Gran bel paesaggio.
Lo osservava poggiato con il gomito sul bordo del finestrino
dell’autobus, gli occhi socchiusi. la luce del sole di metà pomeriggio lo
colpiva in pieno viso, scaldandolo come se stesse arrossendo. Sentiva caldo e,
sebbene cercasse di ignorarlo muovendosi il meno possibile, ciò non poteva
contrastare la realtà dei fatti: completo nero e camicia alla fine di aprile
fanno sudare.
La strada di campagna che l’autobus percorreva era come
tutte le strade di quel tipo, ovvero mortalmente noiosa. Campi verdi, campi
arati, pannocchie, girasoli, una casa solitaria. Niente di cui appassionarsi.
Eppure, nel profondo di sé, sentiva che qualcosa di quel paesaggio lo
struggeva, come se le costole si serrassero intorno al cuore per proteggerlo, stringendolo.
La donna anziana che sedeva di fronte – l’unico passeggero
oltre a lui – scese alla fermata
successiva, nel mezzo della campagna. Chissà se la figlia l’avrebbe
perdonata. L’aria abbattuta e il
pacchetto incartato con carta rosa parlavano chiaro. Passò ancora del tempo,
impossibile capire se fossero dieci minuti o un’ora; non aveva prestato
attenzione né al sole né all’orologio.
“Siamo a fine corsa. Dovrebbe scendere”
Alzò lo sguardo. L’autista era in piedi di fianco al suo
sedile e lo osservava con espressione compassionevole. Quanto detestava quegli
sguardi ipocriti. Sembravano dire “La mia condizione è migliore della tua, e
dispiacendomene confermo la mia superiorità”. Si alzò – era molto più alto di
lui – ringraziò con un cenno del capo e scese i gradini di metallo con quanta
meno goffaggine il bastone gli permetteva.
Le costole
abbracciarono il suo cuore ancor più strettamente. Doveva percorrere una strada
in ciottoli bianchi che proseguiva dentro uno steccato dello stesso colore. Se
non fosse stato per la commovente bellezza di quel luogo, avrebbe pensato che
ciò che stava andando a fare sarebbe stato completamente inutile. Se non altro,
invece, avrebbe potuto godere del bello
che lo circondava.
Camminò con
deliberata calma. Pensò che quell’ampia strada, in quella stagione, avrebbe
dovuto percorrerla correndo un bimbo felice, non certo un cinquantenne
disilluso e zoppicante. Più disilluso di quanto non fosse mai stato.
Un uomo
sconosciuto parlava di fronte a una silenziosa platea. Egli non si aggregò a
loro, ma si fermò di fianco a un tiglio
secolare qualche metro indietro. Qualcuno si voltò verso di lui e lo osservò
per qualche secondo con curiosità, salvo poi rivoltarsi verso l’oratore per non
sembrare scortesi. Che ipocriti, quasi quanto le vuote parole che l’uomo
vestito di nero pronunciava di fronte agli altri. Erano tutte astratte,
insipide, di circostanza. Burocrazia funebre.
L’uomo smise
di parlare. Sei persone in nero afferrarono altrettanti capi di spesse corde e,
lentamente, calarono la bara nella fossa. Guardò da lontano. Una donna anziana
piangeva sulla spalla di un giovane uomo terribilmente trasandato. Doveva
essere suo fratello. Lo era di sicuro, i capelli erano della stessa sfumatura
fulva.
Per alcuni
minuti si udì solo il rumore delle pale e i tonfi sordi del terriccio. Quando
tutto fu concluso, un brusio diffuso indicò che era arrivato il momento delle
condoglianze. Che idiozia. Non sarebbero servite certo a consolare; anzi,
avrebbero rinnovato il dolore e, soprattutto, erano false. Chi veramente
soffriva non aveva bisogno di comunicarlo al prossimo.
Sospirò,
aggrottò la fronte e decise che era abbastanza. Diede le spalle a tutti e,
incurante di chi stava sicuramente notando quanto poco rispettoso fosse il suo
gesto, cominciò a percorrere la strada a ritroso. Attraversò il prato, uscì
dallo steccato e raggiunse la fermata dell’autobus, in mezzo al nulla. Non
c’era una panca, solo il palo con il tabellone degli orari. Si rassegnò ad
aspettare in piedi, e sperò che la gamba non cominciasse a dolere.
