Note dell’autrice:
Aw. Devo ammettere che non sono mai stata così felice di
vincere un concorso, e ringrazio vivamente l’organizzatrice, mikichan17.
D’altronde, mi fiondo a pesce su qualsiasi cosa puzzi di
threesome XD!
Ah, so perfettamente che l’impiccagione è una pena di morte
puramente occidentale, ma ho voluto giocare sull’ambiguità del mondo creato da
Kishimoto che fonde un po’ tutti gli elementi. Inoltre, ritengo che come morte
sia la più umiliante in assoluto e, quindi, adatta al tono della fanfiction.
Dedica: a Kei_saiyu. Che non sopporta le threesome,
che adora il sasunaru e che mi dà della traditrice.
Ti voglio tanto bene anche io, kei-chan XD!
Credits:
Personaggi © Masashi Kishimoto
Citazione © Hobbes
“Homo hominis lupus.”
[Hobbes]
Sakura si trovava circondata da una grande folla.
Stordita dal lezzo dei corpi sudati e dalle chiacchiere
incessanti; camminava con la schiena dritta e lo sguardo serio; concentrato su
un punto sopra le teste degli avventori.
C’era un forte odore di stantio, quasi i curiosi accorsi ad
assistere all’esecuzione, fossero, in realtà soltanto un insieme di cadaveri.
Zombie cui un ipotetico Creatore – o il suo Avversario.
Molto più probabile. – aveva permesso di camminare sulla terra solo per quel
giorno. Solo per assistere, beffardi, alla fine di tutto.
Sakura era consapevole di essere giunta al capolinea.
Silenziosa, si era conquistata un posto in prima fila per assistere alla
carneficina attesa dall’intero villaggio.
Proprio sotto al patibolo di legno di ciliegio – avrebbe
odiato, in un futuro molto prossimo, quell’albero di cui portava il nome. Lo
avrebbe odiato, ma non ora. – che, presto, sarebbe stato macchiato di rosso.
Un posto invidiabile, per chiunque avesse avuto sete di
sangue. Sembrava di essere tornati ai tempi antichi, quando un’esecuzione sulla
pubblica piazza diventava pretesto per far festa e serviva a sedare gli istinti
bestiali di una folla impazzita.
Gli uomini non cambiano davvero mai. Passano i secoli, le
epoche, le ere, ma rimangono gli stessi: animali privi di qualsivoglia
raziocinio che fingono di essere intelligenti e civili.
Si guardò attorno. La folla era pressante; la schiacciava
contro il parapetto di legno costruito per tenere il patibolo separato dagli
abitanti di Konoha. Quasi quel palco fosse un teatro ove i condannati non erano
altro che bravissimi attori.
Un piccolo mondo separato da tutto e tutti e, questo,
effettivamente era.
Il pubblico scalpitava. Le corde appese al traliccio,
oscillavano a causa di una lieve brezza primaverile, così in contrasto con
l’atmosfera macabra della manifestazione.
Eppure il sole era alto; l’aria era fresca e i ciliegi
fiorivano. Era una bella giornata, nonostante tutto. Probabilmente, molte
famiglie sarebbero andate a fare un pic-nic dopo lo spettacolo.
Un pianto le giunse alle orecchie. Qualcuno aveva avuto il
cattivo gusto di portare lì un bambino piccolo.
«Male. – pensò Sakura. – Non dovrebbe ancora imparare
l’odore del sangue. Non ancora. Ne avrà tempo in futuro.»
Sospira e quel lieve respiro si perde tra le urla gioiose
della folla. Lo spettacolo inizia.
Il sipario si apra; entrino gli attori.
Prima le comparse.
Il boia si fa avanti. Non saluta nessuno, forte
dell’anonimato del suo cappuccio nero che gli copre il volto.
Uno sguardo attento potrebbe notare il nervosismo negli
occhi bicolore che si scorgono dai fori.
Ma, in fondo, non interessa a nessuno. Eccetto lei.
Fissa il boia, e lo sguardo che si scambiano è triste e
malinconico.
Hanno entrambi fallito; il peso della colpa grava sulle loro
spalle ma, d’altronde, hanno fatto il possibile. O così credono.
Sakura non rimprovera Kakashi-sensei.
Non lo rimprovera di essere troppo simile ad un riccio,
invece che ad un uomo. Non lo rimprovera neanche di aver pensato che la
sofferenza fosse una sua esclusiva. Insomma, non lo rimprovera di essere il
piccolo uomo che è, troppo impegnato a fingersi un gigante per guardare
altrove.
