermente la manica della divisa e sfiorò in punta di dita
quella
che sembrava una fascia di lattice nero, avvolta intorno al polso; il
bracciale si illuminò, strie fosforescenti che si
avvolgevano e si
disfacevano sulla superficie liscia senza assumere nessuna forma
concreta, e il maggiore cominciò a muovere le dita davanti
al suo
viso come se stesse toccando una superficie invisibile. “O-screen,”
Lienhard si sporse in avanti, incuriosito “chissà
che cosa
sta leggendo”.
Sapeva
che, se si fosse seduto accanto al Maggiore, avrebbe visto comparire,
come per magia, uno schermo piatto sospeso a mezz’aria,
completo di
sensori touch e grafica full HD. Non era mai stato un amante della
tecnologia ‒ il che, nel mondo iper-tecnologico un cui viveva, gli
aveva causato non pochi problemi ‒ e pensava che ci fosse del
ridicolo nel gesticolare di Redthorn, ma in quel momento avrebbe
voluto un o-screen personale per avvertire suo padre della
situazione.
“Tanto
lo saprà comunque”, si disse “se non
dovessero avvertirlo, ci
penserà la sua intelligence personale”.
«La
sua fedina penale è terrificante». Redthorn
spezzò il silenzio con
un tono casuale, annoiato, mentre la vettura scivolava
silenziosamente nel traffico «Ha commesso tanti crimini
antigovernativi che verrebbe da chiedersi come possa essere ancora in
libertà. Quantomeno dovrebbero assegnarle una pattuglia di
sorveglianza in pianta stabile, ma immagino che il Ministro
Heisenhover non sarebbe d'accordo con una cosa del genere.
Sbaglio?».
«Mi
sta autorizzando a parlare, Maggiore?». Nella domanda di
Lienhard,
più simile alle fusa di un gatto, era in agguato una mezza
risata
«Vuole che aggravi la mia situazione?».
Redthorn
gli lanciò uno sguardo affilato − era incredibile,
pensò
Heisenhover, come spiccassero le pupille nell'azzurro lattiginoso
delle iridi. L'intensità di quegli occhi era quasi fisica.
«Se
intende tirare di nuovo in ballo il mio cognome, la prego di non
farlo».
«E
perché? È un cognome illustre, lo stesso del
Gerarca. Non vedo
alcun motivo di vergognarsene». Lienhard scoppiò a
ridere, e un
lieve rossore affiorò sulle guance del soldato.
«A
differenza di quanto lei crede, non mi sono mai fatto scudo del mio
cognome». Sibilò, e il suo sguardo era diventato
una freccia sul
punto di essere scoccata «Non ne ho mai avuto
bisogno».
"Oh,
ecco l'orgoglio alfa che torna. Ma allora siete veramente tutti
uguali".
«Dev'essere
la pecora nera di famiglia».
«Non
del tutto, Heisenhover. Non quanto potrebbe esserlo un primogenito
beta in una famiglia di alfa». La frecciata era evidentemente
rivolta a lui, e Lienhard sentì che, per quanto cercasse di
frenarlo, un ghigno involontario gli si andava allargando sul viso.
«Beta?
Sta parlando di me, Maggiore?». Fece schioccare la lingua
contro il
palato, scuotendo la testa «No, no, no. Rilegga con
più attenzione
la mia fedina penale... sono sicuro che c'è un documento
d'identità
allegato».
Heisenhover
toccò un paio di volte lo schermo dell'o-screen e
arrossì di nuovo,
le labbra contratte.
«Mi
sono ingannato, la credevo un beta. Ha un odore inusuale per un
alfa».
«Copro
il mio odore con dei prodotti specifici. Nella facoltà di
genetica
dell'Universitas lavorano diversi omega reclamati e persino qualche
non-reclamato fornito di permesso... da parte mia sarebbe piuttosto
indelicato lasciare che i miei ferormoni diventino
una
distrazione».
Joseph
lo guardò a lungo in silenzio, incuriosito. Lienhard poteva
quasi
leggere il pensiero che scorreva nella mente del soldato, e sorrise.
Non
sembri affatto una persona delicata, Heisenhover.
"Non
sai nemmeno quanto hai ragione".
α٠β٠ω
Le
pareti della cella erano spoglie ma pulite, coperte da un
rivestimento di lattice grigio spesso una decina di centimetri.