“House”
Chiuse gli
occhi e alzò il volto al cielo. Ci avrebbe scommesso una mano. Qualche mese
prima si sarebbe voltato, avrebbe messo in piedi uno sguardo altezzoso e
avrebbe risposto qualcosa come “Diamine, cosa ti è successo? Hai una faccia da
funerale!”. Ma in quel momento non aveva alcuna voglia di parlarci. Così non
rispose alla chiamata.
Lei si
avvicinò. Non si voltò a guardarla, ma continuò a fissare l’orizzonte al di là
dei campi di girasoli davanti a sé. Chissà com’era vestita.
“House” –
disse, e si fermò di fianco a lui. “So che sei a pezzi”.
Aspettò una
reazione, che non arrivò. Non che non avesse parole; semplicemente non trovava
alcuna utilità nel dirle. Non si sarebbe sentito meglio. Lei esitò, a disagio.
“Sono in
auto” – pausa. Il verso dei merli e il profumo dell’oleandro in fiore
riempirono il vuoto. “Se vuoi posso portarti a casa”.
Ancora i merli.
“Andiamo,
non puoi tornare da solo”
Non
rispose,non gli importava. Non gli importava di cosa lei avrebbe provato, anche
se le sarebbe stata bene un bel po’ di frustrazione. Lei sospirò sommessamente,
e lui capì che si sentiva affranta.
“Sai meglio
di me che correrai alle pillole”
Ecco, era
ovvio, lo stava aspettando: l’affondo sul senso di colpa e sulla dignità,
l’ultima arma a sua disposizione. In lontananza, sulla strada, si poté scorgere
la sagoma dell’autobus che si avvicinava con una lentezza esasperante. Frenò
sbuffando alla fermata dopo istanti che parvero ore, e lui salì aggrappandosi
al corrimano d’acciaio, tenendo con l’altra mano il bastone.
“House!”
Non salutò.
Le porte si richiusero mentre le dava le spalle, e l’autobus ripartì mentre la
donna lo guardava con gli occhi spalancati dallo sconcerto.
*
Aprì la
porta di casa, per la prima volta dopo mesi, con un colpo secco, e la richiuse
mandandola a sbattere contro lo stipite. Gettò la giacca sull’appendiabiti
senza curarsi di fare centro: quella scivolò e cadde scompostamente a terra. Guardò
le chitarre appese al muro, il pianoforte, il televisore e il tavolino. Impugnò
il bastone come una mazza da golf e lo centrò in pieno, mandandolo a gambe all’aria
e frantumando la lampada che appoggiava su di esso. Pensò di sedersi sul divano
e cercare di calmarsi, ma era impossibile. Preferì marciare in preda alla
rabbia lungo la stanza, finché decise che fare definitivamente a pezzi il
tavolino forse l’avrebbe rilassato. Mosse il braccio per alzare il bastone, ma
non ci riuscì.
Abbassò lo
sguardo. Il bottone del polsino della camicia si era impigliato sull’orlo della
tasca. Strattonò per liberarsi, incurante che il bottone sarebbe potuto
saltare, ma quello resisté. Furibondo, si arrese a doverlo sfilare e, mentre si
chinava verso la tasca, notò qualcosa.
Da essa
usciva un lembo di carta. Diede poco peso alla cosa. Finalmente si liberò e
alzò ancora il bastone.
No, non
poteva, ormai la scintilla era scattata. Non ricordava quel foglietto. Forse era
uno scontrino. D’altra parte, non usava spesso quel completo, che infatti
odorava ancora di naftalina. Era riservato a occasioni idiote come un funerale,
quindi a cerimonie cui aveva partecipato si e no un paio di volte.
Infilò la
mano in tasca. Il tatto gli comunicò che era poco più grande di uno scontrino
del bar. Anche la carta era più spessa, sembrava carta da fotocopie. Un lembo
era irregolare e sfrangiato, quindi era stato strappato. Lo sfilò dalla tasca e
lo portò davanti agli occhi: la vista confermò quanto aveva dedotto.
Ma il tatto
non poteva rivelare la presenza o meno di inchiostro.
Suppongo che userai
queste. Smetti di fare l’idiota.
