Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice
of live
Personaggi Principali: Koga; Seiya
Altri Personaggi: Saori-Atena solo nominato
Rating: verde
In proposito: “Sai cos’è la guerra
Koga?” gli chiese ancora. “Sai cos’è la vera guerra?”. Seiya e Koga. Un confronto che
prima o poi doveva avere luogo.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami
Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: one shot; missing moments
Cose: questa
shot mi ha fatto lavorare tanto. Perché se parlare di Seiya è difficile, lo era
nella serie classica, lo è qui nell’Omega, farlo facendolo interagire con Koga
è davvero arduo. Soprattutto perché per tutti Koga è l’erede di Seiya, è il
nuovo Pegasus che è riuscito, in cinquanta episodi, a ottenere quello che Seiya
ha ottenuto in quasi 150 di episodi, molte ferite e sofferenze.
Mi piace molto Koga, sia chiaro. Mi
piace vedere in lui un Seiya diverso, come forse sarebbe stato se fosse
cresciuto davvero in seno ad Atena. E mi piace il legame mancato fra loro, quel
sacrificarsi di Seiya per amore di Saori prima ancora che per il bambino Koga.
Perché nulla mi toglierà dalla testa che Seiya ha salvato Koga soprattutto per
non infrangere l’illusione di maternità di Saori. Il rapporto fra i due,
invece, è molto più burrascoso. In fondo, Koga è cresciuto nel mito di Seiya, e
Seiya ha un po’ il ruolo del padre ingombrante, del modello opprimente.
C’è del complesso edipico, nel loro
legame. Sia per l’amore diverso e ugualmente profondo che portano a Saori sia
per il bisogno viscerale di Koga di trovare una propria identità, slegata dal
riflesso di Seiya e di Pegasus. Se poi l’armatura ancora ha in vita il suo
ultimo legittimo possessore, le cose non possono che complicarsi. Ne?
L’episodio 68 mi ha offerto terreno fertile su cui lavorare.
Soprattutto ripescando anche alla reazione di Koga nel 58, quando la sua gelosia è palese fin quasi all’imbarazzo. E poi
c’è la freccia! La freccia di Sagitter!
Insomma. Ho giocato un po’; un bel
po’. E mi sono divertita. Facciamo che è un testamento? Ma sì: un testamento.
Enfin: Hikaku
significa confronto.
Ditemi voi cosa ne pensate!
Crescendo VI
Hikaku
“Non dovresti sforzarti.”
Koga strinse gli occhi. Non
riusciva ad abituarcisi; non riusciva ad accettare da lui un rimprovero o un
blando consiglio. Non riusciva ad accettarlo al suo fianco.
Era cresciuto nel suo mito; era
cresciuto sentendone sussurrare il nome con timore e ammirazione. Era cresciuto
nel ricordo sfuocate delle sue ali che svanivano nella luce, nell’ossessione di
un viso, di una voce, di una percezione che lo aveva accompagnato fino a quando
Pegasus lo aveva rivestito.
Poi.
Poi c’erano state le visioni.
Labili istanti in cui l’aria tremava e irradiava una debole luminescenza. Forse
di cosmo forse di spirito. Mentre lui non capiva; mentre lui poteva solo
accettare di essere il ricettacolo di emozioni, paure, speranze. Soprattutto di
speranze.
Lo aveva odiato.
Lo aveva odiato nell’espressione
che altri gli rivolgevano, cercando nel suo viso un altro viso; cercando nei
riflessi del suo cosmo la determinazione e la forza di un altro cosmo. Lo aveva
odiato mentre gli ricordavano a chi fosse appartenuta Pegasus, mentre nel
combattimento ripeteva movenze ed esecuzioni solo apprese, mai davvero
possedute.
Lo aveva odiato quando una
sconfitta era anche una colpa perché era il fallimento per chi lo aveva
salvato; lo aveva odiato per le responsabilità che gli aveva gettato addosso
scegliendo di proteggerlo invece di lasciarlo a Mars.
Lo aveva odiato per come negli
anni lo aveva guardato Saori-san, un misto di malinconia e nostalgia.
All’inizio era stato solo sospetto; con il tempo si era mutato in
consapevolezza. Nel sorriso sottile, nelle parole mai pronunciate, nella
sorpresa di un gesto sfuggito unirsi alla lucida dolorosa consapevolezza di un
labile inganno.
Aveva odiato la sicurezza negli
occhi di Saori-san quando era ritornato, fulgido d’oro e di cosmo. Lo aveva
odiato quando gli si era opposto, per quel modo irritante che aveva di cercare
di risvegliarlo, per il patetico tentativo, di nuovo, di salvarlo.
Lo aveva odiato per il corpo che
si lasciava colpire, per la rabbia da cui si lasciava investire. Tutto per lei.
Perché a lei donava le poche scintille di vita che ancora gli restavano.
E Saori-san ricambiava. Inglobata
all’albero cosmico, stremata e vacua nelle percezioni, Saori-san aveva scelto.
E non era stato lui la sua scelta.
Koga lo aveva compreso.
Anche dietro l’ottenebramento di
Aspu; anche nel vortice di percezioni, grida, crepitii di cosmo che lo
avvolgevano; anche mentre il suo intero mondo si frantumava e lui lottava e
graffiava per riprendere il controllo su un corpo di tenebra che percepiva,
minuto dopo minuto, sempre più estraneo. Anche in quell’ultimo barlume di
straziante consapevolezza, si era accorto che Saori-san non fissava lui.
