Due paroline
Mi sento di dover fare un paio di precisazioni,
prima di lasciarvi alla lettura. Questa fic è
altamente demenziale e non ha assolutamente il minimo senso, è
completamente OOC e non tiene minimamente conto di
coerenza, struttura e continuità narrativa. E’ soltanto una
cavolata per far ridere.
Inoltre, a proposito dell’avvertimento slash, l’ho inserito perché c’è
un accenno, peraltro decisamente comico, ma non è necessario essere
amanti di questo genere per leggere perché è un elemento secondario
che fa da sottocornice.
L’ultima cosa: spero vivamente che nessuno si
venga a sentire offeso da quanto da me scritto. Potrebbero esserci riferimenti
a personaggi che qualcuna di voi ha usato, magari inventato, ma sono del tutto
casuali e non voluti. Ironizzo su un determinato tipo di cliché, di
linguaggio e di situazione che spesso si vedono in opere che io considero scadenti e di pessima
qualità, su certe stupidaggini trite e ritrite – e il discorso
vale anche per me medesima; forse voi non la vedrete, ma c’è una
certa autoironia tra queste righe – ma questa
è soltanto la mia personale opinione e non si basa su autori o opere in
particolare. Questa fic, è vero, non è
gentile e anzi probabilmente l’intento offensivo è anche
più forte di quanto risulterà, perché ho preferito
buttarla sul ridere quando invece normalmente leggendo certe cose mi
innervosisco molto. Detto ciò, non voglio giudicare nessuno o scagliarmi
contro chissà chi. Ho voglia di far ridere, per cambiare, visto che di
solito tendo a sfociare nella tragedia assoluta. Non so se mi riuscirà
ma è questo, e non l’offendere, l’obiettivo primario che mi
sono posta con questa storiella.
Infine, le mie scuse più sentite: a James,
Remus e soprattutto Sirius per averli usati in quest’obbrobrio, al Mestro Tolkien per averlo citato
en passant e a qualunque altro artista e/o
personaggio e/o romanzo che verrà coinvolto nella porcheria che, con
trepidazione, vi lascio finalmente leggere.
Cordialmente,
suni
Dell’epica, strabiliante,
agghiacciante
tenzone tra messer Padfoot
e le sue
Mary Sue
(e di come a causa loro
s’infatuò di Moony)
Prologo
L’Espresso
di Hogwarts lasciava in quel momento la King’s
Cross Station di Londra, come ogni anno puntualmente accadeva la mattina del 1°
settembre, diretto al villaggio magico di Hogsmeade
dal quale la folla di studenti sarebbe stata poi scortata al castello in cui
aveva sede la rinomata Scuola di Magia e Stregoneria. Di Hogwarts, appunto.
In
quel momento gioioso gli studenti stavano, com’era giusto e doveroso,
festeggiando la partenza verso quell’incantevole luogo, in cui fino a
giugno avrebbero trascorso le loro liete giornate lontani dai genitori, dalle
zie grasse, dal barboncino insopportabile della nonna e tutto il resto, immersi
nello studio e nella bisboccia con gli amici, tra avventure e apprendimento.
Gli allievi della scuola, dunque, si accingevano ed iniziare felici un nuovo,
promettente anno scolastico, ignari, gli incauti, della tremenda minaccia che
incombeva annunciando il dramma inevitabile che avrebbe avuto luogo al
castello. Peraltro tanta ingenua avventatezza da parte loro poteva risultare
anche eccessiva.
Effettivamente
alcuni tra loro, come ad esempio il giovane e acuto Severus
Snape, avevano avuto modo di notare almeno un paio di
indizi sconcertanti. Ad esempio il fatto che in fondo al treno fosse stato
aggiunto, quell’anno, un vagone extra perlomeno bizzarro. Di taglia
maggiore rispetto alle altre, con cromature lilla e rosate che ben poco avevano
di sobrio, la vettura recava sull’ingresso l’insegna “Mary
Sue, qui” con tanto di freccia luminescente ad indicarne la soglia. Il
giovane Slytherin aveva aggrottato la fronte con un
istintivo moto di inquietudine, non tanto per il termine Mary Sue che gli era oscuro,
ma perché quei colori nauseanti e quella freccia, che dimostrava
evidentemente che gli occupanti della carrozza necessitavano di tutto
l’aiuto possibile per compensare la mancanza di perspicacia, non
promettevano nulla di buono.
La
sua perplessità era aumentata quando, accingendosi a cercare un vagone
normale su cui salire, aveva visto le prime persone che prendevano posto in
quello succitato: si trattava esclusivamente di ragazze, tutte estremamente
avvenenti per quanto dotate di particolari caratteristiche bizzarre – chi
con occhi viola o di due colori differenti, chi con i capelli d’argento,
chi con enormi seni prosperosi di taglie disumane, chi ancora avvicinandosi al
treno in groppa ad unicorni e così via – che l’avevano
spiazzato. Poiché, comunque, Severus era una
persona normalmente riservata e poco incline ad immischiarsi negli affari
altrui, finì per scrollare brevemente la testa e arrampicarsi sul treno.
