I am my father’s son
Quando mio padre morì, avevo
solo cinque anni.
Era il 12 settembre del 1928,
nel pieno del Proibizionismo per antonomasia, che segnò l’area metropolitana di
New York come poche altre cose poterono fare; che segnarono me – anche se ero
troppo piccolo per esserne già consapevole – in modo tale da farmi invocare la
morte più volte, in futuro, senza però mai veder esaudito il mio desiderio.
Ad oggi, non so ancora decidere
se sia stato un bene. Forse, se fossi morto, non avrei potuto vivere ciò che
sto vivendo ora, che, nella sua piccolezza, è qualcosa che mi scalda il cuore e
mi ricorda la mia famiglia prima che venisse distrutta, seppure sia per certi
versi completamente diverso.
Ricordo il suo funerale, così
grigio e spento e palesemente disinteressato, gremito di uomini in abito
elegante e baffetti disegnati che discutevano sottovoce con costosi sigari tra
le labbra, come se si stessero spartendo delle vincite al Monopoly. Quelle di
mio padre.
Mi chiesi perché fossero lì, se
per cordoglio o se per vedere quel corpo freddo che nemmeno riuscivo a toccare,
accertandosi che fosse davvero lui, che non fosse uno scherzo mal riuscito. Per
cosa, lo capii solamente dopo.
Ero troppo piccolo per
realizzare che quell’emozione dipinta sui loro volti era davvero malcelata
soddisfazione, che quando guardavano attraverso me vedevano lui e ciò che mai
più avrebbe creato loro problemi. Li avevo sentiti mentre sentenziavano che un
moccioso con quell’espressione da coniglio non sarebbe mai stato in grado di
seguire le orme di suo padre, senza neppure curarsi di abbassare la voce in
modo tale che non sentissi.
Avevo solo cinque anni, ma mi
fu da subito impossibile non domandarmi perché il futuro mi proibisse di fare
il banchiere. Non credevo di essere così stupido, tanto più che sapevo contare
anche prima di iniziare le scuole. Solo dopo capii davvero, ma
non lo accettai fino a quando non morì anche mia madre, lasciandomi quella
lettera, portando con sé nella morte anche l’ultimo riferimento della mia
sgretolata vita.
Ricordo lei, mia madre,
aggrappata alle spalle di mia sorella maggiore senza la facoltà di stare in
piedi sulle sue stesse gambe, con l’odio per quegli uomini d’affari affogato in
troppe lacrime che i suoi occhi non riuscivano a contenere, affogato in una
disperazione insanabile dalla profondità di un baratro.
Quelle stesse lacrime, però,
sua figlia non le versava.
Impiegai anni a capire perché
Beck non sembrasse essere così disperata, ma, quando maturò quella
consapevolezza da sempre palese davanti al mio sguardo inconsapevole, l’odio
per quella figura paterna che mi ero abituato a non avere si era già radicato
nelle mie ossa per ben altri motivi, che stranamente – non pensavo che sarei
mai arrivato ad ammetterlo – non consideravo nemmeno imputabili alle sue
azioni.
O forse, invece, lo erano
comunque. Tutto, indirettamente, era il pegno che noi avevamo pagato per lui,
che aveva preferito morire piuttosto che affrontare le sue colpe. Il suo nome,
attraverso me, suo unico figlio maschio, continuava a vivere e non avemmo mai
pace, almeno fino a quando tutto andò in frantumi di nuovo, definitivamente.
Per me in modo assolutamente devastante.
