RAPITA
La
vita può cambiare radicalmente, da un giorno ad un
altro. Spesso cambia lentamente, altre volte, invece, cambia
così velocemente
che quasi non te ne accorgi.
Io
ho avuto quest’ultima possibilità.
La
mia vita cambiò radicalmente da un momento ad un
altro. Non ci credete?
Allora ricominciamo dall’inizio vero e proprio.
Il
mio nome è Annabeth Chase ho 17 anni, figlia del
molto più famoso architetto Fredrick Chase e Atenia Chase,
titolare di una
grande industri per l’alimentazione energetica. Diciamo che
dire che sono ricca
è un eufemismo. Mio padre è uno dei
più famosi architetti del mondo. Conteso
tra decine di aziende e agenzie, ed è persino riuscito a
vincere un appalto per
ristrutturare un’ala della Casa Bianca. Mia madre, invece,
era una delle donne
in carriera più importanti della costa occidentale. La sua
azienda forniva
energia a quasi tutti gli stati della
California ed era diventata particolarmente nota perché era
stata una delle
prime a sfruttare energia rinnovabile in grande quantità.
Aveva contratti
milionari in molti stati.
Era
una bellissima mattina di fine inverno nella
bellissima New York ed io ero felicemente sveglia nella mia stanza. Ero
in un
ricco appartamento pagato da mio padre per farmi partecipare ad un
corso di
studio per architetti, dato che il mio sogno era succedere a mio padre
come
architetto di carriera. Casa mia era una villa sulla costa
californiana, ma non
mi era mai piaciuto ostentare troppo la ricchezza su cui potevo contare.
Non
mi piacevano i vestiti ricchi, nemmeno fare
shopping, se per quello. La mia passione più grande era
soddisfare la mia
curiosità visitando musei, monumenti e altre grandi opere
del presente e del
passato. Quando potevo mi infilavo in biblioteca o in una libreria,
infatti
camera mia a casa, era strapiena di libri, mentre il mio armadio
tendeva ad
essere sempre un po’ carente.
Quella mattina avrei dovuto prendere l’aereo
privato che mio padre aveva noleggiato a posta per farmi tornare a casa
in
tutta comodità. Il mio appartamento aveva solo una camera da
letto, una piccola
cucina e una toilette personale. Comodo, ma non particolarmente ricco.
Inoltre,
al contrario di altri, mi occupavo io di tutto, compresa la pulizia.
Non mi
dispiaceva la solitudine.
Quando
la sveglia suonò mi rigirai subito nel letto,
spegnendola: erano ancora le 8.30 e io avevo ancora mezz’ora
prima che
l’autista di mio padre venisse a prendermi. Non mi piaceva
molto, avere un
autista, ma ogni tanto i miei insistevano non mi opponevo,
d’altra parte non
era male.
Mi
alzai, indossai un paio di jeans e una camicetta e
feci una veloce colazione a base di caffelatte e dei biscotti, mentre
guardavo
le ultime notizie alla televisione.
Mentre aspettavo che arrivasse l’ora di partire mi misi a
leggere, spegnendo
l’apparecchio. Quasi non mi accorsi di quanto tempo fosse
passato, ma la mia
attenzione fu attirata dall’orologio verso le 8.50, facendomi
intuire che era
il momento di partire. Una fortuna che avessi preparato i miei bagagli
la sera
prima. In realtà avevo solo uno zaino in cui avevo messo un
paio di libri, il
mio cellulare e il mio portafoglio. In una valigia, invece, avevo messo
tutti i
miei ricambi. Indossai una giacca e uscii.
Scesi
con l’ascensore fino al parcheggio sotterraneo,
dove notai subito la limousine che mi attendeva. Mi avvicinai con
calma,
incurante di tutto, finché non mi avvicinai alla portiera
posteriore.
Qualcuno
mi afferrò alle spalle, bloccandomi un polso
dietro la schiena. Provai ad urlare, ma l’altra mano
soffocò le mie grida,
tappandomi la bocca. Altre due mani, mi afferrarono e i due uomini mi
gettarono
dentro la macchina con forza.
“Dai,
metti in moto!” Urlò uno dei due che si
posizionò
accanto a me.