C’era Seiya negli occhi di
Saori-san.
C’era sempre stato Seiya nei suoi
pensieri, nei lunghi mesi trascorsi in quella vita non vita, fra la corteccia e
il serpeggiare di cosmo che l’avvolgeva. Era Seiya che Saori-san aveva sempre aspettato.
Era Seiya che Saori-san continuava ad aspettare.
Koga strinse i pungi, risoluto nel
non guardarlo, ostinato nel continuare a ignorarlo.
Prima.
Prima era stato più facile.
Quando Seiya era solo un nome;
quando Seiya era solo la leggenda che sopravviveva fra i cavalieri; quando
Seiya era una percezione confusa che s’insinuava nella sua mente ignorarlo era
stato possibile.
Per nulla facile; alle volte
estenuante; ma almeno fattibile. In quei momenti, Koga lasciava semplicemente
che il cosmo e la voce di Seiya gli fluissero attraverso, raccogliendone i
consigli e gli ammonimenti e lasciando sbiadire la voce e il viso indovinato
appena nei riverberi di cosmo.
Prima, quando Seiya non era ancora
Seiya, ma solo un nome che a Saori-san sfuggiva in tiepide serate d’estate, sospeso
fra rimorso e rimpianto, Koga sapeva che poteva ignorare.
Ma poi Seiya era tornato. Seiya
aveva combattuto contro di lui, contro l’entità che si era impadronita del suo
corpo.
Seiya aveva straziato le tenebre
che lo divoravano irradiandolo di una luce così abbacinante, così intensa
nonostante le ferite che lo consumavano, da terrorizzarlo. Di quel suo unico
confronto con Seiya, Koga ricordava la paura.
Il terrore che si era impadronito
di lui. Della sua mente.
Non era un semplice riflesso del
sentire di Aspu; non era nemmeno il flebile ricordo di una sensazione estranea,
rimasta intrappolata nei fili dell’inconscio. Era lucida, spietata, assoluta
consapevolezza di un terrore che lo aveva investito lasciandolo incapace di
reagire, stordito e ansante.
Prima c’era stato l’odio; poi la
paura. Infine la gelosia.
Un’intensa, genuina, profonda
gelosia.
Di Seiya e del suo confuso,
ambiguo rapporto con Saori-san. Gelosia per le braccia di Seiya che la
stringevano quando barcollava; gelosia per la sicurezza che Saori-san mostrava
quando lui le era accanto; gelosia per quella complicità così intensa, così
totalizzante da cui Koga si sentiva respingere.
Saori-san non lo aveva mai
guardato in quel modo. Quel misto di sicurezza, dolcezza e orgoglio che
riservava solo a Seiya. Eppure anche lui era un suo cavaliere; anche lui aveva
combattuto e sofferto per lei. Anche lui era pronto a dare la vita per lei, per
la donna che lo aveva allevato, per la dea che lo aveva cresciuto per la guerra
con l’affetto della madre e la durezza del soldato.
C’era qualcosa di diverso negli
occhi di Saori-san quando guardava Seiya; e quando guardava lui. Un miscuglio
inafferrabile di dolore e rimpianto assieme alla felicità di sensazioni troppo
preziose per lasciarle sfuggire.
Koga si era chiesto perché.
Perché Saori-san avesse il riflesso
di lacrime nella voce quando lo guardava, quando gli parlava. Quando Seiya
ancora era solo un nome senza volto, era solo una schiena che affondava nella
luce, Koga aveva avuto la confusa sicurezza che Saori-san piangesse nel
guardarlo.
Un pianto muto e irreale, l’eco di
un cosmo che, in un remoto angolo della sua essenza, si concede lo strazio di
un dolore. Ma Saori-san non aveva mai pianto davanti a lui, Koga lo ricordava
bene. E ricordava la tranquilla sicurezza con cui lo aveva affidato a Pegasus
quando Mars l’aveva dissolta nei meandri del suo cosmo oscuro.
Finche Seiya non era tornato,
Saori-san non aveva mai pianto.
Adesso invece.
Adesso Saori-san si concedeva di
piangere.
Quando parlava con lui, quando gli
sorrideva. E cercava Seiya.
Aveva sempre cercato Seiya, anche
in lui. Nei suoi gesti, nella piega della sua bocca, nel modo che aveva di
alzare le spalle e ridere, nel luccichio di cosmo che gli incendiava lo sguardo
su un campo di battaglia.
C’erano stati momenti in cui, Koga
ne era consapevole, Saori-san non guardava lui, ma il riflesso di Seiya che in
qualche modo vi scorgeva. C’erano stati momenti in cui il lucore dell’armatura
le riportava alla mente un viso, un sorriso, una battuta; le recuperava un
altro corpo, di uomo e non di ragazzino. Il corpo del cavaliere che da sempre
le era stato accanto; il corpo dell’uomo che per lei aveva rischiato vita e
anima. C’erano stati momenti in cui Koga spariva, e in lui Saori-san e tanti,
troppi altri, vedevano solo Seiya.
Lo aveva odiato anche per questo.
“Koga.”
Detestava il tono della sua voce.