Dalla sua morte, mia madre
iniziò a sfiorire lentamente, ma inesorabilmente. Per i primi due o tre anni
furono solo segni violacei sotto gli occhi, poi giunsero i capelli bianchi e le
ossa sporgenti, segni lampanti di chi si fa forza per negare la difficoltà di
proseguire con lo stesso ritmo del prima. Forse, la stanchezza per
quella vita senza soddisfazioni la stava privando della determinazione, della
stessa voglia di vivere. O forse la mancanza dell’uomo che amava nonostante
tutto era troppo dilaniante per permetterle di continuare a essere una buona
madre, o anche solo per continuare a essere se stessa. I suoi figli non erano
abbastanza per lei, e faceva male saperlo. Niente, nella mia vita, fu mai
alienante come quella consapevolezza. Nemmeno guardarla morire senza poter fare
nulla mi portò mai una disperazione tale come la provai di fronte
quell’evidenza, lì stazionaria davanti ai miei occhi ogni singolo giorno dalla
morte di mio padre.
Iniziò a prendere pillole,
lasciando a Beck tutta la responsabilità della casa e a me, mai abbastanza
grande per essere un uomo e mai abbastanza piccolo per fuggire dall’angoscia,
il compito peggiore di fingere che andasse tutto bene. Mia sorella ebbe quindi
anche la responsabilità della mia presenza.
Uno dei miei rimpianti più
grandi è di non averle mai chiesto nulla, pensando che il mio affetto fosse
sufficiente a colmare le delusioni che le infliggevo quotidianamente, con il
mio semplice comportamento da ragazzino disadattato.
Per quei tredici anni che
separarono la morte di mio padre da quella di mia madre, io dovetti fingere, e
impegnarmi a farlo, che le lettere anonime scritte con i ritagli di giornale
che trovavamo con cadenza settimanale nella casella postale fossero solo degli
scherzi di cattivo gusto; che gli appostamenti dall’altra parte della strada
fossero casualità; che i colpi di pistola così vicini alle nostre finestre, di
notte, fossero solo delle liti a noi estranee dovute alla vicinanza con i
confini di Harlem. Mi chiesi perché non andammo mai alla polizia, ma non osai
domandare ad alta voce. In fondo, forse, sapevo.
Beck, tra le altre cose, aveva
preso una strana abitudine… niente di grave, ad ogni modo era parecchio strano
ai miei occhi di adolescente. Ogni giorno, in un portagioie, nascondeva un
foglietto stropicciato, spesso macchiato di caffè o di qualunque altra cosa che
significasse che lei, la sua vita, non se la viveva più perché non ne aveva la
possibilità, china sui fornelli o su uno scopettone per riassettare qualche
stanza. I suoi compagni l’avevano sempre chiamata Cenerentola, prima che fosse
costretta a ritirarsi da scuola per via delle difficoltà a casa.
Su quei pezzi di carta,
strappati dai vecchi quaderni della scuola elementare che a volte usavamo per
alimentare il fuoco del camino, scriveva le emozioni della giornata, ciò che
l’aveva colpita o ciò che le si rivoltava nello stomaco fino a farle perdere quel
sorriso già raro, quello che aveva solo per me e solo quando le portavo a casa
dei fiori raccolti di nascosto a Central Park.
Credo che sapesse che ogni
giorno – mentre lei si ritagliava il suo spazio personale nella vasca da bagno
con i sali profumati che, da sempre, le regalavo per natale – io frugavo nel
suo portagioie alla ricerca delle sue emozioni. Ero avido di conoscenza: volevo
che le sue gioie, ma soprattutto i suoi dolori, passassero attraverso me;
volevo che mia sorella, attraverso degli stropicciati pezzi di carta, si
confidasse con quel ragazzino troppo grande per ignorare quel profondo senso di
angoscia, ma troppo piccolo per poter portare sulle spalle il peso che portava
Beck. Volevo che mia sorella smettesse di fingere una forza che, in realtà, di
notte veniva a mancare, quando la sentivo piangere con i singhiozzi soffocati
nel cuscino. Non volevo che diventasse come nostra madre, anche se non seppi
mai come impedirlo.
Fortunatamente, ci riuscì da
sola.
Forse, mia madre avrebbe potuto
spifferare che mi facevo i fatti suoi, di Beck intendo, ma la verità era che
non aveva tempo per nulla che non fosse la sua scatola di pillole, che passava
ore a rimirare senza vedere davvero.