Cercai
di guardare in faccia il mio aggressore, ma il
volto era coperto da un passamontagna e l’unica cosa che
riuscivo a distinguere
erano i suoi capelli neri, che un po’ uscivano dalla
copertura e gli occhi neri
ricolmi di rabbia.
“C-chi
siete? Cosa volete da me?”
Subito,
le mie domande furono interrotte da uno
schiaffo così forte che mi fece sbattere contro la portiera.
I capelli mi erano
finiti sugli occhi. Provai a toccarmi il viso. Faceva male e io avevo
iniziato
a tremare. La mia mente faticava ad elaborare la situazione, tanto ero
spaventata.
“Ora
dormirai un pochino, tesoro.” Sussurrò
l’uomo, avvicinandosi
di nuovo a me.
Aveva
in mano un panno che avvicinò alla mia faccia.
Intuendo quello che voleva fare, tentai di sottrarmi, ma lui era molto
più
forte di me e non potei impedirgli di premermi il panno sul naso e la
bocca.
Tentai di non respirare, ma lui premeva con forza, provocandomi un
terribile
fastidio, così dischiusi le labbra e una sensazione di
stanchezza e torpore mi
pervase.
Non
capii quanto tempo fosse passato da quando mi
avevano narcotizzata. Ero confusa e terrorizzata e avevo una sensazione
di
nausea che mi faceva venire il voltastomaco.
Le mie narici erano invase da un forte odore penetrante, probabilmente
benzina
e le tenebre che mi circondavano mi gettavano in una profonda
inquietudine.
Non
ero nemmeno certa di dove fossi e, quando tentai di
alzarmi, mi resi conto di non poter né camminare
né parlare.
Le
mani erano state legate dietro la schiena con delle
strette manette, mentre del nastro adesivo mi stringeva le caviglie.
Provai ad
urlare, ma dalla mia bocca bloccata uscì solo un mugolio
confuso. A giudicare
dal sapore di plastica che mi arrivava alla lingua, ero anche stata
imbavagliata con del nastro isolante.
Mi
colse la claustrofobica sensazione di essere in
trappola, come un topolino. Presto sarei stata sbranata, se non avessi
cercato
una via di fuga. Cercai di ignorare la paura che mi attanagliava il
cuore e mi
guardai intorno, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse aiutarmi a
fuggire.
Vidi
poco lontano, nell’oscurità, la sagoma di una
macchina, anche se non avevo idea di che marca fosse, accanto a lei
c’era un
tavolo da lavoro, con delle taniche e altri attrezzi, probabilmente
utili per
ripararla. L’unica via di fuga visibile era una pesante
serranda metallica.
Probabilmente, quindi, ero in un garage.
Cercai
in ogni modo di raggiungere il tavolo, ma era
impossibile, dato che le manette erano state fissate al muro, per
impedirmi la
fuga. Fui colta da un senso di impotenza e frustrazione,
così tentai di
liberarmi quasi alla cieca, contorcendomi inutilmente. Fu tutto
inutile: mi era
impossibile rompere le catene che mi ferivano i polsi.
Dopo
un tempo che mi parve infinito, la serranda si
alzò e fui colta dal panico. Mi rannicchiai come per
proteggermi. Intravidi
quello che doveva essere un ragazzo. Non aveva il volto coperto, ma
indossava
un cappuccio che mi impediva di coglierne i lineamenti. I suoi occhi
erano
azzurri e freddi come il metallo. Una cicatrice gli deturpava il volto
all’altezza
dello zigomo. Nella mano destra teneva il mio cellulare acceso,
nell’altra
aveva una pistola. Doveva avere sui ventun’anni, ma questo
non lo rendeva meno
minaccioso.
“Non
ti muovere, tesoro.” Mi intimò freddamente,
puntandomela contro.
Subito
sentii il sangue fluirmi al cervello impedendomi
di ragionare correttamente. Il petto mi si alzava e abbassava
frenetico. Lui si
avvicinò e mi strappò il nastro adesivo dalla
bocca e anche un gemito di
dolore. Dopodiché mi premette il cellulare contro
l’orecchio.
“Il
paparino è al telefono, parla.”