Lo rimprovera solo di aver creduto che Sasuke e Naruto – i
due genietti del gruppo; coloro che avevano il potere di fare tutto. Ma proprio
tutto. Quelli su cui aveva sempre scommesso. – sarebbero maturati senza aiuto,
un giorno.
«Le teste calde non crescono, Kakashi-sensei. – avrebbe
voluto dirgli. – Bruciano e si consumano nella cenere. E basta.»
Già. Questo avrebbe voluto – e dovuto – dirgli. Ma adesso è
troppo tardi. Sasuke e Naruto sono bruciati e, di loro, non rimane che cenere.
L’unica cosa che Kakashi può fare per loro, è aiutarli ad ardere completamente.
La seconda comparsa sul palcoscenico è l’Hokage.
Tsunade cammina a testa alta; spalle in dentro e petto in
fuori.
È bella e forte, proprio come si addice alla Godaime.
Eppure, gli occhi chiari sono vuoti, mentre annuncia l’ingresso dei
protagonisti.
È una misera parte il ruolo di presentatrice, ma è pesante
da sopportare quando è lui a ricoprire il ruolo principale.
«Fratello, figlio, nipote… quanti ruoli ha ricoperto per te,
Tsunade? Quante volte il suo sorriso ha ricacciato indietro le tue lacrime?»
Avrebbe voluto chiedergli Sakura, ma anche stavolta tace e
osserva la propria insegnante con la domanda e la rabbia negli occhi.
«Tanti ruoli e tante volte quanto a te, Sakura.»
La risposta arriva. Forse da Tsunade stessa, che ha
incrociato il suo sguardo, forse da dentro di sé.
Arriva e, quando lo fa, Sakura china il capo e, mentalmente,
tace.
La folla urla ingiurie e insulti.
I protagonisti della giornata salgono sul palco.
Magri; sciupati… due uomini distrutti, almeno fisicamente.
Sakura non ha il coraggio di guardarli.
Non vuole sapere dove è finito il bel corpo di Sasuke – ora
assurdamente magro, tanto che le costole si intravedono da sotto la pelle
chiara. –, né il sorriso gioviale di Naruto – la bocca è contratta in una
smorfia; è livido, probabilmente è stato picchiato.
Non lo vuole sapere e, perciò, non guarda.
Il boia li fa mettere ai lati opposti del patibolo. C’è un
cappio a testa e, impietosamente, vi fa passare dentro i capi dei ragazzi.
La folla gioisce. Sakura deglutisce, solo per accorgersi di
aver finito la saliva.
Lo spettacolo ha inizio.
Tsunade legge la sentenza.
«Il qui presente Sasuke Uchiha, mukenin di livello S,
alleato del ninja traditore Orochimaru, è accusato di aver cospirato contro
Konoha assieme al suo maestro, di aver partecipato ad un complotto per l’omicidio
delle più alte cariche del villaggio, servendosi del potere di Kyuubi no Youko…»
L’elenco continua.
Sakura non è stupita che abbiano cominciato da Sasuke. Lo
odiano in molti e da diversi anni; la sua condanna accende gli animi della
folla, alimentando l’attenzione.
Trova il coraggio di fissarlo di sottecchi.
Il volto è parecchio scavato; i capelli sono più lunghi di
quanto Sakura avesse mai ricordato, ma non riesce a considerarlo né brutto, né
trasandato.
È sciupato, eppure i suoi occhi non sembrano aver perso la
luce dell’antico orgoglio. Fissa tutti dall’alto al basso, deridendo con
quell’ultimo moto di superbia chi lo insulta e lo condanna.
Quasi sorriderebbe, se mai fosse stato capace di farlo.
«Naruto Uzumaki, mukenin di livello S, è accusato di aver seguito
e sostenuto Sasuke Uchiha nel suo tentato omicidio, basato su accuse rivelatesi
infondate…»
Ironicamente, pensa Sakura, Naruto si trova ad essere
secondo anche nella morte.
Sposta lo sguardo sull’amico. I capelli biondi sono sporchi
e disordinati; la faccia è pesta e livida. Simile a quella della bestia che
vogliono far credere.
C’è, effettivamente, un che di animalesco; ma non per i
lineamenti alterati del volto.
Sono gli occhi, ad essere diversi. Azzurri e limpidi come
sempre, ma beffardi; strafottenti e – anche e soprattutto – terribilmente
delusi.
Quello era il bambino che voleva diventare Hokage per
proteggere il proprio villaggio. Quello era il ragazzo che si era allenato per
anni, in modo da essere abbastanza forte per riportare Sasuke a Konoha, perché:
«Chi non riesce a salvare nemmeno uno dei suoi compagni non può di certo
diventare Hokage.».