Ho sempre amato mia madre, per
questo vederla sfiorire e impazzire giorno dopo giorno non fece altro che
accrescere l’odio per quel padre che avevo avuto per pochi anni, ma che
comunque mi erano bastati perché facesse vivere, attraverso me, la sua
condanna. Sapevo che anche per Beck era lo stesso, che il peso che inevitabilmente
finiva sulle mie spalle non diminuiva dalle sue. Lo capii con concretezza
quando, dopo che mia madre tentò per la prima volta di togliersi la vita, da
quel portagioie non sparì mai il biglietto che più mi aveva sconvolto, quello
che diceva:
“Posso sentire il tuo sangue
scorrere nelle mie vene,
perché le menzogne, le truffe,
il furto…
sono passati attraverso me.
A me, da te.”
Avevo quattordici anni quando
trovai quel biglietto. Sentii qualcosa dentro di me andare in pezzi perché
finalmente trovai l’evidenza che ricercavo da sempre, come il riflesso del
lampadario nel quadro di una televisione che non potevamo più permetterci,
perché non eravamo più ricchi. Ma quel sentimento angosciante e quella frenesia
della ricerca non erano mai spariti dalla mia mente, ricollegandosi in modo
inequivocabile a quel troppo che non sapevo di mio padre, a quel troppo che mi
piombò davanti un pezzo per volta, ma comunque in modo così distruttivo da non
farmi parlare per due giorni. Persino mia madre, persa nel suo dolore e in
tutto ciò che non fosse legato alla vita presente, se ne accorse.
Mio padre era un impostore e
mai – mai – potei giustificare una sola delle sue azioni, che
scoprii in seguito, in quella lettera che mi scrisse mia madre poco prima della
sua morte. Chissà, forse se lo sentiva che quella volta sarebbe stata l’ultima.
Ripensandoci ora, mi rendo
conto che nella mia famiglia la carta è sempre stata fondamentale. Mia sorella
scriveva le sue emozioni, le sue devastazioni, su fogli di carta, e mia madre
impresse proprio sulla carta il suo ultimo barlume di lucidità. O forse la
prova che non aveva mai perso se stessa.
Solo io non amavo scrivere,
solo io preferivo frugare in quel portagioie con all’interno dei foglietti
appallottolati perché era come se quell’oggetto mi parlasse, come se anche solo
toccandolo tutta la disperazione di Beck potesse fluire dentro di me, attraverso
me, per scaricarsi lontano. Ma, di fatto, dal mio corpo non uscì mai e, ancora
più importante, non uscì mai dalla mia mente.
Mia madre morì il 4 luglio del
1941, tentando il suicidio per la terza volta… e riuscendoci. Fu una giornata
di grande, immensa morte. Per tutti.
Giunse via radio, quasi
nell’immediato, la notizia che i nazisti avevano distrutto un covo di
scienziati con una brutalità disarmante, accrescendo il senso di perdita che
sentivo dentro. A Beck non importava, lei aveva perso sua madre e un branco di
sconosciuti non poteva di certo toccarla così in profondità. La capivo, per
alcune ore anch’io la pensai così, guardando il volto finalmente rilassato di
mia madre che, nella morte, si era ricongiunta all’uomo che l’aveva, in quegli
anni, tormentata di sofferenze, ma che non aveva mai smesso di amare. Ma, dopo
alcune ore, anche il massacro di quelle povere persone innocenti iniziò a
vorticarmi dentro.
Quanti innocenti erano morti
per colpa di mio padre?
Quando mia madre morì, trovammo
il suo barattolo di Luminal completamente vuoto e privato di tutte le sue
pillole, ma con all’interno qualcosa che ci fece ghiacciare il sangue nelle
vene. Era un foglietto stropicciato, macchiato di caffè in modo da ricordare a
Beck che non avrebbe più potuto scegliere come vivere la sua vita.
“Posso sentire il tuo sangue
scorrere nelle mie vene,
perché le menzogne, le truffe,
il furto…
sono passati attraverso me.
A me, da te.”