Quella stanza veniva utilizzata soltanto per permanenze brevi, in
particolare per gli alfa (se beta e omega riuscivano, in genere, a
sostare nella stessa cella senza farsi a pezzi, gli alfa
necessitavano di totale isolamento) e non presentava nessun tipo di
mobilio. A gambe incrociate sul pavimento morbido, lo sguardo fisso
sulla lastra di plexiglas spesso trenta centimetri che lo separava da
un corridoio su cui si affacciavano altre diciannove stanze identiche
alle sua, Lienhard attendeva l'inevitabile conclusione di quella
giornata.
Se
la situazione era rimasta invariata, il giorno successivo avrebbe
dovuto sostenere un processo.
Se,
invece, il vecchio Heisenhover aveva mantenuto intatto tutto il suo
smalto, le accuse contro di lui sarebbero cadute − e poco
importava
che la sua fosse una confessione spontanea, il denaro esisteva per un
motivo − e, con tanto di cauzione pagata, gli avrebbero
affibbiato
due giorni di sospensione lavorativa e un'ammonizione firmata dal
Procuratore.
Lienhard
si slegò i capelli − lisci, biondi, gli arrivavano
fino alle
spalle − e, dopo un tentativo non propriamente riuscito di
pettinarli con le dita, li sistemò nella consueta coda
bassa.
"Ho
bisogno di tornarmene a casa e farmi una doccia". Espirò,
abbandonando la testa contro la parete "Maledetto Joseph
Redthorn. Tu e la tua sorveglianza inutile del cazzo".
Ci
fu un momento, dopo ore di attesa, in cui pensò che non
sarebbe
venuto nessuno e l'avrebbero lasciato lì a morire di noia.
Quando la
sagoma nera di un soldato si profilò dall'altra parte della
parete
di plexiglas, Lienhard si tirò in piedi in fretta e furia e
per poco
non gli andò incontro sorridendo.
Il
soldato portava pesanti guanti neri, di pelle. Sfilò il
destro e
appoggiò il palmo della mano al plexiglas; dai tutti i punti
in cui
la pelle toccava la superficie trasparente si diramarono delle linee
geometriche e angolose, di un bianco abbacinante, che costruirono in
pochi secondi un disegno complicato e molto simile ad un labirinto.
La guardia, ad una velocità impressionante, toccò
alcune di quelle
righe e le spostò da una parte all'altra della parete,
cambiando
completamente la struttura del labirinto. Quand'ebbe finito fece un
passo indietro e la parete scivolò da una parte senza
emettere il
minimo suono.
"Wow,"
Lienhard era rimasto a bocca aperta "quando mi hanno fatto
entrare qui dentro non è servito tutto questo casino.
D'altra parte
è prevedibile che per aprire una cella vuota ci siano misure
di
sicurezza diverse rispetto a quelle che servono per una occupata".
«L'accusa
di imposizione che le era stata rivolta è caduta».
Lo informò il
soldato, scortandolo lungo il corridoio «Quella di oltraggio
a
pubblico ufficiale no. Il Ministro Thomas Heisenhover ha pagato la
cauzione e la sta aspettando qui fuori».
«Ci
saranno conseguenze dopo quanto accaduto oggi?».
Quando
il soldato annuì Lienhard ebbe un tuffo al cuore, ma si
sforzò di
rimanere impassibile.
«Il
Procuratore, per evitare che possano ripetersi episodi spiacevoli, le
ha assegnato una scorta facente parte delle Forze Armate che
presiederà ai suoi incontri pomeridiani
all'Universitas».
«Quindi
li hanno riconosciuti come attività legittime?».
«Sì.
Potrà continuare a tenerli».
Lienhard
represse a stento un'esclamazione di gioia.
Il
soldato lo scortò attraverso una serie di corridoi e sale
d'attesa,
solcate da un viavai di impiegati statali e militari in uniforme,
fino ad una sala d'aspetto arredata molto semplicemente. Non c'erano
altro che sedie di metallo, disposte in file ordinate sulla moquette
azzurrognola, e teleschermi appesi alle pareti.
Suo
padre, come sempre impeccabile in un completo di alta sartoria, lo
accolse con un mezzo sorriso.
«Mi
chiedo quando la smetterai di farmi dilapidare il patrimonio di
famiglia in cauzioni, Lienhard».
«Il
nostro non è un patrimonio facile da
dilapidare, devi
ammetterlo».
Thomas
Eisenhover, Ministro della Salute in carica, aveva più di
cinquant'anni e ne dimostrava una decina in meno. Somigliava in modo
incredibile al figlio, con lo stesso viso dai tratti spigolosi e
l'espressione intelligente, ma aveva la pelle molto più
chiara e gli
occhi grigi come l'acciaio; i capelli, che tingeva regolarmente a
seconda della moda, erano di un castano scuro appena venato
d'argento, pettinati all'indietro.
