Buon compleanno, Emily!
Una
fanfiction sulla Whateley Academy
di Laura Souffle Girl
13 agosto 2011, Boston, USA. Da qualche parte in una officina.
"La cena è pronta!"
La frase rimbombò dall'interfono nella grande officina. Una
figura smilza alzò gli occhi dal mucchio di circuiti che
giaceva sul banco di lavoro davanti a lei rivelando il viso di un
ragazzino dagli occhi castani e intelligenti.
Il ragazzo si alzò in piedi, si sgranchì e
gettò dietro alle spalle i lunghi capelli castani legati in
una coda.
Che peccato doversi fermare proprio adesso, pensò. Mancava
davvero poco a completare la sua creazione.
Si lavò le mani e imboccò una porta, ritrovandosi
in un corridoio col pavimento a parquet, poi proseguì oltre
le scale alla sua destra ed oltre una fila di vecchie foto.
Il nonno in uniforme, in Vietnam. Papà a pesca col nonno.
Papà e la mamma, a pesca col nonno. Papà, mamma,
lei e sua sorella ad un picnic.
Lei. Già, perchè nonostante ogni evidenza,
dall'accenno di barba al petto piatto, fino alla cosa che occupava lo
spazio tra le sue gambe, indicasse la sua appartenenza al sesso
maschile, Emily Charlene Stanford era una lei. O almeno, questo aveva
saputo di essere per tutta la vita.
Era il suo uovo ad aver capito male, decidendo che avrebbe dovuto
portarsi accettare un cromosoma Y al posto di un molto più
appropriato X, condannandola a portare il nome di Edgar Charles.
Entrò nella sala da pranzo per trovare suo padre e le sue
due sorelle già seduti al tavolo.
"Scusate il ritardo. Sapete come sono quando il lavoro mi prende."
Jane, sua sorella maggiore, scambiò uno sguardo d'intesa
prima con lei e poi col padre.
"Si, ne sappiamo qualcosa. Capita anche a noi quando stiamo lavorando a
qualcosa di grosso."
"Vero" disse suo padre. "Mi ricordo una volta, avrò avuto
trent'anni. Avevo ricevuto questa grossa commessa dall'esercito.
Sistemi di puntamento automatici per i carri armati, e all'epoca i
computer giravano in DOS. Ho sputato sangue per tre mesi sul banco di
lavoro..."
La sua sorellina Mary guardò tutti e tre con un'aria
annoiata.
"Voi grandi parlate solo di macchine." affermò. "Io invece
diventerò una biologa!"
"Chissà, piccola. Se manifesterai i tuoi poteri potresti
davvero diventare un bio-devisor." disse Emily, accarezzandole i
capelli.
"Non dare strane idee a tua sorella, Ed. Non voglio che si metta a
giocare con i batteri. Sono... sporchi." commentò suo padre.
Come si poteva immaginare, la loro non era proprio una famiglia
qualunque.
Tutto era cominciato con loro nonno paterno, Richard Stenford, il primo
della famiglia ad aver manifestato poteri di mutante. Durante la guerra
in Vietnam si era fatto una certa reputazione per la sua impressionante
capacità di modificare e riparare veicoli ed elicotteri
rapidamente ed efficientemente sul campo.
Al ritorno, l'esercito decise che era una risorsa troppo utile per
essere sprecata e lo mise a lavorare su nuovi progetti di armamenti.
A breve, era così ricco da poter avviare la sua personale
compagnia, che sotto la sapiente guida del padre di Emily, Edgar
Stenford Senior, era fiorita fino a fatturare milioni di dollari.
Ma una piccola fortuna ed un'azienda ben avviata non furono l'unica
eredità del nonno. Ogni suo discendente, infatti, si era
dimostrato essere un mutante ed aveva manifestato poteri di devisor,
gadgeteer o entrambe le cose. La ripetizione nella famiglia era
talmente precisa da aver attirato persino l'attenzione di eminenti
accademici che si erano preoccupati di sviscerarne la genetica nei
minimi dettagli.