Per
un attimo la paura mi impedì di ragionare, ma
intuii ciò che volevano loro: soldi. Ovvio che li volessero,
mio padre era
ricco. Io ero solo uno strumento per raggiungere lo scopo di quei
criminali.
Non ero nient’altro che un oggetto, come un manichino: tutti
lo guardano perché
indossa un abito bellissimo, ma nessuno si accorge davvero della sua
presenza.
Il mio abito erano i soldi di mio padre.
“Qualsiasi
cosa ti chiedano non farla!” Urlai, cercando
di controllare il tremore nella mia voce.
Gli
occhi del ragazzo scintillarono di rabbia e
allontanò il cellulare, mettendoselo all’orecchio:
“Come ha potuto sentire, non
le stiamo mentendo, sua figlia è in mano nostra…
e se vuole rivederla viva
inizi a cercare i soldi. La richiameremo noi.”
Ecco,
avevo indovinato. Soldi, dannati pezzi di carta
senza valore. Mi imposi l’autocontrollo, mentre cercavo di
capire cosa stesse
dicendo mio padre, ma non sentii la sua risposta. Il mio rapitore
sembrò
soddisfatto e riattaccò la chiamata per, poi, voltarsi verso
di me. Il suo sguardo
glaciale mi puntava come un leone punta la gazzella, pronto a
sbranarlo.
Se
solo avessi potuto correre…
“Chi
sei tu!?” Urlai, sperando di ottenere qualche
informazione in più e, allo stesso tempo, cercare di non
farmi sopraffare dalla
paura.
Per
tutta risposta lui mi si avvicinò e mi sorrise:
“Sei
troppo curiosa, Annabeth Chase, il tuo solo compito, in questo momento
è stare
zitta e… forse… potrai tornare a casa.”
Quel
forse mi
fece sentire male, come se fossi sul punto di vomitare, ma mi imposi un
contegno.
“Siete
solo degli animali! Volete solo dei soldi!”
Urlai disperata. Non sopportavo di sentirmi in trappola.
“Oh…
allora è vero che sei intelligente.” Mi
schernì
lui senza nemmeno fingere di essere offeso. Dopodiché si
chinò e mi accarezzò
la guancia con la mano libera. “Lo sai che sei proprio
carina?”
“Non
mi toccare, animale!” Urlai, ritirandomi per
quello che le manette mi permettevano.
Iniziai
a dimenarmi come una puledra ribelle, cercando
in ogni modo di liberarmi, spinta solo dal desiderio di essere libera,
fuori da
quella gabbia di ghiaccio che l’inverno non avrebbe mai
sciolto. Ma la mano del
ragazzo si fece dura e uno schiaffo mi colpì di nuovo,
facendomi voltare di
lato, mentre la pelle offesa pungeva come il disinfettante su una
ferita.
I
miei capelli furono afferrati vicino alla radice,
costringendomi a guardarlo negli occhi. Era vicinissimo e io avevo
paura.
“Cerca
di fare la brava… non voglio rovinare il tuo bel
faccino.” Minacciò con un sorriso freddo, che mi
parve un ghigno.
“Luke!
Il capo vuole parlarti.”
A
parlare era stata una voce dall’altra parte della
serranda e il mio aguzzino mi lasciò andare, ma non prima di
avermi
imbavagliata di nuovo. Avrei dovuto immaginare che non fosse lui la
mente
dietro quel meschino rapimento: era troppo giovane. Però
potevo immaginare che
era comunque pericoloso. Sentivo che non aveva lanciato minacce a
vuoto, se
avessi tentato di scappare, lui me l’avrebbe fatta pagare, ma
io non potevo non
tentare. Non ero stupida: si erano nominati per nome più
volte e quel ragazzo,
Luke, si era fatto vedere il faccia. Questo significava una sola cosa:
appena
ottenuti i soldi che volevano, mi avrebbero uccisa.
La
notte arrivò prima di quanto pensassi.
L’oscurità si
fece ancora più opprimente e la poca luce naturale che
vedevo sparì del tutto.
Si accese una luce artificiale da una lampada posta sopra di me, il che
mi
accecò, dandomi l’impressione di avere un forno
sopra la testa.