«La
ringrazio». Il Ministro indirizzò un cenno di
saluto al soldato,
che si defilò silenziosamente, e appoggiò una
mano su una spalla di
Lienhard «Usciamo di qui. Non è un buon posto per
parlare».
Il
ragazzo annuì, passandosi una mano sugli occhi.
«Sono
stanco e stufo». Annunciò, seguendo il padre nei
corridoi asettici
della Centrale di Polizia del quinto distretto «Che ore
sono?».
«Le
dieci e mezza». Nell’androne sostava qualche
gruppetto di
impiegati in procinto di tornare a casa, e dalle grandi porte a vetri
Lienhard poteva vedere l’oscurità della notte e il
chiarore
azzurrognolo dei lampioni. In altro, in un cielo privo di nubi,
sembravano rincorrersi le due lune di Nenya.
Thomas
Eisenhover cominciò a parlare davvero, con la voce
più bassa e gli
occhi scintillanti, solo quando si furono allontanati di
diversi metri. La serata era piacevolmente tiepida, e spirava una
brezza decisa che, se mai ce ne fossero stati, avrebbe sabotato tutti
i microfoni nascosti.
«Tua
madre stava letteralmente impazzendo».
Sibilò, irato,
afferrando il figlio per un braccio «Se potessi brucerei le
loro
aule di tribunale, maledetti schifosi. Tu come stai? Ti hanno fatto
qualcosa? Analisi?».
«Nah».
Lienhard fece spallucce «Sono il figlio di un ministro, per
quante
volte finisca nelle loro carceri mi trattano sempre con i guanti
bianchi. La mamma come va?».
«Bene,
ma si avvicina il calore e ne risente gli effetti».
«Si
ostina a non prendere soppressanti». Suonava come una
constatazione
priva di sentimento, ma chi conoscesse bene Lienhard avrebbe potuto
avvertire una scintilla di rabbia sotto la scorza di indifferenza
«Dov’è, adesso?».
«Fuori
città, in una delle proprietà di
campagna». Negli occhi del
Ministro il dolore era così intenso che il ragazzo
sbuffò, alzando
gli occhi al cielo.
«Ma
guardati. Questo è il motivo per cui io
non smetterò mai di
prendere soppressanti».
«Non
dirlo nemmeno per scherzo. Se qualcosa dovesse trapelare verrei
condannato all’ergastolo o all’esilio su qualche
pianeta ostile
dall’altra parte dell’Universo».
Scivolarono in un vicolo
laterale, dove, nascosta nell’ombra, stava una sottile
vettura
biposto dall’aria costosa «Sul navigatore sono
già impostate le
coordinate della casa. Appena uscirai dalla città
sarà meglio
attivare gli scudi anti-rilevamento, c’è sempre il
rischio che ti
stiano sorvegliando dopo l’incidente di oggi».
«Tu
non vieni?». Lienhard si sistemò al posto di guida
e allacciò le
cinture di sicurezza «Ah, tanto conosco già la
risposta: devi
lavorare».
«Gestire
una carriera ministeriale e un traffico illecito di
farmaci
richiede tempo, Lienhard». Thomas fece l’occhiolino
al figlio e
gli diede una pacca sulla spalla «Salutami tua madre e vedi
di
rimanere un po’ con lei. Ho fatto in modo che ti assegnassero
un
paio di giorni di ferie extra al lavoro».
Lienhard
scoppiò a ridere, per niente colpito. Suo padre non sarebbe
mai
cambiato.
α٠β٠ω
Il
viaggio durò quasi tre ore.
Fuori
da Fegith, imponente con la sua skyline di grattacieli dalle forme
affusolate, si snodavano i complessi tracciati delle piste di
campagna; intorno alla città gli appezzamenti di terreno
somigliavano quasi ad una vecchia coperta fatta con scampoli di
tessuto quanto mai eterogenei, dall’azzurro pallido delle
colture
di erbe medicinali al verde opaco dei papaveri da oppio. I campi
venivano gestiti e protetti con attenzione scrupolosa, e drappelli di
guardie armate passeggiavano oziosamente lungo i vari perimetri.