Emily si sedette e tutti iniziarono a servirsi dell'ottimo pollo
arrosto cucinato da Tracy, l'anziana domestica che si occupava della
casa da quando la madre di Emily, Grace, era mancata in un tragico
incidente d'auto anni prima.
Passò un certo tempo prima che il silenzio si rompesse
nuovamente.
"Oggi ho presentato la tua iscrizione alla Whateley" disse suo padre.
"Vedrai che ti troverai benissimo, hanno delle officine fornite quasi
quanto le nostre."
Emily sorrise. "Sicuramente! Non vedo l'ora di iniziare." rispose.
Era vero, soprattutto perchè come sua sorella Jane le aveva
raccontato, Whateley, una esclusiva scuola privata per mutanti nel New
Hampshire, era piena di studenti trans. Si trattava soprattutto di
Exemplars che, manifestando i loro poteri, si erano improvvisamente
ritrovati in un corpo completamente diverso. A pensarci, Emily si
sentiva triste per loro. Sapeva fin troppo bene cosa significasse
trovarsi intrappolata in una forma che non ti rappresenta.
Jane, a 18 anni, frequentava la Whateley da ormai tre anni. Come lei,
era una devisor, ma univa ad essi un tratto da gadgeteer. La differenza
poteva non sembrare chiara a un profano, dato che entrambi i tratti
rendevano un mutante un ingegnere eccezionale, ma era in
realtà abissale ed era ben riassunta nel vecchio detto: "Un
gadgeteer può andare all'ufficio brevetti, un devisor
può andare ovunque tranne all'ufficio brevetti!".
Mentre il potere di un devisor era di ottenere da una macchina un
effetto teoricamente impossibile, un gadgeteer possedeva la
soprannaturale capacità di capire come progettare un oggetto
con una specifica funzione.
Se il gadgeteer era uno scienziato, il devisor era un artista che,
ispirato, creava qualcosa che solo lui sapeva far funzionare.
Jane era abbastanza fortunata da non solo possedere entrambe le
capacità, ma saper distinguere quali delle sue creazioni
erano devise e quali gadget.
In particolare, da quando andava a Whateley si era specializzata
nell'informatica. Non c'era persona migliore per progettare un
programma, e per migliorare le sue capacità faceva da
consulente informatico non solo per il padre ma anche per il governo,
craccando ripetutamente le loro reti più sicure per poi
correggere i difetti nella sicurezza.
A Whateley apparentemente andava di moda avere un qualche tipo di nome
in codice, in stile supereroe, e Jane aveva scelto Byte. Molto
appropriato. Una volta le aveva raccontato di aver imparato molto di
quel che sapeva sui computer da una ragazza più grande che
frequentava a suola, una certa Paige. A quanto pareva, era un genio dei
computer ma la cosa doveva rimanere segreta.
"A proposito, Ed" disse suo padre. "Domani per il tuo compleanno faremo
una festa per cena. Tracy mi ha detto di passare a dirle che torta
vorresti che ti preparasse. Quindici anni... mi sembra che tu sia nato
ieri!"
"Me ne ricorderò. A proposito, avrei bisogno di altro
platino per lavorare al mio esoscheletro da combattimento. I contatti
di rame rallentano troppo la velocità di reazione."
Il padre guardò Emily con soddisfazione.
"Sei proprio il figlio di tuo padre! Te ne farò avere
dell'altro."
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Jane bussò nervosamente alla porta. "Entra pure" rispose
Emily.
La ragazza aprì la porta entrando nella stanza.
Il luogo era in disordine perlomeno quanto la mente della proprietaria.
Pile di vestiti erano gettati sul pavimento accanto ad una libreria
piena di manga e di libri. Poster di vari anime mecha adornavano le
pareti, e una locandina di Iron Man autografata da Robert Downey Jr.
era incorniciata sopra una scrivania.
"Il migliore, e più carino, devisor del mondo" l'aveva
definito una volta Emily.
Jane trovò la suddetta proprietaria sdraiata a letto,
intenta a guardare il soffitto.
"Sei sicura di volerlo fare?" mormorò, passando a utilizzare
il femminile.
"Lo sai come mi sento. Non posso continuare a vivere in questo corpo.