La sua ingombrante presenza; la tensione che era crepitata, improvvisa e
violenta, quando era apparso sul campo di battaglia. Con lui, con i suoi
compagni, Titan aveva solo giocato. Con Seiya era stato diverso. Con Seiya era
stato come trovarsi catapultato in un altro mondo, fra cosmi ardenti e immensi
che si studiavano con lenta latente diffidenza.
Con Seiya Titan aveva temuto per
Pallas e per le sorti dello scontro.
Con Seiya Titan aveva bruciato e
cosmo e vita e lo aveva sfidato. Con Seiya c’era stata la provocazione soffusa
di rispetto e riconoscimento. Con Seiya Titan era stato pronto a rischiare se
stesso; a riconoscerlo come sua pari.
Mentre con lui.
Koga storse la bocca.
Titan con lui aveva solo giocato,
come il gatto con il topo. Si era divertito a provocarlo per constatarne
l’incapacità a reagire. Lo avrebbe anche ucciso. Se Seiya non fosse
intervenuto, lo avrebbe ucciso.
Forse più per capriccio che per necessità;
forse solo per assecondare un desiderio di Pallas o per elementare calcolo
strategico. Un nemico morto e pur sempre un nemico morto, anche se piccolo e
patetico come doveva essergli sembrato lui.
Aveva sperato; quando la
disperazione gli aveva concesso e movimento e rapidità, aveva sperato di
scorgere anche verso se stesso quel barlume di rispetto e timore che vedeva
sempre balenare negli occhi degli avversari di Seiya.
Invece.
Invece Titan aveva sorriso. Un
sorriso sottile, di condiscendenza. Il sorriso di sufficienza di chi alla fine
comprende il raggiro di cui è stato oggetto. Sotto quello sguardo, Koga aveva elaborato
una sola cosa: inganno.
Seiya lo stava ingannando;
Saori-san lo aveva ingannato; la sua stessa armatura lo ingannava.
Perché era Seiya che Titan aveva
guardato, quando la freccia di Sagitter era stata fermata dalle sue carni;
perché era a Seiya che Titan aveva sorriso, quell’odioso sorriso di
sufficienza, mentre osservava divertito l’armatura di Pegasus. Perché era di
Seiya la rabbia e la rigidità che Koga aveva avvertito contro il suo corpo,
nello stordimento del dolore e dell’adrenalina che andava scendendo.
Seiya; sempre e solo Seiya.
“Koga.”
“Cosa vuoi?” gli ringhiò contro
stringendo le spalle in una smorfia di rabbia e dolore.
Seiya sospirò.
C’era astio nella voce di Koga;
astio e rancore e frustrazione nei suoi occhi, nel corpo teso e stanco. Nel
cosmo che ribolliva continuamente, pronto a fagocitare tutto ciò che lo
circondava.
“Sei ferito” tentò in tono
conciliante. “E l’alba è vicina. Dovresti riposare.”
“È per questo che sei qui?” gli
chiese brusco, stringendosi di riflesso il braccio. “Per farmi da balia?”
“Sono qui perché è mio dovere
esserci.”
Koga rise. Una risata nervosa e
isterica, con nella gola lacrime che raschiavano.
“È tuo dovere proteggere me; è tuo
dovere proteggere Saori-san; è tuo dovere proteggere il mondo” elencò con
sufficienza. “Sei un uomo impegnato. Davvero. Un vero eroe.”
“Sono solo un cavaliere.”
“Smettila!” urlò.
Seiya si morse le labbra.
Perché faceva male vedere la
disperazione e lo smarrimento nei tratti di Koga; perché faceva male
riconoscere il dolore di una giovinezza consumata su campi di battaglia. Perché
negli occhi febbricitanti di Koga, Seiya rivide la nostalgia per una vita mai
vissuta, per pochi momenti felici e lo strazio del sangue sui campi di
battaglia.
Nel dolore di Koga, nel cedimento
della sua mente bambina di fronte all’annichilimento della guerra, di fronte
alla morte che ti porti sulle spalle, Seiya riconobbe la disillusione che cercava
di soffocare nel bruciare del cosmo, risentì l’amarezza della propria impotenza
e la stanchezza di ore passate a ferire e straziare cadergli addosso.
L’armatura gli sembrò
all’improvviso pesante e opprimente. La bella armatura dal lucore rassicurante
di un cosmo di luce; la bella armatura arabescata di sangue e di polvere.
L’armatura che lo aveva aiutato, protetto, accompagnato. Sagitter fiero e
insolente; Sagitter folle, di quella follia di devozione che rasenta la
blasfemia.
Eppure aveva scelto lui quella
vita.
Quando i Cieli si erano chiusi;
quando Anissa aveva concesso loro il riposo e la pace, Seiya aveva scelto la
battaglia e l’amore per una donna che non avrebbe mai potuto sfiorare.
Aveva scelto quella vita che gli
era stata imposta bambino; e lo aveva fatto con il sorriso spensierato del
ragazzo che gioca all’uomo. L’aveva scelta sapendo cosa avrebbe lasciato;
conscio di ciò che si sarebbe negato.
Ma Koga.
Koga in quella vita era rimasto
intrappolato.
Non aveva scelto di essere
cavaliere; non aveva scelto di servire Anissa. Koga era solo stato il
ricettacolo di aspettative e speranze; era stato la vita che lui aveva salvato
per un capriccio egoista; era stato il bimbo stretto al seno di Anissa quando
Mars aveva attaccato.