Mia sorella, con la mano
ancorata al ventre, come a proteggerlo, corse verso il grande buffet del
salotto, alla ricerca del suo portagioie. Lo trovò vuoto, perché nostra madre –
non solo mia, nostra – lo aveva finalmente letto, in un impeto
di interesse verso i suoi figli. Per mesi mi aveva guardato frugare in quel
piccolo bauletto e leggere, ogni giorno, la stessa devastante frase;
finalmente, forse per mettersi in pace la coscienza prima di tentare di
uccidersi per quella che, forse se lo sentiva, era la volta buona, tentò di
capire i suoi figli come mai in quei tredici anni aveva fatto.
Tentò di capire perché Beck
ogni giorno aprisse quel portagioie, tentò di capire perché anch’io, ogni
giorno, mentre Beck era in bagno, aprivo quel portagioie. Passammo ore a
domandarci perché avesse deciso di morire con quel foglietto così vicino, confessai
anche a mia sorella che la pedinavo da anni, e lei mi disse che lo sapeva. Mi
disse che il mio più grande pregio e il mio più acuto difetto fossero proprio
la curiosità, così ogni giorno aveva lasciato quei foglietti in modo che io
potessi leggere dalla sua penna ciò che non aveva il coraggio di esprimermi con
la voce.
Ho quest’immagine vivida di
Beck che si tiene il ventre con la mano. Non mi confessò mai di essere in dolce
attesa, perché forse credeva di non meritarselo, credeva che la sua gravidanza
non sarebbe mai giunta alla fine, perché attraverso di noi fluivano le colpe di
nostro padre. Da quel giorno, attraverso di noi fluì anche la sofferenza di
nostra madre.
Non seppi mai quando scrisse la
lettera che trovammo nel tostapane, se prima o dopo aver assunto quelle venti
compresse di Luminal. Pensai comunque che avesse un gran senso dell’umorismo, o
forse era semplicemente uscita completamente e definitivamente di senno, perché
non ricordavo di aver mai più visto la mia bellissima madre, bella anche nella
morte e forse ancora più eterea in quella condizione, sorridere. Non c’era
umorismo in lei, non c’era divertimento. Aveva smesso di esserci da quando il
suo grande amore era stato spazzato via da quell’incidente, da quella
pallottola presa per sbaglio perché stavamo ai confini con Harlem. O così avevo
sempre creduto.
In quel tostapane lasciò tutto
ciò che aveva, tutto ciò che sapeva e che io e Beck avevamo solo potuto
sospettare.
Ci disse che nostro padre del
Proibizionismo fece la sua più grande fonte di reddito. Ci disse che era uno
dei più grandi, che lo aveva amato nonostante questo e, ancora peggio, lo aveva
sostenuto. Non se ne era mai pentita, e questo mi ferì profondamente. Ci disse
che si era abituata a vivere nel lusso che quelle attività illecite portavano.
Disse tante cose che non fecero altro che affossarci, dettagli cruenti e
spietati, nomi… tanti nomi.
Beck era incinta, si sentì
male. Non mi disse nulla, io continuai a fingere di non saperlo, ma un altro
pregio che non aveva mai voluto menzionare era la mia capacità di osservazione.
Io vedevo.
Fu devastante per lei
comprendere fino a che punto il matrimonio con l’uomo che, nonostante tutto,
l’amava fosse impossibile. Fu devastante anche comprendere che suo figlio non
sarebbe stato esente da quel fardello di cui noi non eravamo riusciti a
disfarci, da cui anche mia madre, come mio padre tredici anni prima di lei, era
fuggita.
“Posso sentire il tuo sangue
scorrere nelle mie vene,
perché le menzogne, le truffe,
il furto…
sono passati attraverso me.
A me, da te.”
Ho quest’immagine vivida di mia
sorella che corre verso il suo portagioie e lo trova vuoto, sigillando subito
dopo quel consunto pezzo di carta all’interno, quel foglio svolazzante sporco
della polvere lasciata indietro dalle pasticche di barbiturici che mia madre
non aveva risparmiato.