Avevo
tentato ogni cosa per liberarmi, tutto si rivelò
inutile. Ero seduta per terra, sporca, prigioniera e stanca. I polsi mi
facevano male per le convulsioni che avevo tentato inutilmente. Dovevo
avere la
pelle arrossata e sanguinante e le escoriazioni bruciavano al minimo
movimento.
Faticavo a respirare a causa del nastro adesivo.
La
serranda si rialzò e quel tipo, Luke, si fece di
nuovo vedere.
“Passeremo
la notte insieme, dolcezza…”
Non
osai nemmeno guardarlo in faccia. Mi dava un forte
senso di nausea e disprezzo. Era come un serpente, un essere
strisciante e
disgustoso, pronto a colpire le prede a tradimento con il suo veleno,
ma pronto
a fare il lavoro sporco per altri. Solo vederlo mi faceva venire il
vomito.
“Pensa
a quanto sei fortunata, ti farò compagnia.”
Disse, sedendosi accanto a me.
Io
digrignai i denti per la rabbia e desiderai
ardentemente aggredirlo e cavargli gli occhi dalle orbite. Quei dannati
occhi
di ghiaccio che odiavo.
Mi
tolse il nastro adesivo dalla bocca e provò ad imboccarmi
per farmi mangiar un creker, ma la sua sola presenza mi aveva tolto
l’appetito.
Ero convinta che qualsiasi cosa stessi per mangiare sarebbe stata
espulsa
subito dopo. Ci riprovò un paio di volte, ma alla fine
sembrò arrendersi e mi
lasciò in pace.
“Presto
arriverà la polizia.” Ringhia, cercando di
darmi un po’ di contegno. “Vi arresteranno tutti e
voi passerete il resto della
vostra vita in galera.”
Lui
rise di gusto, accarezzandomi una guancia con la
sua viscida mano, provocandomi un brivido di disgusto.
“Dovresti
vederti… sembra quasi che tu ci creda.” Sentenziò
divertito.
“Stronzo!”
Gli sputai in faccia. Non ero mai stata particolarmente
scurrile, ma anche io avevo la mia buona scorta di insulti e parolacce
da
usare. Non ero una signorina come certe mie compagne che si
scandalizzavano
subito.
Me
ne pentii subito.
La
sua mano si strinse sulle mie guance in una morsa d’acciaio,
stringendo così forte che i miei denti mi provocarono delle
dolorose ferite all’interno
nella bocca. Il suo sguardo glaciale si posò su di me,
furioso e divertito al
tempo stesso.
Mi
fu addosso, bloccandoli con tutto il suo peso.
“Bene,
mocciosetta… dato che ti farò compagnia, per
sta’
notte, che ne dici di divertirci un po’?”
Io
mi sentii soffocare dal senso di impotenza e paura,
mentre iniziava a baciarmi avidamente il collo, infilando una mano
sotto la mia
camicetta. Provai a liberarmi e scappare in ogni modo possibile per
sottrarmi a
quella violenza. Provai ad urlare, ma le sue mani mi serravano la
mascella,
lasciando uscire solo qualche gorgoglio strozzato.
“Fa
silenzio… sono certo che ti piacerà.”
Lui
mi schiacciò con forza per terra, strappandomi
famelico, la camicetta lasciando scoperto il reggiseno nero. Lanciai un
grido
che lui non riuscì a fermare, ma era tutto inutile. Provai a
divincolarmi
ancora, ma lui continuava a tenermi a terra, baciando ogni lembo della
mia
pelle immacolata.
Desiderai
morire, mentre la sua saliva viscida mi
sporcava.
Scese
sulle mie caviglie in modo da potermi possedere
con facilità, ma appena potei muovere liberamente le gambe,
iniziai a
scalciare, cercando di allontanarlo da me. Schiacciata a terra,
però, potevo
fare poco o nulla per salvarmi. Lui continuava a toccarmi, provocandomi
un
forte dolore sia fisico che mentale.
Non
volevo che finisse così.
Mi
agitai sempre di più ignorando il dolore ai polsi
che sicuramente stavano sanguinando come se me li avessero tagliati.