Era stata l’illusione di una vita
nel sorriso appagato di Anissa, nella quiete pigra di giorni consumati a
giocare ai genitori. Loro ragazzini per un bimbo in fasce.
E anche adesso.
Adesso che Koga aveva scelto di
sua volontà la battaglia e lo scontro; adesso che era pronto a bruciare tutto
se stesso in duello, ancora lo aveva fatto per quel legame di devozione e
gratitudine che lo legava ad Anissa.
Ancora Koga non era pronto alla
battaglia. Ancora desiderava la vita e la normalità; ancora fremeva per uno
sguardo di gratitudine e amore da Anissa. Ancora era un ragazzino che la guerra
contro Pallas stava consumando, distorcendogli la mente e straziandogli lo
spirito.
E Seiya sapeva di avere un’altra
vita distrutta di cui rispondere.
“Smettila” lo implorò di nuovo
Koga, la voce in un sussurro. “Sei Sagitter. Sei il primo dei cavalieri. Cosa
puoi saperne tu di dubbi e insicurezze?” singhiozzò. “Cosa ne sai tu, dei
rimpianti? Cosa?”
A Seiya ricordò un cucciolo. Un
piccolo cucciolo smarrito in domande e questioni troppo grandi per essere
comprese. Koga si era gettato in quella guerra mosso da affetto e riconoscenza;
mosso dall’illusione che troppi racconti gli avevano fatto balenare nella
mente.
Ma la guerra.
La guerra non era né morte eroica
né gloria; la guerra non era lo scontro cavalleresco fra cosmi che si
aggrovigliano nel vento e nelle volontà.
La guerra erano cadaveri
disseminati ai propri piedi; era il rumore delle ossa frantumate nelle mani e
il calore del sangue fra le giunzioni dell’armatura. La guerra era il dolore
delle ferite e la solitudine nell’affanno dello scontro; era la speranza malata
di non ritrovarsi, alla fine, da soli, senza quei compagni con cui si è
partiti.
“Penso proprio di capirne. Un
poco” gli sorrise.
E in quel sorriso che sembrava una
smorfia; in quel sorriso sottile e amaro, nella piega rassegnata di labbra che
da troppo non si concedevano la spensieratezza di una risata, Koga intuì una
storia mai davvero raccontata. Intuì che di Seiya conosceva lo splendore delle
vittorie, ma ignorava la fatica degli scontri. Di Seiya Koga conosceva l’oro di
Sagitter e l’odore di leggenda con cui lo avevano sempre raccontato; ma Seiya
era stato anche Pegasus. Era stato bronzo umile che aveva scalato le Case di
Atene; era stato la blasfemia di colpire Ade pur di salvare Saori-san. Era
stata la ribellione agli dei e l’amore ad un mondo che lo avrebbe sempre
ignorato.
Ed era stato un ragazzo.
Un ragazzo come lui, un bambino
gettato nel combattimento. Forse con altre paure forse con le stesse. E Koga
sentì nello stomaco qualcosa aggrovigliarsi fra delusione e rabbia.
Perché accettare Seiya.
Accettare l’uomo che Seiya era, il
ragazzo che era stato, significava realizzare di non aver nulla per cui
odiarlo, nulla per cui esserne geloso, invidioso, arrabbiato. Significava perdere
anche quel piccolo stupido infantile pretesto per ignorare una verità scomoda e
lucida: non era ancora pronto.
Non sapeva ancora cosa volesse
dire davvero combattere; e Seiya, alla sua età, di combattimenti ne aveva
sostenuti già tanti. Così tanti da poter essere considerato un veterano, da
conoscere le disillusioni di una vittoria anche in nome di Anissa.
“Ho una sorella” soffiò Seiya, un
sorriso dolce che sapeva di malinconia. “Non la vedo da diciotto anni” e nella
mente il viso sfuocato di Seika riapparire, con il profumo del mugo e
dell’acqua. L’ultima volta che l’aveva vista; l’ultimo abbraccio che le aveva
dato era stato sulle sponde di un lago, prima di combattere nei Cieli.
L’aveva stretta forte. Lui, il
fratellino ormai cresciuto; e lei, la sorella di un’infanzia perduta, la
sorella che lo aveva salvato dalla morte nell’Elisio, lei gli aveva pizzicato
il naso e gli aveva pregato il silenzio. Non voleva promesse che erano
condanne; non voleva impegni che potevano crollare. Non voleva capire perché,
di tanti anni passati lontani, le potesse restare solo il ricordo di pochi
giorni riconquistati. Seika non voleva accettare quella scelta di vita; e Seiya
aveva dovuto dirle di nuovo addio. Negli occhi e sulle labbra una sola parola,
un vivi che era di egoismo e di
rimorso.
Perché lui aveva scelto Anissa e
la battaglia; perché lui aveva deciso di smarrire ogni identità e seguire un
destino che, bambino, gli aveva strappato tutto.
“Ma è viva!” gli rinfacciò Koga.
Nella voce la rabbia e la frustrazione per un corpo che non avrebbe più
abbracciato, per un viso che non avrebbe più visto. Aria tremolò nei ricordi di
Koga con lucida dolorosa precisione. Quel volto infantile e dolce; quella
incondizionata fiducia che aveva riposto in lui. E la crudeltà del corpo
spegnersi contro il suo petto, in un lungo rantolo che sapeva di rimpianto.
