Il tuo amore non è onesto
Vivi in un mondo in cui non ascoltavi
E non ti importava
E così galleggio
Galleggiando nell’aria…
(Anastacia – Sick and Tired)
- Come, come hai potuto non dirmi niente? – un tavolino cade
in terra, e con esso un vaso, il primo, che si frantuma.
Cerca di mantenere la calma.
- L’ho saputo ieri sera. Tu non sei tornato. Pensavo fosse
solo febbre…
- Pensavi? Pensavi? A cosa, esattamente, pensavi? – adesso
sta urlando. Lei volta lo sguardo.
Non sa cosa rispondere. Si domanda solo quando la sua vita
ha iniziato a prendere questa piega.
- Potevi mandarmi a chiamare, cazzo!
- E dove, negli appartamenti di Sua Maestà? – da quando Sua
Maestà viene fuori come una bestemmia dalla sua bocca?
- Fa’ silenzio! – le urla ancora. Si passa una mano sulla
faccia, gli riconosce la paura. Non avrebbe mai detto fosse così ipocondriaco.
- Suppongo tu sappia che il dottor Lasonne ti aspetta nel
suo studio appena sei libero… - è un sussurro. Lui si ferma dal suo mero
tentativo di stracciare una tenda, e la fissa.
Gli occhi diventano rotondi, e la bella espressione di tanti
anni prima sembra il ricordo di un sogno infantile.
– Non è detto, ma può essere contagiosa, e noi abbiamo… - si
ferma, non perché non abbia qualcosa da dire, ma perché i movimenti di lui le
arrivano rallentati, come se stessero provenendo da un’altra dimensione.
Non le brucia il contatto tra la mano di lui e il proprio
viso, quanto il duro scontro tra la sua schiena e il muro dietro di lei.
- Contagio? Rischio di averla contagiata? Maledetta!
E giù, un altro manrovescio. Sbatte contro l’ennesimo
tavolino della stanza, il secondo vaso che si rompe.
Dovrebbe essere nobile che lui non si stia preoccupando di
sé quanto di lei, ma sa anche che il tutto manca di una certa sobrietà.
Eccolo, l’ennesimo attacco. Il sangue che le cola da una
spaccatura sul labbro si mischia a quello che viene fuori dalla sua gola.
Lui la guarda come se fosse una lebbrosa sudicia, volta le
spalle e va via, correndo.
Tra la tosse e le lacrime, riesce a vedere la figura della
nonna planare su di lei.
Arriva fischiettando, nella peggiore imitazione di una spia
che ha mai visto fare a qualcuno. Sbuffa, tirandosi il bavero del mantello fin
sopra le orecchie, od almeno ci prova.
Fa freddo, e piove.
L’uomo che sta aspettando è magro e dinoccolato, fresco e
felice come tutti gli uomini che hanno appena ricevuto un bel servizietto,
nonostante tutto il freddo.
Sa che mettersi in questa storia è stata la cosa peggiore
che avesse mai potuto fare nella sua vita, ma la morte di Diane aveva fatto di
lui un bestione sentimentale, o forse era solo vedere Andrè tutti i giorni a
ridurlo così.
- Buonasera, capo. Come va la guardia?
- Andrebbe meglio se tu fossi in orario, una volta tanto.
- Mi dispiace, capo, ma lo sai come vanno a finire certe
cose… - gli fa un occhiolino eloquente. Lui gli risponde con un sorriso ed una
pacca sulla spalla.
- Smettila di fare il cazzone, Jerome. Non ho tempo stasera
di parlare di figa con te. Avanti, dimmi tutto.
- Eh, capo – Jerome guarda a terra, la punta delle scarpe
sudice di fango. – Nessuna buona novità. Dice Lucille che sono tre giorni che
lui non torna nelle sue stanze, lei continua a perdere peso e non mette il naso
fuori da almeno quindici giorni. Lucille ha sentito urla e vasi rotti, ieri
mattina, ma non sa nulla. Lei non parla, lui non torna se non per cambiarsi
d’abito, e neanche la nonna di Andrè pare che abbia potuto fare qualcosa. La
vecchia è andata via nel primo pomeriggio.
Ecco. Sempre peggio. Guarda lontano, verso casa sua. Si
sente un tuono.
- Lucille pensa che lei sia malata, Alain.
Jerome non voleva dirlo, ma non si era trattenuto. Dirlo lo
aveva liberato da un peso, ma l’espressione che vede passare per un momento sul
viso del capo lo fa subito pentire.
O forse, se l’è sognato. In fondo è di Alain che stiamo
parlando, non di una donnicciola qualsiasi.
- Grazie, Jerome. Io vado a casa, il mio turno è finito.
- Ma Geràrd porta del rhum fresco!
Ma Alain è già lontano.