Ogni volta che mi guardo allo specchio è una tortura. Ogni
volta che ti guardo, è una tortura." rispose Emily.
Jane annuì, e si sedette vicino alla sorella iniziando ad
accarezzarle teneramente la fronte.
"Lo sai, l'ho sempre pensato che tu non fossi come gli altri bambini.
C'era qualcosa in te... un peso. Come se dovessi portare un fardello
enorme di continuo. E quando mi hai parlato... mi hai detto di te... ho
capito cos'era."
Emily annuì, ma non mosse lo sguardo.
"Ho paura, Jane. Cosa dirà papà? Lui è
così... inquadrato. Sarebbe già indignato se
sapesse che mi piacciono gli uomini. Ma scoprire che voglio essere una
donna..."
"Se ne farà una ragione. Non può fare nulla per
cambiare quello che sei. Non puoi smettere di essere una ragazza
più di quanto tu possa smettere di essere un mutante..."
"E se trovasse il modo di farmi tornare indietro?" chiese preoccupata
"Non ci conterei troppo. I suoi progetti sono ottimi per far esplodere
le cose, non ha mai lavorato per modificarle."
Emily si alzò a sedere con le lacrime agli occhi, poi
abbracciò la sorella stretta stretta.
"Ora dormi" mormorò Jane. "Domani è un giorno
speciale."
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Emily inserì il chip di platino nel suo slot, finendo di
assemblare i pezzi del suo capolavoro. La cosa che le stava di fronte
sembrava una semplice tuta a pezzo unico, in un materiale nero ed
elastico. I numerosi cavi e circuiti che la ricoprivano, collegandosi a
batterie e sistemi di controllo sulla cintura, la facevano somigliare
ad un costume di scena di un film di fantascienza di serie B.
Tuttavia, il suo aspetto nascondeva mesi di lavoro meticoloso, ore di
sonno sacrificate ad un bene maggiore per nascondere il suo progetto al
padre, e una base teorica che avrebbe fatto girare la testa a chiunque.
Ma d'altronde, era un devise: la teoria alla base del suo funzionamento
era chiara solo alla sua creatrice.
Era quasi un anno che lavorava al suo progetto segreto, di nascosto da
tutti tranne che da Jane, utilizzando come copertura il suo progetto di
un esoscheletro da battaglia o, come preferiva chiamarlo, Piattaforma
da Combattimento Mobile, "MCP".
Oh certo, costruire un robottone armato fino ai denti le dava un certo
piacere. Ma quel progetto poteva aspettare.
Diede un'occhiata all'orologio a parete: 6.40 PM. Tempo di andare in
scena.
Salì in camera, bussando alla porta di Jane nel processo,
poi si spogliò osservando disgustata l'immagine che lo
specchio le restituiva. Se tutto andava come previsto non avrebbe
più visto quell'orrore e, pensò con un brivido,
nemmeno se le cose fossero andate storte. Non importava. Meglio morire
nel tentativo, che vivere da uomo.
Sua sorella entrò proprio mentre finiva di indossare la
tuta, poi la abbracciò forte.
"Sei pronta?" chiese
Emily controllò tutti gli strumenti. "Al massimo delle mie
possibilità"
"Vuoi davvero farlo così? Non sarà un po'...
vistoso?" chiese Jane.
Emily si infilò i pantaloni larghi e una felpa col cappuccio
sopra la tuta.
"Fare le cose con stile! Questo mi ha insegnato Tony." disse con un
sorriso. "Non ve lo insegnano, nella vostra scuola da supereroi?"
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E' il momento, pensò Emily a fine cena.
Tutti avevano appena finito di darle vari pacchetti regalo, e Tracy
depositò un cheesecake alle fragole con una candelina accesa
davanti al suo viso.
"Forza, esprimi un desiderio!" disse Mary.
La mano di Emily si spostò al comando di accensione, alla
cintura.
"Io desidero... essere una ragazza!" esclamò
soffiò sulla candela e premette il pulsante.