Anche
Lily Evans, sbattuta a terra accidentalmente dal colpo
d’anca di una fanciulla sconosciuta dal sedere strabiliante e la pelle di
luna, sbatté gli occhi tramortita, individuò il vagone e,
perplessa, aggrottò la fronte in direzione della nuova venuta,
osservandola penetrante.
Quella
non s’era nemmeno avveduta di averla urtata, e si guardava intorno
sgranando i grandi occhi lilla – nulla per cui lei, dotata di splendide
iridi smeraldine, potesse impressionarsi – sorridendo con timida
sfrontatezza. Lily si stupì nel notare che la fanciulla, pur essendo una
sconosciuta, non aveva affatto l’aria di essere al primo anno.
“Qualche
problema?” domandò solerte, mettendo in mostra la spilla di
Caposcuola.
Gli
occhi dell’estranea scintillarono – tanto da stordirla nuovamente
– di sollievo mentre, scrollati i bei capelli biondi, le sorrideva con
risoluta gentilezza.
“Sono
nuova e non mi so orientare,” spiegò, simpatica per natura.
“Ma
se avrai almeno sedici anni,” commentò Lily pratica.
“Quattordici,”
la corresse l’altra con condiscendente fascino. “Sono molto
precoce, ovviamente. Sono arrivata quest’anno a Hogwarts perché mi
sono trasferita dall’estero durante l’estate,” spiegò
rapida.
Lily
si strinse nelle spalle.
“E
allora? Avresti comunque dovuto continuare a frequentare la tua scuola,”
osservò, con logica ferrea.
L’altra
parve sorpresa dalla sua sensata affermazione, tanto che gli occhi sgranati
assunsero una sfumatura vacua e vagamente ebete. Poi scosse la testa,
ritrovando la decisione.
“No.
Mia madre e mio padre erano grandissimi avversari russi di Voldemort in
incognito e sono stati uccisi in una attacco a sorpresa ad opera di quaranta
Death Eaters, di cui solo tre sono sopravvissuti allo
scontro. Mia zia vive in Inghilterra, mi hanno affidata a lei e sono venuta qui
per essere al sicuro.”
Lily
boccheggiò, stordita da quella valanga di parole assurde. Intanto, la
ragazza parlava di Voldemort come se lo conoscesse perfettamente, inoltre non
si spiegava perché mai una coppia di russi avrebbe dovuto prendere tanto
a cuore il problema della difficile situazione inglese quando gli stessi
abitanti del Regno Unito parevano tentennare, e per finire quaranta Death Eaters le parevano un po’ tanti. Socchiuse le labbra
per elencare quelle perplessità, ma una domanda più semplice le
sfuggì dalle labbra.
“E
perché parli perfettamente l’inglese?”
“Sono
un genio,” rispose l’interlocutrice con modesta sicurezza.
Lily
distese la fronte, condiscendente.
“Oh.”
Seguì
qualche istante di silenzio, durante il quale la straniera si guardò
intorno ancora un altro po’ e poi tornò ad apostrofarla con la sua
cristallina, melodiosa voce musicale.
“Sapresti
dirmi dov’è il vagone delle Mary Sue?”
Lily
trattenne uno sbuffo scettico, limitandosi ad indicare con estrema lentezza la
carrozza mezza rosa a dieci metri
da loro. La strana nuova studentessa seguì con lo sguardo la sua indicazione,
tacque compresa per qualche secondo e poi la fissò nuovamente.
“Bè?” chiese annoiata.
Lilì serrò i denti con tanta forza da
farli scricchiolare.
“E’
quello. C’è scritto,” ringhiò esasperata.
L’altra
sorrise, rischiando nuovamente di accecarla, stavolta a causa dello sfolgorio
dei denti splendenti.
“Perfetto!
Anche tu sei piuttosto sveglia!” esclamò ammirata. “Sento
che saremo ottime amiche. Io sono Tiffany ma puoi
chiamarmi Tiffy e sono una ragazza adorabile. Ci
vediamo a scuola!” starnazzò, già correndo con sensuale
malagrazia verso il vagone.
“Te
lo puoi scordare,” borbottò Lily tra sé, “Tiffy,”
terminò, con una smorfia disgustata per quell’orrendo nomignolo.
Scrollò la testa e riacquisto l’espressione marziale, accingendosi
a prendere posto sul treno.
Quando
un’altra perfetta estranea le passò accanto – capelli
d’oro (letteralmente) minigonna vertiginosa e labbra di rubino (ancora
letteralmente) – domandandole dove fosse il vagone delle Mary Sue
perché trovarlo era impossibile, Lily si rese conto tragicamente che,
qualunque cosa fosse una Mary Sue, essere Caposcuola quell’anno sarebbe
stato uno stress innaturalmente poderoso.