Impostato
il pilota automatico, Lienhard incrociò le braccia dietro la
testa e
si rilassò come poteva nell’abitacolo della
vettura. Aveva sempre
amato i viaggi, il moto incessante del paesaggio che scorre sotto gli
occhi come l’acqua vorticosa di un torrente, e
lasciò vagare lo
sguardo nelle campagne appena rischiarate dalle due lune di Nenya fin
quasi ad addormentarsi. Conosceva quelle zone a menadito: non era
raro che da ragazzo, appena acquistata la sua prima vettura, fuggisse
dal caos cittadino per respirare un po' d'aria pulita tra le dune
calcaree dell'outland.
La
proprietà di campagna si trovava in mezzo ai campi di
papaveri. Una
villa di pietra biancastra, costruita secondo uno stile semplice e
lineare che ne sottolineava le dimensioni imponenti, spiccava con
eleganza al centro di un parco alberato. Sul lato frontale si
aprivano tre ordini di grosse finestre squadrate, e al centro esatto
della facciata faceva bella mostra di sé un portale di legno
dall’aria antica a cui si accedeva tramite una doppia
scalinata dai
bracci ricurvi; il resto della costruzione, parzialmente celato dagli
alberi, si divideva in due ali che abbracciavano un cortile interno ‒
era un gusto antico, quello, che il padre di Lienhard aveva scelto
senza curarsi delle mode correnti.
Sceso
dalla vettura, Lienhard macinò velocemente la distanza che
lo
separava dall'ingresso; prima che potesse suonare il campanello il
portone si spalancò senza un fruscio, e sua madre gli
gettò le
braccia al collo con un grido di gioia.
«Ciao,
ma'». Ridacchiò, accarezzandole delicatamente la
schiena e
inspirando il suo profumo, più forte del consueto per
l'avvicinarsi
del calore «Su, mi hanno già arrestato altre
volte».
«Imbecille».
Dietmut Heisenhover ridacchiò, appoggiando la fronte sul
petto del
figlio «Imbecille e spericolato come quell’altro
matto di tuo
padre. Vieni, beviamo qualcosa mentre mi racconti le ultime
novità».
Si
voltò, e Lienhard guardò i suoi capelli
− neri e folti, una
cascata di riccioli dai riflessi azzurrognoli che scendeva ben oltre
le scapole − con un moto di profonda tenerezza.
Lo
precedette lungo i corridoi immacolati della villa, pavimenti
d’acciaio e pareti che celavano meccanismi pronti ad
azionarsi al
minimo tocco; Lienhard aveva sempre pensato che l’arredamento
ultramoderno scelto da sua madre fosse un po’ troppo
minimalista,
freddo e impersonale, ma quando si trovò con una tazza di
tè caldo
in mano e la schiena appoggiata al divano del salotto
rivalutò tutto
l’insieme. Anche quel mix di vetro e acciaio poteva essere
accogliente, in determinate circostanze.
«Allora,
non ti sono mancata nemmeno un po’?». Nonostante il
fisico minuto
e sottile e il viso dai lineamenti dolci, Dietmut era una donna
energica e volitiva ‒ in molti si chiedevano perché proprio
a lei,
così forte, fosse capitato di nascere omega ‒ capace di
tenere
testa ad un marito che, da scapolo, era stato il terrore dei salotti
di Fegith. «Tutta sola, ad annoiarmi in questa specie di
tomba ad
alta tecnologia…». Sistemò
l’orlo del vestito che indossava,
una morbida onda di seta azzurro ghiaccio, e accavallò le
gambe. «Tu
come vai con la scuola? So che gli iscritti ai tuoi corsi extra di
letteratura creano qualche problema».
«Non
sono gli iscritti il problema…» Lienhard bevve una
sorsata di tè
e guardò per un po’ le fiamme sorprendentemente
realistiche di una
proiezione olografica che, sulla parete davanti al divano,
riproduceva un camino acceso «… ma suppongo che tu
lo sappia già.
Se potessi ficcare una bomba sotto il culo del Gerarca lo farei
volentieri».
Dietmut
scosse la testa con tristezza.
«E
per cosa? Il mondo è pieno di gente come lui».
«Lo
so». Sul viso di Lienhard si allargò un sorriso
sghembo «Ma non
sarebbe male togliersi una soddisfazione ogni tanto».
«Su
questo potrei essere d'accordo. Tuo padre mi ha detto che ti hanno
assegnato una scorta in pianta stabile... stavolta li hai fatti
arrabbiare». Arricciò le labbra in un ghigno che
chiunque avrebbe
definito orgoglioso e bevve un sorso di
té, socchiudendo
leggermente gli occhi; aveva la mimica facciale di un felino, una
gatta pigra e sorniona che non vedeva l'ora di tirare fuori gli
artigli.