Luke
iniziò a muovere le mani verso i miei pantaloni e io
sobbalzai, quando iniziò a
rimuovere i bottoni dall’asola, facendo scendere un
po’ l’indumento.
“Lasciami!!!”
Urlai con tutte le mie forze, colpendolo
al volto con una ginocchiata, anche se forse mi feci più
male io, data l’impossibile
posizione in cui mi trovavo.
“Mi
hai scocciato, sta zitta!” Sbottò lui,
afferrandomi
per i capelli e facendomi sbattere violentemente la testa sul duro
pavimento.
Tutto
iniziò a scivolare via, come se un fiume mi
stesse strappando i ricordi. Le palpebre si fecero pesanti e il dolore
sparì,
come la pressione del corpo di Luke sul mio. Adesso sembrava
terrorizzato,
mentre la serranda si riapriva. Luke mi stava scuotendo cercando di
farmi
rinvenire, ma io mi sentii scivolare via, mentre percepivo nitidamente
il mio
sangue scorrere fuori dalla ferita, come la mia anima dal corpo.
Le
voci, i suoni e i colori si fecero confusi. Riuscii
solo a sentire delle proteste: i compagni di Luke lo stavano accusando
di
qualcosa, ma io non lo vidi, mentre l’oscurità
più totale mi avvolgeva.
Freddo…
buio… vuoto…
Non
sentivo altro, non ricordavo nemmeno più chi ero.
Avevo freddo.
Sentii dei passi.
Provai a parlare per attirare l’attenzione, ma mi
uscì solo un gemito.
Eppure
qualcuno avevo attirato, perché dai miei occhi
socchiusi vidi due sagome indistinte avvicinarsi.
“…Non
puoi… chiama il 911 e lasciala qui.. oppure
portala in ospedale tu stesso.”
“Sei
matto!? Quell’idiota del commissario Grace non
vede l’ora di sbattermi dentro. Mi accuserà di
averle messo le mani addosso!”
“Ma
non possiamo nemmeno lasciarla qui!”
“Chiama
Rachel, se non sbaglio lei sta per prendere una
laurea in medicina, anche se sembra grave è alla sua
portata.”
“Ti
caccerai nei guai, lo sai anche tu!”
“Finiscila
e chiamala!”
Le
voci dei due ragazzi mi rimbombavano in testa come
un fastidioso martellare, ma poi sentii una piacevole sensazione di
protezione,
mentre due braccia forti mi sollevavano delicatamente, cercando di non
farmi
male.
“Mi
senti?” Provò il ragazzo, mentre lo sentivo
camminare, portandosi dietro il mio peso. Avrei voluto rispondere di
sì, ma ero
a malapena cosciente. Riuscivo solo a vedere pochi tratti del viso, ma
prima di
sprofondare nuovamente nell’oblio riuscii ad intravedere due
bellissimi occhi
verdi come il mare che mi osservavano preoccupati.
Erano
belli, luminosi e tristi, tanto che pensai che,
forse, non sarebbe stato male, affogarvi dentro.
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Hola,
popolo di EFP e amanti di Percy Jackson, sono di nuovo io, AxXx con una
storia
diversa che si slega completamente da quella principale a cui sto
lavorando con
la mia collega/amica/ compagna/sorella di scleri Water_Wolf.
Sì, questa è una
storia diversa che, probabilmente, andrà a rilento, visto
che dobbiamo continuare
la serie originaria. Tuttavia mi sono voluto imbarcare nella mia
mini-long (una
decina di capitoli, credo) Percabeth, personale.
Spero di
non aver esagerato con questo primo capitolo, perché non ero
per nulla sicuro
di come iniziare. Teoricamente questo capitolo, non doveva nemmeno
esserci,
poi, però, ho pensato che un minimo di spiegazione ci doveva
essere.
Così
ho
deciso di iniziare da qui, spero di non aver esagerato e di essere
rimasto
fedele al rating.
AxXx
PS: Se
volete avere un assaggio di mio, in un'altra storia di Percy Jackson,
ecco a
voi la storia che sto scrivendo con quella pazza (Scherzo :P ) di
Water_Wolf: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2290649&i=1
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