La scena fu confusa. Emily gridò di dolore mentre la
strumentazione della tuta aggrediva le sue carni come un animale
affamato. Poteva sentire odore di bruciato mentre i circuiti
sovraccarichi della sua creazione fondevano.
Poi, come era iniziato, tutto finì, ed Emily si
trovò in piedi nella sola tuta, i vestiti laceri, con tutti
i presenti che la guardavano a bocca aperta.
"Ha funzionato?" chiese. La sua voce da contralto le diede
immediatamente la risposta.
Restarono così, a fissarla, per qualche minuto. Suo padre
era visibilmente confuso. Tracy era spaventata. Jane, nonostante
conoscesse il piano, era stupita.
"Eddy ha le tettine come Jane!" constatò Mary dall'alto dei
suoi sette anni.
Edgar Charles Stanford Senior reagì con un po'
più di veemenza.
"Cosa significa questo... questo... è uno scherzo?"
gridò
Emily lo guardò dritto negli occhi, con tutto l'orgoglio che
proveniva dal sapere che la sua invenzione aveva funzionato.
"Sono una ragazza, papà. Lo sono sempre stata. Ho solo
corretto uno sbaglio della natura."
"Cosa diavolo ti viene in mente?" rispose lui sbattendo le mani sul
tavolo. "Non ho cresciuto un frocetto del cavolo!"
"No," replicò Emily. "hai cresciuto una transessuale. Diamo
il loro nome alle cose."
Edgar scattò in piedi e si avvicinò ad ampi passi
ad Emily, sollevando la mano con un chiaro intento.
Tranquillamente, Jane si alzò in piedi e si frappose tra il
padre e la sorella.
L'uomo si fermò, la rabbia di nuovo sotto controllo. "Sei
anche tu dalla sua parte?" Il suo sguardo era glaciale.
"Non mi aspettavo che approvassi certe cose. Mi deludi. Credevo fossi
una ragazza con del senno."
"So di mia sorella da anni, papà. Lei non è un
ragazzo." rispose la ragazza.
Ci fu un attimo di tensione, poi Edgar scrollò le spalle.
"Bah. Follia!" disse. "Edgar, in camera tua. Subito. Ti dirò
io quando potrai uscire. Jane, anche tu. E domani, Ed, andiamo dritti
dal medico a capire che cosa sta succedendo. Ci manca solo che tu abbia
la Diedrick."
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Nonostante la punizione, quella fu per Emily la più bella
sera della sua vita.
Chiusa in camera sua, si spogliò dei resti della tuta con
negli occhi la luce di chi apre un pacco regalo. Buon compleanno,
Emily, pensò.
Si aggiustò i capelli scompigliati dietro la schiena e si
diede una buona occhiata allo specchio.
La ragazza aveva gli stessi occhi castani di prima, solo che brillavano
di qualcosa che mancava da molto tempo.
I capelli lunghi incorniciavano un volto che, pur familiare, era
diventato delicato e grazioso. Dove un tempo il suo petto era stato
piatto, con un accenno di peli, adesso crescevano due piccoli ma
evidenti seni. E proseguendo verso il basso, il suo profilo si
stringeva alla vita per poi allargarsi nuovamente alle anche. Le sue
gambe erano la parte che era cambiata di meno, ma si armonizzavano alla
perfezione col resto del suo corpo.
E poi, ovviamente, c'era la parte più importante. La peluria
sparsa che, tra le sue gambe, nascondeva l'ingresso del suo nuovo sesso.
Restò a guardarsi nello specchio, affascinata,
molto a lungo. Spese del tempo ad accarezzare ogni centimetro del suo
nuovo corpo. Ed ogni volta che con le mani sfiorava i suoi seni, le sue
natiche, il suo addome, aveva la sensazione di trovare un'amica che
aveva conosciuto per molto, molto tempo.
Con le lacrime agli occhi per la gioia, scavò in fondo
all'armadio per tirare fuori una camicia da notte azzurra che le aveva
regalato Jane. Era grande per le sue nuove spalle, ma non importava.
Era una donna sul serio, adesso.
Quella sera, prima di dormire, ringraziò Dio di avercela
fatta. Poi si addormentò con l'espressione di una bambina.
