NIGHT.

di LauraDreamer
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NIGHT

It’s where my demons hide, it’s where my demons hide.
 
 
 
 
 
 
Stavo pensando alla mia dolce Jenny. Lei era spesso nei miei sogni. La immaginavo nella mia testa proprio come la ricordavo. Aveva lunghi capelli biondi, e un bel vestito corto come piaceva a lei; e poi i suoi occhi azzurri: quelli li vedevo ogni volta che chiudevo i miei, di occhi.
Un’altra bella cosa a cui pensavo spesso era la mia mamma. Quando la mia mamma mi spiegava le cose, io le capivo sempre. Mi mancava, la mia mamma, in quei giorni. Da quando ero andato in Vietnam, non l’avevo più vista.
E un’altra persona che non avevo più visto, dopo la guerra, era Bubba. Io e Bubba saremmo dovuti diventare pescatori di gamberi. A lui piacevano tanto i gamberi, e sapeva un sacco di cose su di loro. Avremmo preso una barca e lui sarebbe stato il capitano, e io il suo primo ufficiale, e avremmo pescato un sacco di gamberi. Ma lui non c’era più.
Ultimamente pensavo tanto anche al pin pong. Tutti dicevano che ci ero portato. Ero nato per il pin pong. Ci giocavo sempre. A volte, se non c’era nessuno con cui giocarci, mi allenavo da solo. Giocavo a pin pong talmente tanto che ci giocavo anche nel sonno.
 
Una mano afferrò Forrest e lo trascinò giù dalla branda con forza. Si ritrovò a terra, sorpreso, accanto ad un arrabbiato Tenente Dan. Questi lo sbatté con violenza sul comodino, poi lo afferrò per la camicia blu e iniziò a parlare del suo destino, della sua situazione, incolpando Gump della sua vita rovinata, distrutta, spezzata. Perché l’aveva salvato? Lui doveva morire in campo, con onore, assieme ai suoi uomini. Ma nonostante la rabbia, fu la disperazione ciò che più si vide trasparire dalla voce, dalle gesta e dagli occhi del Tenente, che iniziò a piangere sul petto del giovane Forrest.
 
“Capisci, capisci quello che sto dicendo, Gump? Questo non sarebbe dovuto succedere. Non a me. Avevo un destino. Io ero il Tenente Dan Taylor.”
“Lei è ancora il Tenente Dan.”
 
Non capiva, il nostro Forrest, come un uomo tanto disperato potesse ancora trovare la forza di ridere. Soprattutto dopo avergli detto quelle parole con così tanta durezza. Certo, sappiamo che Dan rideva di se stesso, della sua situazione tanto odiata, inaccettabile, ma Forrest questo non poteva saperlo, e allora si chiedeva se magari il Tenente rideva grazie a lui, o per colpa sua.
Non capiva nemmeno perché il Tenente gli avesse parlato di “destino rubato”. Non credeva certo che la vita andasse sprecata, e chiunque altro lo aveva ringraziato per non averlo lasciato a morire tra spari e bombe. Ci teneva al Tenente Dan, e non si pentiva di averlo salvato.
Ma più di tutto, Forrest non capiva perché uno dei suoi migliori buoni amici non si sentisse più se stesso. Aveva ancora lo stesso viso, gli stessi occhi, le stesse labbra; aveva ancora lo stesso corpo e lo stesso spirito. O no?
 
No. Forse quelli non ci sono più. Non tutto il corpo, almeno. Le gambe non le ha più. E quanto allo spirito…
Forse davvero il Tenente Dan non è più il Tenente Dan: non ha mai sorriso, né urlato, né fatto battute da quando siamo qui al ricovero. E non ha più voglia di combattere. Non vuole nemmeno mangiare o bere; sembra che non faccia, e non voglia fare altro, se non dormire. Se ne sta sempre disteso. Quando arriva qualcuno a parlargli, o lo devono portare da qualche parte, lui non risponde, e si lascia prendere in braccio come una bambola.
Prima, ricordo che i suoi occhi mi facevano pensare al fuoco che la mamma accendeva sul cammino: era caldo, rassicurante, e bello, ma faceva anche paura. Paura non come i ragazzi cattivi che t’inseguono. Paura perché è più grande e forte e gli porti rispetto.
Ma ora i suoi occhi sono come il mare. Freddi, distanti. Quando sono in burrasca, ti mettono agitazione, perché in quei momenti sembra poterti uccidere con lo sguardo. Come se volesse vederti annegare. Come se fosse lui l’acqua che ti toglierà il respiro.
Ma quando sono mare calmo, allora sì che fanno davvero paura. Perché non c’è niente dietro. Espressione, sentimento, niente.
Quando è calmo mi spaventa tantissimo.
Perché sotto sotto so che ci sono demoni, che non si possono affrontare, che non  si possono placare, che non si possono ignorare.
 
Nel silenzio della stanza, solo il Tenente Dan sembrava ricordarsi di respirare. Forrest pensava ancora. Non più a Jenny, a sua madre, o a Bubba. Forrest pensava al Tenente, e lo fissava con sgomento, non sapendo che fare. Dan si rimise dritto, continuando a maledire le sue gambe e il suo destino. Piangendo, in silenzio.
 
“Guardami. Che cosa farò adesso? Che cosa farò, adesso?”
“Signore. Lei farà il Tenente.”
“No. Non farò più nulla riguardo l’esercito, e la guerra, e tutte le stramaledette cose che ho fatto finora.”
“Allora, Signore, lei può fare…il mio migliore buon amico.”
 
 


“Sì, Forrest. Questo, forse, si può fare.”
 
Io lo so che il Tenente Dan non mi perdonerà mai per averlo salvato, e neanche mi ringrazierà. Ma anche se non sono un cervellone, una cosa l’ho capita: lui mi vuole bene, e me ne vorrà ancora per tanto tempo.
Forse quando lo capirà anche lui, potrà essere il mio migliore ottimo amico.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-
Questo breve racconto nasce dopo aver visto per l’ennesima volta, ma a distanza di anni, il film Forrest Gump, di cui sono innamorata. Questa scena, in cui si vedono la disperazione, il trauma, l’incapacità da parte di Dan Taylor di accettare l’amputamento di entrambe le gambe, mi fa sempre piangere. Eppure lui mi trasmette così tanta forza, decisione, oltre alla rabbia.
Ho dovuto scrivere qualcosa.
Spero non sia pessimo. Non ha un filo logico, forse, perché sono tutte cose uscite di getto. Ed è probabile che nessuno commenti, ma io lo chiedo lo stesso, non si sa mai:
Per favore, lasciate una recensione. Positiva (?), negativa, neutra, basta che mi diciate la vostra opinione. Mi farebbe piacere. Grazie in anticipo per il tempo che mi dedicherete. Vado.
Bacioni.




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