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Aleggiava
un odore
dolciastro,
nell'aria. Il solito.
Nessuno lo definiva mai in quel
modo, perché nel Campo i nomi venivano perduti insieme a
tutto
il resto e ogni cosa prendeva a chiamarsi in modo diverso, ma lei non
avrebbe saputo in che altro modo descriverlo. Il lezzo di carne che
bruciava diventava insopportabile vicino ai Forni, ma non
c'era un solo
centimetro - nemmeno agli angoli estremi delle Recinzioni - dove si
riuscisse a respirare normalmente. Era diventato parte dell'aria
stessa, quell'effluvio di morte, sospeso nella cenere.
Il fumo aveva ripreso ad uscire da qualche ora, ormai, ma non la
stavano portando nelle
Camere. Lo aveva capito dopo che il terrore viscerale che le aveva
consumato le vene si era intirizzito di nuovo nello stomaco,
ritirandosi
dal cervello un po' per volta, mentre due soldati la costringevano ad
avanzare nella poltiglia di ghiaccio sciolto. Se ne prendevano tre o
quattro alla volta, avevi qualche speranza. Se volevano uccidere, ti
sparavano un colpo in testa all'istante, oppure ti prelevavano insieme
ad
altre cento persone; non appena il primo di loro aveva
messo piede nel dormitorio, però, lei si era resa conto che
qualcosa, negli schemi, era cambiato. Camice lindo, immacolato, una
mascherina di
stoffa sulla bocca. Non era una guardia, l'uomo che era
venuto a
prenderla, scegliendola personalmente insieme ad altre cinque ragazze
di cui nemmeno conosceva il nome. Aveva semplicemente fatto
correre lo sguardo sulla
carne del loro corpo scheletrico, poi aveva controllato i numeri che le
catalogavano e aveva annuito. Non una parola, nient'altro. Pochi
secondi
dopo erano fuori.
In quel momento si stavano dirigendo ai blocchi speciali, quelli che
tutti facevano finta non esistessero. Si vociferava che ci vivessero i Dottori,
lì dentro, ma pochi sapevano che cosa significasse.
Arrivati ad uno dei tanti edifici di mattoni, i soldati bussarono alla
porta una volta sola, scambiando
qualche parola con chi si trovava dall'altra parte.
Le costrinsero
ad entrare, e una delle ragazze si artigliò a un lembo della
sua
gonna sgualcita con le mani scorticate dal gelo. In alcuni punti
mancavano strati su strati di pelle.
Avrebbe voluto dirle di non avere paura, ma sapeva che nessuno ci
riusciva più dal primo giorno in cui avevano scorto i
cancelli
del Campo, tanto che la spaventava riuscire a sentire qualcos'altro, in
quel momento. La spaventava che oltre il panico e l'orrore, nel suo
cervello, si fosse acceso un barlume di curiosità.
- Silenzio!
Le altre ragazze smisero di piagnucolare all'istante. Quando l'ordine
arrivava, le lacrime non erano più un diritto.
Sbigottita dalla
sensazione dell'aria tiepida sulla pelle, ci mise un po' per capire
dove si trovasse. L'interno del blocco era lindo, quasi asettico,
con lunghi banconi pieni di fogli, strumenti e persone chine su di
essi. Dottori e
Dottoresse. C'erano davvero dei medici.
Respirando a fatica, con la paura che se si fosse guardata intorno
l'avrebbero punita, tentò di avanzare qualunque spiegazione
si
celasse dietro quella convocazione, ma l'ambiente la confondeva. Si era
appena accorta della fila di porte sulle pareti, quando le divisero,
parlando concisamente tra di loro. Le gemelle furono tenute nell'atrio
dell'edificio, mentre ad ognuna delle rimanenti veniva assegnata una
porta da
oltrepassare. Alcuni dei Dottori non si accorsero nemmeno del
loro arrivo, quasi fossero invisibili. Avrebbe voluto strappargli gli
occhi e puntarli su di sé.