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Non aveva la Diedrick. Considerando che la Sindrome di Diedrick
determinava deliri, paranoia, megalomania, perdita di controllo dei
propri poteri ed esplosioni d'ira pericolose per sè e gli
altri, Edgard Stenford Sr. avrebbe dovuto sentirsi molto più
sollevato di quel che dimostrò quando il medico, serio,
confermò invece la presenza di una disforia di genere.
Condizione comunemente nota come transessualismo.
O, come la definì Edgar, "essere una femminuccia rottinculo".
Durante il viaggio di ritorno, suo padre non aprì bocca. Le
poche volte che la guardò, i suoi occhi erano pieni di
disprezzo.
Emily fece del suo meglio per controllarsi e mostrarsi forte, ma appena
entrata in camera sua gli occhi le si riempirono di lacrime.
Perchè suo padre doveva farle questo? Aveva già
due figlie, perchè non poteva averne una terza? Cosa avevano
loro, che a lei mancava?
Qualcuno bussò alla porta. Era Jane.
"Ciao Emily. Come stai?" chiese. Portava al braccio un sacchetto, e in
mano un piatto con sopra una fetta della sua torta di compleanno, che
non aveva potuto mangiare.
"Insomma." rispose lei.
"Ti ho portato la torta. Con tutto quel che è successo non
ho potuto farti gli auguri come si deve. E poi ho alcune cose per te..."
Posò la torta sulla scrivania e il sacchetto per terra, poi
ne estrasse qualcosa.
Gli occhi di Emily si riempirono di stupore.
"Tieni, provalo." disse Jane, porgendo alla sorella un vestito di seta
bianca.
"E' il tuo vestito... quello della tua festa di compleanno!"
"Esattamente. Lo so che ti piace un sacco. Mettilo, dai. Siamo
più o meno della stessa misura adesso. Ah, ti ho portato un
po' di altri vestiti."
Jane estrasse dal sacchetto molti dei suoi indumenti, cose che non
metteva più, insieme a dell'intimo da donna.
"Ma... Papà?" chiese Emily preoccupata
"E' a lavorare in officina. Se saltasse in aria la casa, non lo
noterebbe."
Emily si tolse i vestiti da uomo che aveva addosso, indossando
mutandine e reggiseno bianchi. Non era la prima volta che metteva
intimo da donna, ma questa volta notò con
felicità che tutto scivolava sulle sue curve senza
forzature. Solo, si accorse con una punta di fastidio di non riempire
del tutto il reggiseno.
Poi mise addosso il vestito, assaporando la sensazione della seta che
scorreva sulla sua pelle morbida.
"Come sto?" chiese alla sorella, facendo una piroetta.
Jane la guardava con l'orgoglio che solo una sorella maggiore poteva
mostrare.
"Sei splendida. E sei raggiante." le disse. "Sai, non credo che quel
vestito mi sia mai stato così bene!"
Continuarono così per un'eternità, provando i
vestiti, ridendo e abbracciandosi. Come due sorelle.
"Auguri sorellina" disse alla fine Jane. "Ora è il momento
dei regali!"
"Cosa? Ma pensavo che..."
"Quelli sono cose che non metto più, quindi non contano. A
parte il vestito. Quello lo rivoglio indietro! Anche se te lo potrei
prestare..." continuò lei ridacchiando.
Poi estrasse un pacco regalo dal sacchetto. Era una sfera del diametro
di sette o otto centimetri di diametro, incartata come se fosse
un'enorme caramella.
Emily lo aprì rivelando una sfera di metallo cromato. La
riconobbe all'istante.
"HAL!" esclamò. "Non mi dire che l'hai fatto funzionare!"
HAL era un piccolo robot da compagnia che aveva costruito nei mesi
scorsi, per passare il tempo quando aveva bisogno di staccare dai
progetti più importanti. Sfortunatamente, programmarlo si
era dimostrato oltre le sue capacità.
"Per Byte, programmare un robottino è uno scherzo" rispose
Jane, gonfiando il petto, grottescamente seria.
Presse un bottone sulla sfera che immediatamente si animò.