Blu su bianco, corsivo. La grafia era indiscutibilmente la
sua. Doveva essere lì da mesi, dall’ultima volta che erano stati lì in casa. Le
costole, traditrici, si strinsero nuovamente sul cuore, mozzandogli il fiato.
Non fare l’idiota.
Quando gli
diceva di non fare l’idiota? Praticamente sempre, spesso perché aveva appena
mancato di tatto a un paziente morente. Eppure, i momenti in cui gliel’aveva
detto in modo più veemente erano quelli in cui cercava di autodistruggersi. Era
arrivato persino a cercare di entrargli in casa di soppiatto, dalla finestra
della cucina, per sincerarsi del suo stato emotivo. Certo, lui era così di
natura: non sarebbe mai stato in grado di imitarlo spontaneamente. Ed era
infelice.
Fissava i
resti del tavolino, e d’un tratto sentì i visceri andargli a fuoco. Certo, l’autocombustione
non era un fenomeno approvato dalla comunità scientifica, ma se lo fosse stato
era certo che la sensazione provata dalle vittime sarebbe stata proprio quella.
Dannazione! Sfasciare il tavolino era stato un gesto completamente razionale, e
gli aveva permesso di sfogarsi, di sentirsi meglio, seppur limitatamente.
Ogni neurone
che possedeva urlò la sua protesta quando le sinapsi effettuarono il
collegamento: perché allora non fare qualcosa di altrettanto irrazionale, ma a
un livello più alto, se l’effetto era benefico? Perché non cercare di essere
felice con un atto irrazionale?
Perché non c’erano
garanzie di funzionamento, si disse, e perché ogni dato sperimentale confermava
che la felicità era effimera e limitata. Ma, dopotutto, cos’aveva da perdere? Non
sarebbe potuto stare peggio di così. Che paradosso: razionalmente, un atto
istintivo sembrava la scelta migliore.
Allora se ne
accorse. Per la prima volta, sentì di voler vivere, e non di osservare la vita.
Che stesse cambiando? Veramente anche
lui stava cambiando?
Sferrò un
calcio ai residui del tavolino, schizzò verso la porta, si sfilò la camicia
rimanendo in maglietta e afferrò la prima giacca che gli arrivò sotto le dita. Con
la coda dell’occhio si accorse che era la sua giacca da motociclista. Uscì sbattendo
di nuovo la porta alle sue spalle.
Al diavolo
la moto. Camminò per decine di minuti, senza curarsi del dolore alla gamba e
della primavera che gli scorreva davanti agli occhi. Attraversò il parco
centrale, ma non degnò di uno sguardo né i bambini che giocavano, né le persone
che facevano jogging, né le magnolie in fiore. Fortuna che aveva deciso di mettere le scarpe
da ginnastica anche con il completo, perché altrimenti si sarebbe riempito i
piedi di vesciche.
Il sole si
stava abbassando quando raggiunse il luogo che mirava. Il suo emisfero sinistro
gli disse che era scontato, ma lui decise deliberatamente di non ascoltarlo. Percorse
il primo terzo del vialetto che portava alla villetta, un’ala della quale era
visibilmente più recente del resto, quando la porta di questa si aprì, e lei
uscì.
Si fissarono
in silenzio. Ancora quei merli! Non sapeva quali parole usare che non
sembrassero una giustificazione o un insulto. Lei lo fissava a occhi spalancati
ma, per il resto, impassibile.
Resisté finché
non poté più sopportarlo, poi istintivamente lasciò cadere il bastone.
“Non prendo
più pillole da cinque mesi”
Lei lo
squadrò, sospettosa. “Dimostramelo”.
L’uomo si
tolse la giacca e gliela gettò. Rivoltò le tasche dei pantaloni verso l’esterno
e il suo respiro si fece affannoso. Lei continuava a fissarlo, gli occhi appena
più aperti.
“Controlla” –
disse lui – “Controlla. Non ne ho nessuna dose. Le ultime sono in casa, nell’armadio,
in un sacco di plastica nera. Tieni” – continuò, e le lanciò le chiavi – “Se
vuoi puoi andare a controllare. Fruga tutta la casa, e se vorrai controllare
nel muro c’è un piccone nello sgabuzzino”
“Forse
dovrei controllare nel muro. Abbatterlo dovrebbe essere liberatorio”
“Se ti
renderà felice, fallo”
“Perché sei
qui?”