Quell’oggetto mi chiama, nei
sogni mi chiama anche oggi, dopo anni, ed è come se mi stesse guidando verso un
luogo che non conosco, pur non avendolo più con me.
Decisi di arruolarmi
nell’esercito. Volevo fuggire da tutto, fuggire in Europa, pagare finalmente
per le colpe che erano passate in me attraverso mio padre e, in quel momento lo
seppi, anche attraverso mia madre. Volevo avere la possibilità di salvare tante
vite quante loro ne avevano distrutte e fu fondamentale, perché capii che
l’alienazione che avevo provato in tutta la vita non fu nulla a confronto con
ciò che vidi al di là dell’Atlantico.
Beck volle imitarmi, volle
andarsene prima che per lei fosse troppo tardi. Finalmente mi confessò di
aspettare un bambino da quel Charles che abitava dall’altra parte della strada,
da quell’uomo con il destino segnato perché aveva solo visto troppe cose senza
aver partecipato a nessuna di esse. Un po’ come noi.
Volle venire con me, seppure
una donna in stato interessante non fosse per nulla adatta a un campo di
battaglia. Decise allora di fuggire, ma non mi disse mai dove.
«Prendi questo» mi disse il
giorno della mia partenza, quando, con già il borsone in mano e le braccia non
abbastanza muscolose per sostenerlo, attendevo il treno che mi avrebbe portato
al porto. Chinai lo sguardo sulle sue mani screpolate dall’autunno imminente e
trovai una bussola, che le avevo regalato quando era morto nostro padre.
L’avevo trovata per strada, non puntava al nord, non sempre almeno.
«Beck, non funziona» le risposi.
«Ed era un mio regalo.»
«Sei davvero sicuro che non
funzioni? Ti riporterà a casa. Vivo.»
Ricordo che mi morsi la lingua
a sangue per non ricordarle che non sarei potuto tornare a casa, perché non
l’avremmo più avuta. Stavamo fuggendo proprio da quelle quattro mura al confine
con Harlem che ci avevano provocato tanta sofferenza. E, forse, sarei morto in
battaglia. Dopotutto, era quello che speravo. Ma quando guardai negli occhi di
Beck, quegli occhi che per la prima volta mi ricordarono la dolce mamma che non
avevo più da tredici anni, capii che lo sapeva anche lei e che non voleva altro
che sentirmi dire che avrei provato a tornare.
Così l’abbracciai stretta e fu
in quel momento che promisi a me stesso che non sarei andato in cerca della
morte, avrei semplicemente continuato la mia vita in quel posto in cui morire
era semplicemente molto più probabile di quanto non lo fosse a casa, a New
York, nonostante tutto il nostro passato.
La guerra fu molto peggio di
quanto non mi fossi mai aspettato e ogni giorno un pensiero mi tormentava, mi
impediva di dormire.
Passa tutto attraverso me, non
riesco a morire, non riesco a morire perché devo pagare per le colpe di mio
padre.
Questo pensavo quando i colpi
d’arma da fuoco atterravano i miei compagni, trapassando loro il petto, mentre
io, pieno di quelle pasticche che chiamavano amfetamine, avevo il coraggio di
morire, ma non ne avevo la fortuna, la casualità. Non ero abbastanza codardo da
rompere la tacita promessa fatta a Beck per lanciarmi davanti a un fucile e
salvare un commilitone mio fratello.
Lo capii quando vidi delle
famiglie spaurite, una madre con una figlia maggiore e un fratellino più
piccolo. Rividi la mia famiglia, senza padre – che probabilmente era morto in
quella guerra – e bisognosa d’aiuto. E capii che avrei davvero accettato la
morte solo se fosse venuta per me, non l’avrei rifuggita, l’avrei accolta, ma
solo se fosse venuta esclusivamente per me, finalmente a dirmi che potevo
smettere di pagare per le colpe di un padre che non ricordavo aver mai visto
sorridermi come un bambino piccolo merita sempre.