“Tua sorella è viva! Aria invece è morta!”
“Seika è viva” ripetè Seiya, nella
voce un respiro che sapeva di dolore. “Probabilmente adesso è sposata; ha un
marito, dei figli. Ma è come se l’avessi persa di nuovo. Per sempre” continuò,
mentre Koga fremeva. “Mi crede morto” gli disse alla fine, negli occhi
l’amarezza di un egoismo doloroso.
“Morto?”
“Morto” ripetè Seiya, e quella
sola parola suonò di condanna.
“Ma non lo sei” gli obiettò Koga,
incerto, incapace di comprendere il senso di quel discorso, di una confessione
non richiesta e che gli faceva male. Perché Aria era un desiderio che lo aveva
accarezzato a lungo; perché, fino all’ultimo istante, aveva sperato di
ritrovarsela accanto, nel bagliore accecante che lo aveva riportato sulla
terra. “Puoi andare da lei. Puoi parlarci ancora!”
“Per dirle di nuovo addio?” rise
Seiya senza allegria. “No, Koga. La farei soffrire ancora, di nuovo. Per Seika
è meglio così.”
“E per te?” osò chiedergli,
masticandosi nervoso un labbro.
“Per me non ha importanza” scrollò
le spalle. “Seika è felice. Mi basta.”
Koga strinse i pugni.
Cosa cercava di dirgli? Che il
passato era passato e aggrapparvisi è da deboli? Eppure Saori-san. Aveva
combattuto per Saori-san; aveva combattuto nel suo ricordo, nella scurezza di
una vita cresciuta assieme che voleva recuperare. Aveva combattuto per un
futuro, per quel futuro che veniva dal dolore di un passato confuso e
frastagliato.
Oppure.
Aria.
Doveva dimenticare Aria e la sua
infelicità? Doveva dimenticare quel senso di frantumazione, di solitudine, che
aveva provato da sempre? Doveva dimenticare la luce che aveva sentito prima di
cedere al buio? Era questo che Seiya voleva da lui? Era questo che significava
essere cavaliere di Atena? Perdere ogni umanità e votarsi solo al
combattimento?
“No” pigolò in un singhiozzo. “No.
Io non voglio dimenticare Aria. Non voglio dimenticare mia sorella. E tu” gli
ringhiò contro, scoprendo i denti come un cucciolo feroce, negli occhi il
fulgore di un cosmo ribelle. “Tu non puoi obbligarmi a farlo.”
“Non è mia intenzione. Credimi.”
“Bugiardo!” gli urlò contro. “ Sei
un bugiardo, Seiya” ansimò ancora, il cosmo che ribolliva iridescente
strappando bagliori a Sagitter. “Aria. Ryuho. Soma. I miei amici. Lo so cosa
vorresti che facessi. Ma io non sono come te.”
“Come me?”
“Sì. Come te” ripetè, ma la
guardia si alzò. Perché negli occhi di Seiya era passato un lampo, un incupirsi
dello sguardo che sembrava preludio di tempesta. Eppure Koga non voleva cedere.
Voleva distruggere dalla sua mente il viso e la leggenda del Primo cavaliere di
Atena; voleva trovare una crepa, una sola incrinatura, in quella sicurezza
irritante che Seiya sembrava possedere in ogni momento. “Io non li abbandonerò.
Non farò come hai fatto tu” lo accusò, e lo vide come vacillare. Non si era
mosso, eppure a Koga parve di vederlo accusare un colpo.
“Koga.”
“Shaina me lo ha raccontato” continuò.
“Di Artemis.”
“Koga.”
“Mi ha raccontato di quella
battaglia. Di come combattevate.”
“Koga.”
“Li hai lasciati indietro! Li hai
lasciati a morire per andare avanti! Erano i tuoi compagni!”
Koga ansimò.
Cos’è il dolore?
Koga pensava che il dolore fossero
gli occhi di Aria che gli dicevano addio. Fosse la sensazione di impotenza nel
sentirla svanire e la consapevolezza che nulla l’avrebbe più riportata
indietro. Pensava che dolore fosse quel crampo alla pancia quando Saori-san
guardava Seiya, e la sensazione di sentirsi escluso da un rapporto troppo
complesso per scinderlo e interpretarlo.
Pensava.
Ma davanti a Seiya. In quel
momento, davanti agli occhi scuri di Seiya e al suo sguardo disperato Koga si
chiese cosa fosse davvero il dolore.
“È vero” ammise Seiya, nella voce
l’incrinatura del pianto. “È vero. Abbiamo combattuto; e io ho lasciato
indietro i miei compagni. Tante volte; troppe volte.”
“Vigliacco” lo accusò.
“Sì. Sono stato un vigliacco” gli
rispose piegando appena le labbra. “Sono stato un vigliacco perché non me la
sono sentita di tradire la loro fiducia; sono stato un vigliacco perché ogni
volta che mi voltavo lasciavo con loro una parte di me. Sono stato un vigliacco
perché avevamo promesso a noi stessi che Anissa veniva prima di tutto. Anche
della nostra vita.”
Koga indietreggiò.
