boh
Il
24 marzo 1603, a Richmond Palace si spense la buona Elisabetta I. Con
lei, appassì il fiore di cultura che era sbocciato nel suo
regno
e aveva visto geni come Shakespeare e Bacone nei panni dei suoi
protagonisti.
Ho voluto rendere omaggio a questa meravigliosa era con un piccolo
scritto, per altro vecchio di secoli e che già una volta
è apparso su questo sito. Spero vogliate perdonarmi la
ridondanza.
Ultima cosa: lo so, lo so che Inghilterra andrebbe nonimato senza
l'articolo davanti, ma ... chiamiamola licenza poetica. Solitamente non
lo faccio, stavolta mi sono presa questa piccola libertà. E'
che mi suonava meglio.
Buona lettura :)
Amava la Luna
https://www.youtube.com/watch?v=6zfu_G5eczo
Compagne nel trono e nella tomba, qui noi due sorelle,
Elisabetta e Maria, riposiamo, nella speranza di un'unica resurrezione.
La buona regina Bess alza lievemente il capo dal cuscino di velluto su
cui riposa, scrutando con occhi attenti la folla che
nell’oscurità aspetta con il fiato sospeso la fine
del
Regno. Crede di conoscerli, i contadini e le massaie che non osano
nemmeno respirare tanta è l’ansia
dell’attesa. Volti
duri, marcati dal lavoro e dalla fatica, ma anche dalle gioie, dai
piccoli piaceri che la quotidianità regala a chi li sa
cogliere,
dalla speranza e dal coraggio di andare avanti nonostante le
difficoltà.
Elisabetta lo desidera tutto per sé, quel coraggio; lo
vuole, lo
pretende, ne ha bisogno per vivere. Per vivere dove? Quella domanda
logora la sua anima da settimane. Parole vane, rassicuranti, forse, ma
comunque pochi fatti, monologhi per parlare al vento, nemici e amici
che sembrano diventare tutt’uno dietro la maschera
dell’ipocrisia.
Sorride, la Regina Vergine, tornando a guardare verso il bordo del suo
bel letto a baldacchino, dove dame e cavalieri le danzano intorno,
scalzi, intonando la silenziosa melodia di un assurdo girotondo. I
volti scuri coperti da maschere, da cuffie di pizzo e colletti di
velluto, da sciabole e cappelli. Ogni ballerino intorno a lei sembra
sorriderle, socchiudendo gli occhi con il ghigno perverso che il cerone
dipinge sulle labbra degli attori. Cantano, ridono in silenzio, i loro
passi leggeri sembrano sfiorare appena le assi del pavimento. Il ritmo
della nenia che le maschere seguono è lento, musicale,
accompagnato con eleganza dai sospiri del popolo al di là
delle
vetrate.
Elisabetta segue con sguardo attento quell’assurdo teatro,
senza
lasciarsi sfuggire un solo passo, battendo con grazia le mani ad ogni
giravolta che i ballerini fanno fare alle loro compagne.
Uno di loro ama la Luna; la continua a spiare con discrezione dalle
finestre della stanza, pur seguendo la danza dei suoi compagni. Sembra
avere più riguardi per quello spicchio di cielo bianco che
per
la sua dama, giovane e agghindata nei pizzi e nei merletti scuri della
più sontuosa nobiltà.
La regina li invidia. Sdraiata tra quelle coperte non riesce a
sporgersi abbastanza per vedere il cielo scuro e tenebroso della
primavera di Londra.
La porta si apre all’improvviso, spezzando
l’armonia del
girotondo delle maschere, che spariscono all’istante
così
come sono apparse.
«Elisabetta, mi avete fatto chiamare?»
L’Inghilterra ha gli occhi gonfi di lacrime e i capelli
spettinati di chi ha passato ore a disperarsi rannicchiato
nell’angolo di una stanza. Odora di sale e polvere, ma il suo
orgoglio da Lord le garantisce comunque un aspetto più che
dignitoso. Perché lei è forte, perché
Elisabetta
l’ha sempre voluta così.
Si avvicina preoccupata al letto, inginocchiandosi non appena
è
abbastanza vicina per prendere la mano della sovrana e sfiorarla con le
labbra.
Elisabetta le scocca un’occhiata stanca. Se la sua nazione
non ha
il coraggio di guardarla negli occhi, lei non ha quello di rispondere
alle sue domande.
«Chiamatemi un prete: ho intenzione di morire.»
«Non è ancora la vostra ora, signora. Vi
rimetterete.»
Mente, quel ragazzo che finge di essere uomo, quel Paese che gioca a
essere mondo, e la buona regina non stenta a capirlo. Dietro quel tono
placido e rilassato si cela l’agonia e l’angoscia,
ma
l’Inghilterra è troppo ingenuamente boriosa per
lasciar
trapelare emozioni simili. È troppo inglese
perché certi
sentimenti si manifestino sul suo volto.
La vecchia Elisabetta annuisce piano, distratta dal vessante pensiero
della danza delle maschere. A pensarci bene, l’Inghilterra
è un po’ come quella che amava la Luna
più della
sua dama.
Guarda la sua patria respirando appena, studiandone ogni particolare
come una madre osserva il figlio, soddisfatta di come l’ha
curata. I bei lineamenti del volto, lo sguardo grave e il portamento
fiero, la decisione con cui nasconde i suoi sentimenti; Elisabetta
è fiera del suo regno.
E appunto perché è fiera della sua bella
Inghilterra,
decide di chiudere gli occhi e addormentarsi. Sogna, la buona regina
Bess, sogna di tempi migliori, di coraggio, di risate e dei raggi
solari che le carezzano delicatamente il viso. Ode anche un pianto
lontano, il singhiozzare sommesso di chi è troppo
forte
per permettere che le lacrime gli solchino il viso, ma nonostante tutto
non apre gli occhi.
Elisabetta muore così, adagiando il capo sul cuscino di
velluto da cui la danza delle maschere l’aveva destata.
E l’Inghilterra?
L’Inghilterra si alza dal letto di morte della sua regina,
muove
qualche debole passo verso il balcone che da sulla folla, appoggia la
mano sul vetro gelido e alza lo sguardo al cielo buio di Londra. Non
una stella, non una luce.
Soltanto la falce argentata che sente di amare.
Osservandone la maestosità, all’improvviso, tutto
le pare chiaro.
«Già», mormora, con un sorriso sereno
che a poco a
poco le illumina il viso stanco provato dal dolore. «Lei
amava la
Luna.»
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