Estese un gran numero di appendici da degli sportelli che si aprirono
sulla sua superficie, e le usò per scansionare l'ambiente
circostante.
"HAL questa è la tua padrona Emily" comandò Jane.
"Comportati con lei come faresti con la programmatrice alfa Jane."
Il robot puntò tutte le appendici verso Emily, si
fermò mentre una serie di luci lampeggiavano sui sensori.
Poi ritrasse tutte le appendici e, con un ronzio acuto,
rotolò ai suoi piedi.
"Credo che voglia che tu lo accarezzi" disse Jane.
Emily scoppiò in una risata cristallina, mentre accarezzava
HAL come fosse un gatto.
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Il periodo che seguì fu per Emily un turbine di emozioni.
Era, certamente, molto felice di avere finalmente un corpo adatto alla
sua mente. Tuttavia suo padre le aveva imposto di non uscire dalla
propria camera se non per mangiare e andare in bagno, le aveva tagliato
l’accesso a internet e sequestrato il cellulare ed anche HAL.
In pratica i suoi contatti con l’esterno erano stati ridotti
alle ramanzine del padre e alle visite che Jane le faceva di nascosto.
Un giorno, Jane portò con se anche Mary. La bambina
entrò nella stanza guardando Emily con gli occhi spalancati,
poi si avvicinò timidamente e si fermò accanto
alla sorella seduta al computer. La scrutò con meraviglia.
“Jane dice che adesso devo chiamarti Emily, anche se
papà non vuole. E’ vero che ora sei una femmina
come me?” le chiese
Emily la abbracciò, la sollevò e la mise a sedere
sulle sue ginocchia.
“Lo sono sempre stata. Solo che prima non si vedeva. Il mio
corpo era sbagliato.”
“Ma come è possibile? O sei maschio o sei femmina
giusto?” chiese ingenuamente Mary.
“Vedi, Mary” rispose la sorella sorridente.
“Non è così semplice. A volte un
maschio nasce nel corpo di una femmina, e una femmina nel corpo di un
maschio. E’ una cosa rara, ma quando succede è
molto triste per chi la vive. Tu saresti felice di avere il corpo di un
maschio?”
Mary ci pensò un secondo. “Eww. No! I maschi sono
così… brutti! Si mettono le dita nel naso e sono
sempre sporchi.”
Emily e Jane risero. “Ecco, nemmeno io volevo avere il corpo
di un maschio. E visto che potevo correggerlo…
L’ho fatto.”
Mary guardò la sorella negli occhi per un momento, poi con
tutta l’innocenza di una bambina chiese:
“Giocherai con me con le bambole adesso?”
“Ogni volta che vuoi!” rispose Emily, baciandole la
fronte.
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Nel mentre, Edgar spendeva ore in officina nel tentativo di trovare il
modo di farla tornare un maschio. Come previsto da Jane,
l’impresa gli risultava molto difficile, soprattutto quando
hacker misteriosi si infilavano ripetutamente nel suo computer per
cancellare i progetti. Aveva un sospetto molto preciso sul chi fosse la
responsabile, ma nessuna prova.
Jane aveva continuato a lavorarlo sui fianchi, raccontandogli le
esperienze con Emily e tentando di convincerlo che non era poi
così male avere una terza figlia. Nemmeno far notare che un
paio di sue compagne di scuola un tempo erano state maschi era servito
a qualcosa, però. Quello che dava così fastidio a
suo padre non era la trasformazione in sé, in fondo qualcosa
di abbastanza comune tra i mutanti, quanto il sapere che Emily aveva
rinunciato volontariamente alla propria virilità. Era
qualcosa di molto maschilista, in effetti.
Alla lunga, la lotta si trasformò in uno stallo. Edgar non
era in grado di costruire una macchina per far tornare Emily un uomo,
né poteva convincerla a costruirne una. Inoltre, tutti i
medici che aveva consultato si erano fermamente rifiutati di sottoporre
la figlia a qualunque trattamento senza il suo consenso.