Le guardie si sistemarono in coppia
per controllarle. Due a testa, ebbe la forza di contare. Più
la
pistola puntata al centro della schiena che premeva contro una
delle sue vertebre sporgenti come scogli aguzzi.
Scambiandosi un'ultima occhiata con la ragazza dai capelli rasati e
il labbro spaccato, si accorse di aver perso sensibilità
alla
parte destra del volto. Tentò di muovere le labbra per dirle
qualcosa, ma metà della sua faccia era ridotta a un
formicolio
insopportabile. La spinsero dentro prima ancora che avesse il tempo di
terrorizzarsi all'idea di cosa avrebbe potuto trovare oltre quella
parete.
Un corridoio.
Lungo, in
discesa, immacolato; di un bianco che feriva
gli occhi e dilatava
lo spazio fino a inghiottirla. Si sentiva sospesa in un nulla di follia
infinita come il bianco, quel bianco dappertutto. La
costrinsero a percorrerlo, svoltando di tanto in tanto come in un
labirinto incolore, ma fu certa che si stessero muovendo
solo quando scorse una donna alla fine del percorso. Al suo
fianco si stagliava un'altra porta, l'ennesima. Questa però
era
diversa: sembrava dovesse tenere a bada una bestia feroce.
La
donna con il
camice le fece cenno di avvicinarsi. C'era qualcosa di strano, in lei,
e nel
modo in cui le sue dita pallide artigliavano lo schedario, tendendosi
fino a stirarsi sulle giunture.
Con un ordine secco le guardie le comandarono di fermarsi, in attesa
che la donna finisse di leggere i documenti che stringeva
preziosamente.
- Che cosa mi volete fare?
Perché non mi
uccidete e
basta, perché non mi date fuoco e mi lasciate andare via una
volta per tutte? Perché non mi lasciate vedervi marcire
dall'alto? Perché era sicura che sarebbero
marciti. Se c'era ancora qualcosa di sensato, in quel Mondo,
sarebbe successo. Prima o poi quel cancro avrebbe cominciato a
consumarsi da solo.
La donna continuò a tenere lo sguardo fisso, lontano dal
suo,
come se non l'avesse sentita. Una delle guardie la spinse tanto forte
contro la porta da succhiarle via il respiro. Il candore delle pareti
si tinse di rosso. Le ossa sporgenti delle ginocchia cozzarono l'una
contro l'altra nello sforzo di tenerla in piedi.
- Per favore. Voglio
solo sapere.
Lo sussurrò senza nemmeno pensarci. Per favore. In
realtà
erano in pochi a pronunciare quelle parole, e lei aveva giurato a se
stessa di non
farlo mai, ma la morte, comprese infine, era la promessa più
antica del mondo, e trasformava in polvere tutte le altre.
Dietro gli occhiali a mezzaluna, degli occhi verdi si convinsero ad
incontrare i suoi. Erano passati sei mesi dall'ultima volta in cui
aveva scorto il
colore dell'erba di primavera.
- Per favore, - ripeté, mentre le lacrime e il muco le
bagnavano le labbra.
- Identify yourself.
Un singhiozzo sordo lottò per uscirle dalla gola,
mentre i soldati la tenevano stretta. La
donna non era della loro stessa nazionalità.
- Identify yourself.
Era americana.
Come gli Alleati che avrebbero dovuto seppellire il Campo e radere al
suolo quell'abominio. Come chi, si sussurrava nei sogni infranti,
sarebbe sicuramente venuto a salvarli, se avesse saputo quale orrore
prendeva vita in quel posto. Come chi, evidentemente, sapeva, e non
salvava nessuno.
- Figli di puttana, - disse ad alta voce.
La donna fermò il pugno della guardia prima che potesse
spaccarle la testa, poi scandì lentamente le sue parole,
stavolta in una lingua che potesse comprendere nonostante l'accento
insolito.