“Per questo”
- disse, mostrando il foglietto. Lei si
avvicinò, lo prese tra le mani e lo lesse con gli occhi spalancati. Poi rivolse
verso lui quello stesso sguardo.
“Nei miei
pantaloni, tre quarti d’ora fa” – rispose alla domanda silenziosa.
La donna non
mutò espressione. “Che cosa significa? Che cosa vuoi che faccia?” – disse,
scuotendo appena la testa.
“Che tu sia felice” – disse l’uomo, il
respiro agitato. “Chiediti solo questo, e poi sappimi dire se questo implica la
mia assenza. In ogni caso non ho intenzione di ritornare nella mia vecchia casa”
Si chinò e
raccolse il bastone. Indietreggiò di qualche passo, mentre lei continuava a
fissare il foglietto con le sopracciglia aggrottate. Sospettava già la
risposta, e sapeva che quella dipendeva in gran parte dal recente restauro
della facciata della villetta. Si voltò chiudendo gli occhi e si avviò lungo il
vialetto, verso l’uscita.
“House”
Non aveva
fatto in tempo a raggiungere il cancello, quando si sentì richiamare. Non si
voltò.
“Quanto ci
hai pensato?” – chiese. Fece qualche passo verso di lui. “Dimmi, quanto hai
pensato alle parole che mi hai appena detto?” – si fermò a una decina di passi
da lui. “Suppongo siano il frutto dell’applicazione di una logica ineccepibile,
dell’imbastimento di un piano dettagliato. Dimmi, mi
sto comportando come da programma?”
Egli si
voltò verso la donna, distante una dozzina di passi. Non riuscì ad arrabbiarsi.
“Non c’è
nessun programma” – rispose, e si stupì di quanto tenue fosse il tono della sua
voce. “Ho trovato quel biglietto meno di un’ora fa. Sono venuto qui a piedi. Ma
non posso convincerti di non aver razionalizzato, e nemmeno voglio”
Fece per
voltarsi di nuovo, ma lei parlò di nuovo.
“Come posso
fidarmi?”
Se l’aspettava,
e ne aveva ben donde. La domanda era legittima.
“Vorresti
poterlo fare?”
“Mi
piacerebbe” – rispose lei con un tono più rauco.
L’uomo si
voltò completamente.
“Wilson mi dava dell’idiota in due occasioni:
quando rendevo infelici gli altri e, soprattutto, quando rendevo infelice me
stesso. Questo è quello a cui ho pensato quando ho letto quel biglietto” –
disse, e sentì distintamente i suoi occhi fremere. “Wilson voleva che io fossi
felice rendendo felici gli altri. Lo stesso James Wilson che tre giorni fa non
riusciva quasi a parlare nel reparto di lungodegenza oncologica del Memorial di Trenton, e che da
questo pomeriggio si trova sotto due
metri di terra”.
Sbattè con il bastone sul selciato. “se credi che io abbia
razionalizzato anche su questo, sei libera di farlo. La verità è che sono
uscito di casa e sono venuto qui seguendo l’istinto”.
Il sole si era ancora abbassato, allungando le
ombre e portando con sé una brezza lieve e tiepida, che lo carezzò come una
mano delicata. Deglutì, chiudendo gli occhi. Si sentiva stanchissimo. L’effetto
dell’adrenalina stava svanendo.
Lei si stava
allontanando, ritornando verso il portone. Beh, a quel punto la risposta era
ovvia. Attese che arrivasse alla soglia e che scomparisse al di là di questa
prima di andarsene.
Eppure non
la varcò. Aprì la porta e rimase lì di fianco.
“Non fare troppo
rumore. Rachel dorme. Lascia le scarpe nel solito angolo”
Non riuscì a
muoversi.
“Dai, su” –
lo incalzò con fretta.
Mentre si avvicinava
al portone, lo colse con una domanda.
“Ti fa male
la gamba?”
Lu la toccò
istintivamente. Spalancò gli occhi, sorpreso. Si voltò a guardarla nel viso.
Lasciò cadere
il bastone, arrivò al portone e varcò la soglia.
fine