«Non
me ne preoccupo più di tanto. L'importante è
continuare a tenere i
corsi».
«E
se dovessero cercare di ficcare il naso nei tuoi programmi? Da quello
che mi racconti ci sono alcune parti del corso che trattano temi
leggermente anticostituzionali».
«Ficcare
il naso?». Lienhard rovesciò il capo all'indietro
e rise di gusto
«Mamma, andiamo. Sono anni che ho a che fare con quegli
imbecilli, è
matematicamente impossibile che mi faccia dire da loro come impostare
i miei corsi».
«Parli
così perché sei fortunato, hai tuo padre che ti
copre le spalle».
«Forse.
In ogni caso non vedo perché sprecare questa splendida
opportunità».
Continuarono
a parlare per quasi due ore di fila, con il tè che si
raffreddava
nelle tazze e la notte sempre più chiara fuori dalle
finestre della
villa. Lienhard raccontò alla madre le ultime
novità − arresto a
parte, stava conducendo una ricerca sull'ereditarietà del
caratteri
sessuali primari che prometteva risultati interessanti − e
scoprì
che una lontana cugina di Seylaf, la seconda città di Nenya
per
importanza, aveva appena partorito un maschio beta in perfetta
salute.
«Brindiamo
alla salute di questa nuova ape operaia, allora!». Lienhard
sollevò
la tazza, di una porcellana così fine da risultare, in
alcuni punti,
semitrasparente, e accolse con un ghigno l'occhiata ammonitrice di
Dietmut «Com'è che si chiama il poveretto? Vita
triste, quella dei
beta».
«Friedlieb,
si chiama Friedlieb». La donna sospirò,
riavviandosi i capelli con
un gesto stanco «Forse è ora che tu vada a
dormire, Leny. Vorrei
evitare certi pensieri a quest'ora».
«Friedlieb...
cognome?». Proseguì Lienhard, ignorandola
«Non che gli serva, il
cognome, visto che probabilmente lo costringeranno a rimanere celibe
per evitare di dover lasciare parte dell'eredità ad un ramo
secco».
«Schultz.
Sono una famiglia importante, non so se ti ricordi, il marito di
Isolde commercia in−»
«Papaveri
da oppio, me lo ricordo. Fagli le mie congratulazioni e digli se me
ne manda un mezzo quintale, eh». Si alzò in piedi,
poggiando la
tazza su un tavolino da caffè a poca distanza dal divano, e
fece
l'atto di stiracchiarsi «Avevi ragione, ho sonno e voglio
farmi una
doccia. Oggi sono successi decisamente troppi casini».
Dietmut
annuì, lo abbracciò prima che uscisse dalla
stanza.
«Il
Progestal è in bagno». Sussurrò, il
viso appoggiato sulla spalla
del figlio «Riposati, hai tre giorni per dimenticare tutti
questi
problemi».
La
smorfia che si dipinse sul viso di Lienhard era triste, amara.
«Non
penso che bastino tre giorni, ma'. Non basta nemmeno tutta una
vita».
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Sono
mesi che non mi faccio viva su questo sito. Un po'
perché ho
portato avanti vari progetti autonomi (questo è uno dei
tanti) un
po' perché la scuola si è trasformata in una
bestia affamata pronta
a divorare tutto il mio tempo... insomma, Greedfan è
diventata una
lavativa ancora peggiore di quanto già non fosse.
Quella
che vi trovate davanti è una longfiction (credo
verrà lunga una
decina di capitoli al massimo) che ho progettato per lungo tempo e
già in parte scritta. In pratica è il riassunto
di tutto ciò che
vorrei vedere io nella sezione "Fantascienza": Omegaverse
(se non sapete cosa sia vi propongo questo
link, che contiene una
spiegazione abbastanza dettagliata), slash e un po' di citazionismo
selvaggio da "I Canti di Hyperion" di Dan Simmons :3
Naturalmente
non pretendo di aver scritto un'opera particolarmente interessante o
originale, ma mi auguro che questa storia vi appassioni e vi diverta
almeno quanto mi sono divertita io a scriverla. Fatemi sapere cosa ne
pensate, è il mio primo esperimento in campo
fantascientifico... per
non parlare del fatto che non ho scritto molte "Originali"
:P
Al
prossimo aggiornamento,
Greedfan
ps.
Il banner è tutto quello che sono riuscita a realizzare con
le mie
scarse doti di grafico. Perdonatemi.
pps.
Se avete domande sull'ambientazione risponderò molto
volentieri!
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