La morte non mi ha mai voluto – mai –
in quattro anni di guerra. Giorno dopo giorno lo annotavo su quel quaderno che
avevo nell’accampamento, pensando a Beck e a dove potesse essere, con Charles e
il bambino che avevano avuto, perché ero certo che mia sorella fosse riuscita a
portare a termine la gravidanza. Avevo sempre visto nei suoi occhi quella luce
determinata a sperare in tutto: credeva che non fosse giusto pagare per delle
colpe che non avevamo commesso, ma che ci erano semplicemente scivolate
attraverso le azioni di due genitori sbagliati, che a loro modo – forse –
avevano saputo amarci quanto li avevamo amati noi.
Ogni tanto, forse una volta a
settimana, riportavo su un angolo del quaderno quella frase, quella che Beck
aveva impresso nella mia mente, marchiandola a fuoco.
“Posso sentire il tuo sangue
scorrere nelle mie vene,
perché le menzogne, le truffe,
il furto…
sono passati attraverso me.
A me, da te.”
Poi strappavo la pagina e la
buttavo nel falò che, ogni tanto, ci concedevamo il lusso di accendere, quando
sapevamo che gli aerei tedeschi non ci avrebbero visti. Non capitava spesso e
allora, quando non potevo farlo, rubavo l’accendino del mio compagno di tenda –
anche se, purtroppo, si sono susseguiti tristemente e mai mi successe di avere
sempre il solito amico per più di un mese – e ne bruciavo gli angoli fino a
giungere alle parole, che poi annerivo con uno scatto rabbioso. Esorcizzavo le
mie colpe, ciò che attraverso me continuava a passare come unica dote di mio
padre. Erano quelle le parole che bruciavo per prime, ogni volta.
La morte mi ha sempre rifiutato
e oggi sono qui, cammino per questo marché
aux puces alla periferia di una
distratta e distrutta Parigi. Dopo quattro anni dalla fine di quella che hanno
definito la Seconda Guerra Mondiale, porto ancora le ferite della morte che non
mi ha mai voluto, ma che ha sempre aleggiato attorno a me, portando via ogni
amico che abbia osato farmi durante il periodo del conflitto.
Ho sempre pensato che anche
questo fosse un modo per farmela pagare, per far passare attraverso me
dell’altra sofferenza.
Non sono tornato in Patria,
forse mi è mancato il coraggio di farmi accogliere in un luogo dove mi
avrebbero ricoperto di falsi sorrisi e onorificenze senza avere nessuno con cui
condividerle. Avrei potuto dare tutta quella patina dorata in cambio di riavere
indietro mia madre, perché la sofferenza che se l’era portata via non fosse mai
esistita, ma non sarebbe mai stato possibile. E allora sono rimasto.
Sono rimasto forse per vedere
il figlio di mia sorella, anche solo in fotografia, eppure in tre anni, quasi
quattro, non ho mai trovato una traccia di Beck. Mi sarebbe piaciuto osservare
il viso di suo figlio alla ricerca delle somiglianze con il padre che aveva la
fortuna di avere accanto. Quelle somiglianze avrebbero cancellato per sempre
quei marchi apparenti di tutto il male che ci passa attraverso senza pietà. Ma
per espiare le colpe che non ho commesso, forse, sono destinato a non
ricongiungermi mai con ciò che resta della mia famiglia.
Eppure sono rimasto, seguendo
l’ago di questa bussola che, in tutti questi anni, non ha mai puntato al nord,
ma che ha sempre puntato nella direzione migliore per me. Quando sono stato
indeciso, ho sempre seguito quest’ago.
E ora giro per questo mercatino
delle pulci e non so nemmeno perché si chiami così. Ho un vivido ricordo degli
accampamenti, delle vere pulci nei nostri giacigli di fortuna, e non trovo
nessuna somiglianza con ciò che vedo qui. Qui vedo voglia di ricominciare,
voglia di ricostruire, voglia di non pensare a ciò che è stato e alle colpe che
ogni essere umano si è assunto in questi anni di guerra.