“Dimmi Koga” gli chiese Seiya, la
voce tranquilla, quasi incolore a scandire una minaccia inesistente. “Sai cosa
significa sentire il cosmo di un compagno, di un amico, calare poco a poco? Sai
cosa si prova nel costringersi a mettere un piede davanti all’altro e andare
avanti anche se l’unico desiderio sarebbe tornare indietro? Sai cosa senti,
qui, in fondo allo stomaco, quando ti rendi contro che ti porti addosso
un’eredità per cui altri sono pronti a morire per te? Quelle stesse persone per
cui stai dando l’anima?”
Respirò fra i denti.
C’erano le scale di Atene nelle
gambe che avvertiva all’improvviso stanche; c’era il freddo di Asgard nell’aria
umida e stantia che serpeggiava fra i cunicoli sotterranei; c’era lo strazio
delle carni nel peso di Sagitter e il lancinante ricordo di dodici visi sorridenti
esplodere nella luce dell’Ade.
“Hai mai perso un compagno, Koga?”
gli chiese a bruciapelo. “Sei mai stato costretto a scegliere fra la vita di
Anissa e la loro? Io ho ucciso uomini che combattevano per quello in cui
credevano; ho alzato la mano su una donna succube di un Dio senza sapere se
l’avrei salvata o uccisa. Io ho abbandonato i miei compagni. E l’ho fatto
mangiandomi ogni volta il cuore; maledicendo la loro determinazione e il mio
affetto. L’ho fatto odiando Anissa e la lealtà che le devo.”
Seiya rantolò aria fra i denti, le
spalle curve sotto Sagitter e uno strazio disperato a serpeggiare negli occhi
smarriti in fantasmi di angoscia che prendevano corpo nelle sue parole, nella
sua voce arrochita e stanca. Troppo stanca.
“Sai cos’è la guerra Koga?” gli
chiese ancora. “Sai cos’è la vera guerra?”
Koga indietreggiò ancora. C’era
qualcosa. C’era qualcosa nelle parole di Seiya che non era ricerca di gloria o
di onori; e nemmeno vanteria di guerriero. C’era il dolore di anni trascorsi su
campi di battaglia, lo strazio di morti inflitte e il terrore di decisioni che
avrebbero potuto costare e la vittoria e la vita. C’era l’annichilimento di un
ragazzo che dell’infanzia aveva conosciuto molta violenza e poca fugace gioia.
C’era il terrore, nelle parole di Seiya. Il terrore di un futuro di nuovo
uguale, con le stesse scelte e le stesse tappe forzate, di lasciarsi di nuovo
alle spalle qualcuno di importante; di perdere qualcosa di insostituibile.
“La guerra è morte, Koga” gli
sussurrò con una smorfia ironica che sapeva di crudeltà. “La guerra di Anissa.
La guerra di Ade, di Posidone. Anche la guerra di Arles. Anche questa guerra. È
solo morte. Puoi anche essere il vincitore, ma la guerra ti resta nella mente,
nello stomaco, nelle mani.”
Koga fissò di riflesso le mani di
Sagitter, i palmi aperti che Seiya guardava con sarcastico disprezzo.
“Ho ucciso. Con queste mani. Ho
ucciso nemici che lo meritavano e cavalieri che avrebbero dovuto combattere al
mio fianco. E li ho uccisi comunque. Ho ucciso dei, con queste mani” strinse
forte l’oro che lo ricopriva. “E tu. Tu mi chiedi se so cosa sono i rimpianti?
Se so cos’è il dolore?” rise roco Seiya.
Koga inghiottì a vuoto, incapace
di trovare parole.
“Ho provato anch’io l’oro di
Sagitter. Sulla mia pelle” continuò in un sussurro, gli occhi smarriti in
lontani ricordi. “E ho accettato di farlo provare ai miei compagni” proseguì in
un tremito, nella mente la sala iridescente di Posidone signore nei mari. Nella
mente il silenzio dei respiri tesi e lo sciabordio di un cielo fatto di mare. I
gemiti di Shiryu e il cosmo freddo di Hyoga a lambire il dolore; il crepitio di
Shaina e la brezza rassicurante di Shun. Si rivide tendere l’arco e pregare;
pregare forse Anissa forse il destino di non costringerlo a scegliere chi far vivere
e chi far morire. Pregare che la freccia non tornasse indietro; o uccidesse lui
solo.
“So cos’è il dolore, Koga. E so
cosa sono i rimpianti” sussurrò socchiudendo gli occhi. “Li vedo ogni notte. Ma
continuerò comunque ad andare avanti. Nonostante tutto.”
“Perché lo è tuo dovere.”
“Perché è mio volere.”
“Sapevi che sarebbe tornata
indietro?” osò chiedergli Koga. “Quando hai scagliato la freccia. Sapevi che
sarebbe stata respinta?”
“Lo sospettavo.”
“Ma lo hai fatto lo stesso” commentò.
“Avresti potuto morire; e lo hai fatto lo stesso” realizzò in quell’istante. E
nella sua voce lo stupore si mischiò alla sorpresa. E rivide Seiya nella luce
obliqua del cosmo e del sole che andava declinando. Rivide la sua
determinazione e la malinconia nei suoi occhi. E rivide il baluginio di
sollievo nel tendere l’arco, la tranquillità celata dietro la tensione della
battaglia. Perché? si era chiesto
allora. Adesso sapeva la risposta.
Perché non c’era nessuno che ti avrebbe difeso.
“Lo so” sollevò le spalle Seiya.
“Non è la prima volta che tento di suicidarmi” scherzò.
Koga tremò.