Visto che non era pensabile che Emily continuasse a vivere come una
reclusa, e nel tentativo di evitare troppa attenzione, Emily ed Edgar
trovarono un compromesso con l’aiuto di Jane: la spiegazione
ufficiale per il suo improvviso cambio di sesso sarebbe stata un
incidente di laboratorio, ed Emily avrebbe frequentato uno psicanalista
che la aiutasse.
Emily era perfettamente soddisfatta dell’accordo,
considerando che le importava per ora di un solo obiettivo: prendere
tempo fino all’inizio dell’anno scolastico, quando
si sarebbe trasferita a Whateley e lontano dalle lamentele di suo padre.
Le sedute di psicoterapia furono difficili, all’inizio. Emily
non aveva mai avuto amici stretti e l’idea di confidarsi con
un estraneo la turbava. Il dottor Hampley, tuttavia, non era soltanto
un esperto psichiatra. Era anche un Exemplar e si era trasformato da
femmina a maschio quando i suoi poteri si erano manifestati, da
giovane. La cosa fece da filo conduttore nella loro relazione, ed Emily
riuscì finalmente a rompere il ghiaccio.
Gli raccontò di come da piccola invidiasse le sue compagne
di scuola e la sorella maggiore. Di come aveva tentato di unirsi a lei
nei suoi giochi. E della delusione che aveva sofferto quando i primi
peli di barba le comparirono sul volto e la sua voce iniziò
a incupirsi. Gli parlò delle sue paure e dei suoi fantasmi.
Il medicò aiutò la ragazza e suo padre a ridurre
la loro aggressività reciproca, e nonostante la delusione
Edgar divenne meno insistente con la figlia, sebbene continuavano ad
esservi momenti di burrasca, come quando Emily ebbe la sua prima
mestruazione a fine Agosto.
L’estate volgeva ormai al termine, ed era quasi il momento di
partire per Whateley…
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Era un sabato pomeriggio, ed Emily era sdraiata in giardino su una
sedia pieghevole, godendosi un romanzo rosa e il tiepido sole dei primi
di Settembre. Il giorno seguente lei e Jane sarebbero partite per il
New Hampshire, e il lunedì sarebbero iniziate le lezioni.
Non vedeva l’ora di sbarazzarsi della presenza del padre,
fino alla pausa natalizia. E poi, pensò, Jane non faceva
altro che parlare di queste enormi officine sotterranee…
Una sagoma si frappose tra lei e il sole.
“Jane! Togliti, mi stai facendo ombra!” si
lamentò.
“Volevo proporti una cosa, ma visto che sei così
occupata…” rispose lei con un ghigno.
Emily si alzò in piedi. “Cosa?”
“E’ una sorpresa! Andiamo, su!”
Dieci minuti dopo le tre sorelle Stanford sedevano nella decapottabile
di Jane mentre la ragazza guidava verso il centro città, in
rotta verso un pomeriggio di shopping.
"Come hai convinto papà a lasciarci andare?" chiese Emily a
Jane, i capelli che sventolavano nell'aria.
"Gli ho detto che dovevi comprarti qualcosa per la scuola. Mi ha dato
la carta di credito, e ha detto di non volerne sapere nulla. Credo che
in fondo in fondo, si stia affezionando ad Emily"
Provarono vestiti, chiacchierarono di ragazzi e mangiarono un gelato.
Mary era così delice di avere la possibilità di
fare "cose da grandi". Emily si trovò persino ad arrossire
quando notò che il cameriere della gelateria, un ragazzo sui
diciassette anni, lanciava frequenti occhiate furtive alle sue gambe.
Alla fine, andarono tutte insieme a vedere un film al cinema prima di
tornare a casa. Un pomeriggio felice, come tre sorelle qualunque.
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"Avete preso tutto?" chiese Edgar, sistemando il cappello sulla fronte.
Emily e Jane lo guardarono e annuirono, poi a turno abbracciarono prima
Mary e poi il padre.
Edgar ebbe un momento di esitazione al momento di abbracciare Emily, ma
alla fine si lasciò andare.
Le ragazze salirono sul treno con le valigie, salutando i familiari con
la mano.
Un nuovo anno stava per iniziare. E tutto, pensò Emily,
sarebbe stato perfetto.
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