Quello era un uomo che, accortosi di come la sete di
vendetta della persona amata fosse inestinguibile, aveva deciso di lasciarsi
scivolare in essa e di aiutarlo.
Perché forse non sarebbe mai diventato Hokage, ma a Sasuke –
a quello no. – non vi avrebbe mai rinunciato.
Sakura lo aveva compreso prima di chiunque altro: Naruto
sarebbe vissuto per Sasuke e Sasuke per la sua vendetta che adesso, per qualche
inesplicabile motivo, si era rivolta verso Danzo e i due vecchi daimyo.
Lei, come chiunque altro, era superflua.
Non era mai stata sufficiente per Sasuke e non era mai
riuscita a diventare abbastanza per Naruto.
Sakura tentenna, prima di alzare lo sguardo: ha paura di
incrociare il rimprovero nei loro occhi.
Non dovrebbe preoccuparsi di questo. Affatto.
Né Sasuke, né Naruto la guardano, mentre la voce incrinata
di Tsunade annuncia la sentenza.
«…per questi
crimini, i due mukenin presenti sono stati condannati dal villaggio a restare
appesi per il collo finché morte non sopraggiunga.»
Sono troppo impegnati a fissarsi negli occhi un’ultima
volta, per prestarle attenzione.
Sakura freme. Di rabbia, di tristezza e di gelosia, perché
chissà quanti segreti le loro labbra si sono scambiate; chissà quanti sguardi
si sono lanciati di nascosto, in quegli anni trascorsi a scappare da Konoha – e
da lei.
Sakura se lo chiede, e si infuria. Il pavimento si apre
sotto i piedi dei due ragazzi.
Sente una vecchia sussurrare: «Poverini. Avevano solo
vent’anni.».
Sakura si fonde con la folla urlante. Ma lei non grida:
piange, senza sapere con precisione per quale motivo.
Piange di rabbia? Di dolore? O forse di…?
Non ha importanza. Fatto sta che piange.
Perché loro non l’hanno voluta. Perché è stata rifiutata,
non una!, ma ben due volte. Perché era così piena d’amore da dare che la
perdita di chi doveva riceverlo ha finito col logorarla. Perché ora è si sente
così vuota da capire che è veramente sola.
Piange. E smette di piangere solo quando i corpi dei due
ragazzi smettono di essere preda delle convulsioni; quando il loro respiro si
smorza e quando, finalmente, i cadaveri vengono staccati da quel dannato
traliccio e portati via.
Sakura non rientrerà in ospedale, quella notte. Non avrà la
forza di andare all’obitorio, né di bruciare di persona i loro corpi.
Si limiterà a tornare a casa, bere una tazza di the,
prendere un sonnifero e coricarsi, cercando di dimenticare che il suo ultimo
frammento d’umanità era sparito quel pomeriggio, assieme a due cadaveri più
dignitosi di qualsiasi vivo presente.
Nel sonno ricercherà la forza di alzarsi il mattino dopo e
sentirsi, di nuovo, una bestia tra le bestie.
Avreste avuto
diritto ad una morte dolce, come le carezze materne di cui siete stati privati
da bambini; una morte dignitosa, avvenuta nel silenzio rispettoso della propria
camera.
Avreste avuto
diritto ad una morte da guerrieri: in battaglia, con le armi sguainate,
l’adrenalina in corpo e il sorriso sulle labbra.
Una morte da uomini,
e non da bestie, né da semplici ladruncoli umiliati sulla pubblica piazza.
Non c’è dignità nel
morire così, di fronte ad una folla assetata di agonia non propria.
Non c’è umanità nel
morire strozzati come le bestie, perché la possibilità di affondare di persona
la spada nel proprio ventre è troppo per dei mukenin.
Non c’è – assolutamente
non c’è – onore in tutto questo.
Eppure,
ironicamente, nella mia gretta e meschina umanità, non riesco a non essere
lieta di tutto questo.
Perché mi avete
esclusa; perché mi avete tagliata fuori.
Perché avevate
creato un mondo tutto vostro, impedendomene l’accesso.
Gioisco e mi faccio
schifo per questo. E, allo stesso tempo, godo nel vedere i vostri volti farsi
paonazzi sotto la ferrea presa della corda.
E non ammetterò mai
che, quelle che sgorgano dai miei occhi, sono lacrime di rabbia, anziché di
dolore.
Vi ho amati. Vi ho
odiati. E, adesso, amori miei, vi maledico entrambi per aver distrutto il sogno
infantile di una vita felice, da trascorrere in tre.