A quelle parole pronunciate con
leggerezza; a quelle parole ironiche di chi sembra non prendere nulla sul
serio; a quelle parole gettate fra loro come per inciampo, Koga tremò di
terrore e ammirazione.
E si chiese chi fosse davvero
Seiya di Sagitter.
Si chiese chi fosse l’uomo che gli
stava di fronte; l’uomo che per quindici anni aveva resistito alla straziante
devastazione di Mars e che di nuovo era pronto a combattere offrendo tutto se
stesso.
Si chiese perché negli occhi di
Seiya ci fosse l’amore mescolato alla rassegnazione e la tranquillità anche di
fronte all’ipotesi della più straziante delle morti. Si chiese cosa muovesse
davvero Seiya, cosa lo sorreggesse anche di fronte alle prospettive di
dannazione e annullamento che gli aveva sentito irridere con rabbiosa
convinzione.
“Davvero lo avevi già fatto?”
“Cosa?”
“Tentare di uccidere Pallas”
soffiò Koga, con timore.
Perché non ce la faceva.
Perché era dalle parole di Titan
che se lo chiedeva. Perché non riusciva a immaginare che Seiya fosse davvero
pronto a uccidere una bimba indifesa. Di Seiya aveva conosciuto le storie della
generosità e dell’altruismo; l’atteggiamento spavaldo e l’amore per il mondo.
Di Seiya aveva intuito l’essere
cavaliere nelle increspature della voce di Saori-san.
Per questo. Per questo Titan
doveva aver mentito. Per questo Seiya si era solo limitato a rispondere sullo
stesso tono. Per questo; solo per semplice ipocrita facciata di guerra.
Perché scoprire vere quelle parole
voleva dire scoprire una realtà che Koga non si rassegnava ad accettare; voleva
dire sentire il sapore di una guerra che non è ideali ma morte, anche se per
Saori-san.
Perché Seiya non poteva; Seiya non
avrebbe mai potuto.
“Sì” confessò Seiya con ferocia.
“E mi sono lasciato impietosire.”
C’era ferocia nella su voce;
ferocia e cupa rabbia mentre il cosmo ribolliva fra strazio e frustrazione.
Perché se fosse riuscito Anissa non avrebbe sofferto; perché la morte di una
bambina avrebbe concesso libertà al mondo. Perché aveva intuito lo strazio
dell’amore di Saga nel riflesso liquido della daga, e il pianto disperato di
lacrime silenzio sul viso di una bimba che gli offriva la vita urlandogli di
non ucciderla con gli occhi.
“Era una bambina” tentò Koga, e
ricordò il viso felice di Pallas mentre lo seguiva fiduciosa per i vicoli della
città. Ricordò la protezione che cercava in lui e il sorriso sincero che le
attraversava le labbra.
Non sarebbe riuscito a farle del
male. Anche quando gli aveva rivelato chi fosse e fosse pronta a ucciderlo per
capriccio di dea, Koga realizzò che non avrebbe mai potuto farle davvero del
male. Eppure Seiya.
Seiya aveva teso l’arco contro di
lei. Seiya aveva tentato, in piena coscienza, di uccidere non solo la dea
avversaria, ma anche il fragile piccolo corpo che la ospitava.
“Era una bambina” ripetè ancora.
“Tu non potevi.”
“No infatti. Io dovevo.”
E Koga ricordò la durezza negli
occhi di Seiya; ricordò uno sguardo che era di folle volontà e di salda
accettazione. Ed ebbe paura. Paura di quell’uomo che gli era di fronte; paura
di quell’uomo che lo stava solo osservando, cercando nel suo viso i segni della
consapevolezza delle sue parole.
Paura di un cavaliere, di un uomo,
cui la morte e la dannazione non interessavano. Un uomo pronto a rinunciare
anche all’onore e alla memoria pur di continuare la strada decisa; pur di fare
ciò che riteneva necessario. Per
Saori-san.
Ebbe paura. E capì l’abisso che li
separava, intuì ciò che avrebbe posto Seiya sempre davanti a lui,
irraggiungibile.
“Ti odio. Lo sai. Vero?”
Seiya annuì.
Koga era ancora troppo piccolo per
comprendere. Per riconoscere nei suoi sentimenti confusi e provati la vitalità
e l’intensità alimentate da Pegasus. Poteva solo cercare di fare ordine nella
sua anima confusa e se questo significava che aveva bisogno di qualcuno su cui
sfogare le delusioni e le frustrazioni, Seiya era disposto ad accettare anche
quell’odio.
“Eppure hai cercato di salvarmi”
gli ricordò però, con lucida calma.
“Già” fece una smorfia Koga. “L’ho
fatto.”
Perché qualcosa si era spezzato,
dentro di lui. Quando la freccia aveva ruotato in aria, Koga aveva avvertito il
corpo fremere, come un lungo caldo brivido che lo aveva attraversato. Aveva
pensato a Saori-san, al sorriso nascosto nei suoi occhi quando Seiya le era
accanto.
Aveva pensato alla leggenda di
Seiya che andava sgretolandosi sotto i suoi occhi. E aveva pensato che voleva
affrontarlo di persona prima che morisse.
E poi c’era stato qualcos’altro.
Qualcosa simile alla volontà; un sentimento estraneo che lo aveva attraversato
con violenza, e il suo corpo si era mosso da solo, indovinando una traiettoria
che non era stato capace di vedere.