Perché c’è chi può farlo,
mentre io non riesco ancora oggi a togliermi dalla mente quegli uomini avvolti
dal pastrano che passavano le ore sotto casa nostra?
Stringo la bussola tra le mani
e svolto a sinistra, mentre i miei occhi sono catturati da un luccichio cupo,
da un raggio di sole che colpisce una scatola di latta per puro caso, passando
l’unico buco in questo tendone bianco sporco.
Quella scatola di latta sembra
un portagioie e d’improvviso tutto ciò che non ho mai dimenticato si affaccia
alla mia mente e mi travolge come un fiume in piena. Mi avvicino, sotto lo
sguardo curioso di una bambina che ha qualcosa di familiare, anche se non
riesco ad afferrare cosa sia.
Le chiedo di vedere il
portagioie e lo apro, trovando dentro un foglietto ancora più familiare di
quella bambina. Inspirando profondamente, insieme all’odore di muffa e umido,
mi sembra ancora di sentire la polvere di barbiturici che, con quella puzza di
asettico tipica dei medicinali, è un incredibile memoria di ciò che questo
piccolo e insulso pezzo di carta ha passato. È appallottolato, lo apro e mi si
inumidiscono gli occhi. Non ho mai pianto durante la guerra.
“Posso sentire il tuo sangue
scorrere nelle mie vene,
perché le menzogne, le truffe,
il furto…
sono passati attraverso me.
A me, da te.”
Ho passato quella fase, ciò che
ho visto mi ha fatto crescere e in qualche modo so che anche per Beck è stato
così, o non avrebbe mai trovato il coraggio di mettere sulla bancarella questo
affare che per lei – per entrambi – ha significato così tanto.
Eppure, nonostante sia riuscito
a lasciarmi tante cose alle spalle, se chiudo gli occhi posso ancora sentire
tutta la colpa di mio padre che mi passa attraverso. Questa volta, però, non si
ferma lì, ma passa e se ne va.
Stringo il foglietto tra le
mani per un lungo istante, lasciandomi governare per un momento da tutto ciò
che rappresenta, e poi lo rimetto all’interno del piccolo scrigno consunto dal
tempo. Dico alla bambina, forse un po’ troppo grande per quella che
effettivamente dovrebbe essere la sua età, che voglio quel bauletto di latta.
In cambio, le lascio la bussola che non punta più al nord, la bussola che punta
verso il mio istinto.
Guardo di nuovo quei capelli
ramati, così simili a quelli di Charles, e poi guardo gli occhi, quelli di
Beck, i miei, quelli di nostra madre. Forse è giusto così, forse è meglio avere
la testimonianza di un passato che non si potrà mai rinnegare.
E sorrido, mentre me ne vado e
annuncio che tornerò domani, a controllare se qualcuno avrà comprato
quell’affare sgangherato che ho lasciato al posto di quest’altro derelitto. E
domani, lo so, troverò Beck.
*
Ringrazio Lisa, che mi
ha plottato questa storia così:
Un ragazzo sui
venticinque anni, in un rigattiere, tiene un foglio stretto in pugno con
scritto: “I can feel your blood running through my veins. Because
the lying, the cheating, the stealing… oh, it’s transferred through. To me, from you.”
Devono esserci almeno tre oggetti fondamentali a cui si lega. La parola chiave
è “attraverso”. Lui attraverso se stesso, quindi il foglio e gli oggetti
giocano un ruolo fondamentale nella caratterizzazione del personaggio.
Ho utilizzato
solo due oggetti, ovvero il portagioie e la bussola, e come terzo ho considerato
il foglio stesso, perché credo che, in realtà, sia stato la chiave di tutto. E
aggiungo che la frase scritta sul foglietto appartiene a “Caro padre” dei Deaf
Havana, così come anche il titolo.
Davvero grazie
per questa ispirazione: non avrei mai trovato questa storia nella mia testa, se
non avessi avuto l’input.