- Identificati.
Strinse i pugni, digrignando i denti per non piangere. Tenne la schiena
dritta, mentre qualcuno le sfrecciava di fianco per aprire la porta.
Aveva lo sguardo troppo annebbiato per vedere qualunque cosa, ma il
suono delle sicurezze che venivano sbloccate era distinto.
- Vittoria. Il mio nome è Vittoria.
Una smorfia storta attraversò il volto della donna, come se
avesse avuto labbra pesanti, di piombo.
- Il tuo numero.
Un suono lungo e grave echeggiò per il corridoio.
- Non sono un numero.
Fu l'ultima volta, quella, in cui si guardarono, prima che la donna
desse l'assenso. Bastò quello, un movimento del capo, e la
ragazza venne prelevata di peso, spinta nella Stanza e
chiusa dentro ermeticamente. Dai
muri cominciarono a vibrare le grida delle altre donne, spaccandole la
testa a
metà, come decine di pallottole tutte insieme. Le porte si
sigillarono di
nuovo e lei seppe che era finita.
Dietro una parete riflettente, nel frattempo, una fila di uomini in
camice bianco
osservava lo spettacolo. Qualcuno era eccitato, ma la maggior parte
aveva perso fiducia e sbadigliava con apatia.
- Cominciate.
Quando il Processo ebbe inizio, colse tutti di sorpresa. Erano abituati
alle urla e alle suppliche disperate, e con il tempo il divertimento e
l'euforia si
erano trasformati in noia
e mal di testa, ma quello spettacolo era insolito.
La ragazza gridava, e fino a quel punto non c'era niente di nuovo. La
classica perdita di tempo rumorosa, aveva imprecato uno dei Dottori.
Ma poi aveva cominciato farlo così forte da coprire il
suono delle macchine in funzione, e loro erano riusciti a cogliere
qualcosa di sensato nel delirio.
Gridava il suo nome.
Un uomo dai capelli corti e il sorriso bianco ammiccò alla
donna
dagli occhiali a mezzaluna che li aveva raggiunti nell'Osservatorio e
che continuava a scrivere ininterrottamente
sul suo taccuino.
- Questa è quella buona, - sussurrò a bassa voce,
in modo
che solo lei potesse sentirlo. Sembrava che non avesse mai visto niente
di più divertente.
- C'è solo il 2,4% delle possibilità che
funzioni, - rispose lei, senza tradire alcuna emozione.
- Da quanto tempo è arrivata?
- Sei mesi. Troppo poco. 2% delle possibilità.
L'uomo poggiò la fronte sulla parete riflettente,
invitandola a guardare l'interno della Stanza.
- Guarda come combatte per sopravvivere. Non ho mai visto niente del
genere, - sorrise.
- E' quella buona.
Angolo autrice:
c'è un momento, nella vita di una fanwriter, in cui
l'embrione
di una storia propria e originale comincia a prendere forma e non si
può far altro che provare a farlo crescere. E' un'impresa
folle, ma la
voglia di mettersi in gioco c'è tutta. Le tematiche non sono
semplici, come avrete capito dall'ambientazione del prologo, ma penso
di essere abbastanza matura da poter esprimere il
mio pensiero riguardo a certi aspetti dell'esistenza umana. Scrivere
una storia fantascientifica/young adult/distopica non è
semplice, ma perché non provarci? Spero che qualcuno
vorrà vivere quest'avventura con me, aiutarmi, consigliarmi
e
criticarmi quando serve. Spero che pubblicare il prologo mi
darà
l'imput per impegnarmi sul resto. Grazie a chiunque passerà
e a
tutti quelli che mi hanno tra gli autori preferiti. It means the World to me!
PS. Essendo una storia originale, il 98% dei personaggi mi appartiene
totalmente; la storia è protetta da copyright.
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