Il dolore era arrivato improvviso,
simile ad un lampo inaspettato. Poi c’era stato il corpo di Seiya a sorreggerlo
e il suo cosmo avvolgerlo con più forza, lenendo il dolore della ferita. Lo
stesso cosmo che lo aveva avvolto un istante prima di essere colpito, Koga ne
era sicuro.
In una frazione di secondo, Koga
aveva avuto la lucida sicurezza che Seiya lo avesse protetto, o almeno avesse
fatto di tutto per farlo.
C’era stato qualcosa. Qualcosa che
aveva impedito a Seiya di fargli scudo e che aveva tenuto lui saldo nella sua
posizione, corpo e spirito per un istante uniti nel desiderio di difendere.
Difendere l’uomo che Anissa aspettava; difendere il cavaliere che lo aveva
protetto infante; difendere Seiya per il solo fatto che doveva essere difeso.
“Era come se qualcosa mi avesse
costretto a farlo” sussurrò Koga, fissandosi le mani nella semioscurità.
“Pegasus” soffiò allora Seiya, un
sorriso malinconico sulle labbra. “È stata la volontà di Pegasus a
costringerti”
“Non capisco.”
“L’armatura mi appartiene” gli
spiegò alla fine, di fronte alla sorpresa nello sguardo di Koga. “Mi è ancora
legata.”
“Ho conquistato Pegasus” balbettò.
“L’armatura appartiene a me” tentò ancora Koga, mentre le poche sicurezze che
ancora possedeva, il solo orgoglio che ancora gli resisteva si frantumava nel
silenzio della notte che andava schiarendo.
“Io ti ho concesso Pegasus” scosse la testa Seiya. “Quando Mars mi
catturò. Fu allora. Chiesi a Pegasus di vegliare su Anissa. E su di te. Ma non
vi ho mai rinunciato.”
“Tu hai Sagitter!”
“Io vesto Sagitter per rispetto a
chi me la concesse” rispose con un tono pacato, quasi condiscendente. “Sagitter
deve essere al fianco di Anissa; ma Aioros non può più farlo. Assolvo io questo
compito in sua vece.”
L’aria sapeva di muffa e marcio
nei rifugi sotterranei. Lo sciabordio lento dell’acqua di scolo rompeva
monotono il silenzio dei passi degli uomini di guardia e dei richiami nel buio
del sotterraneo. Lontano, in fondo al cunicolo che riportava in superficie, si
iniziava a intravvedere il lucore dell’alba.
Così luminoso; così abbacinante.
Simile ai riflessi di oro liquido che il fuoco delle torce accese strappava
all’armatura di Sagitter.
Koga guardò Seiya.
Nella ferina ardente volontà che
gli ardeva negli occhi, conobbe ciò che Seiya era, ciò che lo rendeva davvero
il primo cavaliere di Atena, un cavaliere leggendario, capace di sfidare uomini
e rivaleggiare con gli dei. Intuì la blasfemia e lo strazio che era disposto ad
accettare in nome di quella dea dolcissima e crudele cui aveva dedicato la vita
e la morte, per cui era pronto a dannare anche l’anima.
“Io cosa sono allora?” gli chiese,
la voce un singhiozzo a fatica trattenuto; negli occhi lo smarrimento di un
bambino di fronte alla complessità della vita.
“Sei Koga di Pegasus” lo riconobbe
Seiya, stingendogli una spalla in quell’unico gesto che si era concesso. “Lo
sei per i nemici che hai sconfitto; lo sei per i compagni che su di te fanno
affidamento. Lo sei per Anissa” gli ricordò, mentre la presa si faceva più
forte e Koga avvertiva il cosmo di Seiya fluire in lui, caldo e rassicurante
come un fiume d’oro. E dietro avvertì la risonanza con le tredici stelle, una
complicità fatta di muta condivisione.
“Lo sei anche per me” aggiunse
alla fine in un sussurro, sopprimendo l’impulso di stringerselo al petto.
Inghiottendo il desiderio, per un istante, per un solo istante, di comportarsi
verso quel ragazzino come un padre, come quel padre che non potrà mai essere,
né per Koga né per nessun altro bambino.
“Non hai paura che disonori la tua
armatura?”
“Pegasus sa scegliere bene i suoi
portatori, credimi” rise Seiya.
Mentre si incamminava verso la
luce e la battaglia; mentre dispiegava al vento dell’alba le ali di Sagitter e
lasciava crepitare il cosmo in un presagio di duello, Koga ne intravide lo
sguardo di orgoglio e sicurezza, venato di quella malinconia che gli conosceva
da sempre.
“Combatterai da solo anche oggi?”
lo fermò, nella voce un’urgenza che non aveva mai provato.
“Ancora per un po’. Sì.”
“Saori-san non verrà. È troppo
pericoloso e lei è troppo debole.”
“Anissa verrà. È da lei farlo,
vedrai se non avrò ragione” rise Seiya, mentre s’infilava l’elmo e l’alba
strappava riflessi infuocati a Sagitter. “Sarà orgogliosa dei tuoi progressi.”
“Lo pensi davvero?” tentennò,
sospeso fra desiderio sottile di ricevere la sua approvazione e speranza di
mostrarsi degni con il tempo di un’armatura dal sapore di leggenda.
“Non lo peso Koga. Lo so.”