Non
era l’unica a dar mostra di una certa inquietudine. Mentre i suoi due
migliori amici – uno dei quali costituiva anche il suo sogno erotico da
almeno sei mesi - ritardavano tanto da fargli temere che avrebbero perso
l’Espresso, Remus J. Lupin si guardava intorno con forte ansietà.
Forse era l’istinto di lupo a metterlo in allarme, ma sentiva come un
presagio di sventura incombere pesantemente, facendogli mettere tutti i sensi
all’erta. Quando Peter Pettygrew, accucciato
nel sedile accanto al finestrino, lo vide cacciar fuori la testa e fiutare
l’aria come se fosse stato sulla pista di una preda da sbranare, si
schiarì la voce sedendosi più dritto.
“Moony,
ehm, tutto a posto?” chiese timidamente.
Sobbalzando
per quel suono inatteso che lo aveva raggiunto d’improvviso in un momento
di allerta, il giovane mago si voltò con espressione grave, corrugando
la fronte.
“Sento
che sta per succedere qualcosa,” annunciò mite, ma con voce seria.
Peter
annuì brevemente, facendosi attento.
“Temporale?”
ipotizzò, perché capitava che talvolta l’amico licantropo
avvertisse in anticipo l’avvento del maltempo, quando s’era vicini
al periodo della luna piena.
Remus
scrollò la testa, concentrato.
“No.
Qualcosa di peggio,” replicò lugubre, sedendosi con riluttanza.
Peter,
pauroso geneticamente, ebbe a malapena il tempo di aprire la bocca che il
fischio del treno annunciò l’imminente partenza. E in quel
momento, proprio mentre l’Espresso iniziava a muoversi, la porta del loro
scompartimento si spalancò con violenza e i due compagni mancanti si
scaraventarono all’interno ansimando come asmatici e accasciandosi
immediatamente sui sedili, senza fiato e scarruffati
dalla corsa.
“Appena
in tempo,” esclamò Peter sollevato.
Remus,
dimentico per un momento della propria infatuazione, si accigliò
severamente squadrandoli con disapprovazione.
“Stavate
per perdere il treno,” osservò secco.
James
sbuffò come una caffettiera, mentre Sirius boccheggiava una risposta
incomprensibile.
“Eh?”
squittì Peter sporgendosi verso di lui.
“…Svegliati…tardi,”
farfugliò il ragazzo, congestionato.
“E
mio padre…stava potando i ciliegi e siamo dovuti andare a cercarlo,”
aggiunse James, già sghignazzando.
“Ciliegi?”
ripeté Remus perplesso. “Quali ci…?”
E
s’interruppe lì, perché Sirius scelse quel preciso momento
per ricomporsi, recuperò improvvisamente la compostezza, i suoi capelli
corvini tornarono ad essere spettinati non per la corsa ma con naturale,
attraente incuria, le chiazze violacee sul viso infiammato svanirono come per
incanto e l’erede dei Black omaggiò i presenti col suo perfetto
sorriso – non accecante, perché lui non era una Mary Sue – sovrastato
dai begli occhi argentei e ridenti made in Black,
marchio registrato.
“Idee
per l’anno nuovo?” domandò sogghignando.
James
attaccò subito dopo con l’elenco dei diabolici piani che insieme
avevano architettato durante le settimane che l’amico aveva trascorso a
casa sua, per rendere partecipi gli altri due membri del clan, e i quattro
ragazzi si lanciarono dunque in quello che si prospettava essere uno splendido,
inimitabile ultimo anno.
Fu
così che, per via del ritardo che aveva reso quasi invisibile il suo
arrivo per tutti gli altri, già installati sul treno, Sirius Black
partì per Hogwarts completamente all’oscuro di quanto lo
aspettava. Se fosse arrivato qualche minuto prima l’orda di fanciulle
indemoniate che l’avrebbero assalito gli avrebbe fatto presagire la reale
gravità della situazione, ma per com’erano andate le cose si mise
in viaggio senza poter minimamente immaginare che quelli sarebbero stati gli
ultimi attimi di serenità per molto, moltissimo tempo.
-
“[…]mio padre
stava potando i ciliegi” Questa frase, apparentemente insensata, è
dovuta alla mia vecchia amica ciaraz. Siccome ho
spesso la tendenza a inventare scuse del tutto campate in aria e spesso un poco
inconsulte relativamente alle occupazioni dei personaggi quando ho bisogno che
siano impegnati, la mia cara amica talvolta ironizza sulla cosa: “Non sai
che fargli fare? Di’ che stava potando i ciliegi, tanto di solito non
è che ti sforzi molto di più”.
Grazie, cia’.
Continua a insegnarmi l’umiltà.