Starfucker
Febbraio 1970
È incredibile
quante personalità diverse possano coesistere su un piccolo pullmino Volkswagen
– tinta unita, sapete, per darsi un tono a confronto con gli hippy che non
hanno fatto i soldi imbracciando una chitarra come questa gente qui – ed è
incredibile anche il modo in cui queste anime riescano a intrecciarsi senza
fatica apparente.
Quando questo
affare è partito dal New Hampshire, non aveva su di sé nemmeno un chilometro,
nemmeno una garanzia che potesse farcela... più o meno come noi. Adesso,
nessuno più si sopporta e tutti non vedono l’ora che il tour finisca per poter
finalmente dire: “cazzo, il cesso di casa!”, senza nemmeno ricordarsi che la
maggior parte di noi ha venduto tutto per produrre il disco e adesso si ritrova
con migliaia di dollari nelle tasche dei pantaloni e nessun tetto sotto il
quale pisciare.
Ma, dopotutto,
sono cose di secondaria importanza.
«Only know you’ve beeh high when you’re feeling low.»
Partiamo con
ordine. Siamo ai primi di febbraio, quindi sono tutti un po’ nervosi per San
Valentino, la festa dei fottuti… o degli innamorati. Insomma, è a libera
interpretazione, ma si è capito come la penso, e la penso così proprio per ciò
che sta succedendo a coloro che viaggiano su questo pullmino Volkswagen tinta
unita.
Il primo di
tutti è Donnie, indiscusso leader della band. Il nome del gruppo è meglio non
dirlo, sapete, non sono ancora così infame da sputtanare quelli con cui ho
condiviso l’ossigeno negli ultimi due mesi, per quanto non riesca più a
sopportare le loro stronzate.
Donnie canta,
e canta stramaledettamente bene.
È nato a
Stoke-on-Trent, come quel tizio, Lemmy Kilmister[1], che è uno dei
bassisti più fottuti di tutta la Gran Bretagna. Donnie giura che un giorno
sfonderà per davvero, non con quelle band del cazzo con cui si fa vedere
adesso. E so che in quel suo cervello bacato sta già pensando a mille modi in
cui fargli il filo.
Dice anche che
i suoi vicini di casa erano una strana famiglia un po’ estrosa – Hudson[2]si
chiamano. Lui è un pittore, mentre lei a quanto pare fa la stilista per gli
artisti famosi. Si dice che abbia lavorato con niente meno che David Bowie.
Hanno anche un bambino, dice, che probabilmente da grande diventerà uno
spostato. Potrei giurarci: Donnie sta già facendo il filo anche a loro. Sia
alla madre che al moccioso.
Non si è mai
visto uno del suo stampo – uno di quelli che adesso chiamano rockstar –
a parlare continuamente di casa sua, da cui, a rigor di logica, dovrebbe essere
fuggito insieme a noi. Quindi, alla fine, quella cosa che dicono i nostri
vecchi sopravvissuti alla guerra, quella cosa del si stava meglio
quando si stava peggio, non è solo una cazzata. Anche Donnie, che sul palco
fa il culo anche agli headliner per cui il gruppo apre, forse ha capito che la
fama non è questo granché, che forse stava meglio a casa sua, quando non faceva
altro che rompere le palle a tutti perché voleva andare via. E allora si
seppellisce ogni notte tra le cosce della sua groupie, che, per inciso, è uno
dei posti più belli che abbia mai visto in questo tour.
E chi se la
sente di prendere per il culo uno così?
«Only hate the road when you’re missing home.»
Un altro che
odia tutto è JJ, migliore amico di Donnie sin dai tempi di Stoke-on-Trent e
altro vicino degli Hudson, però dall’altra parte – i dettagli sono stati
raccontati fino alla nausea su questo cazzo di Volkswagen che, purtroppo, non
ci è mai esploso sotto al culo. Lui è il roadie del gruppo e, insomma, il
roadie non dovrebbe proprio odiare la vita on the road. C’è qualcosa di
profondamente sbagliato in tutto ciò, forse si è calato un po’ troppi acidi
mentre il gruppo faceva i concerti. Non l’ho mai capito.
Anzi, a dire
la verità l’ho capito eccome. JJ rimpiange di essere partito per un motivo
molto semplice: si è innamorato. E si è innamorato proprio on the road.
Non ho ancora
parlato di Pam? E come ho fatto a non aver ancora parlato di lei? Beh, in realtà
l’ho accennata prima, parlando del paesaggio che Donnie vede tra le gambe della
sua groupie, perché è lei la groupie. Tutti vivono in trance
quando lei è nei paraggi. È la Penny Lane del nuovo decennio... beh, in realtà
il decennio non è ancora iniziato per bene – deve ancora carburare –, ma
diciamo che ha ottime possibilità di mantenersi in forma per farla vedere a
tutti quando saremo nei veri e propri Settanta.
Secondo voi ci
arriveremo tutti al Settantuno? Magari, strafatti come siamo, faremo la fine di
Syd Barrett[3] – che, per inciso, su questo cazzo di tour bus è
l’icona indiscussa di tutti, altro che Jim Morrison! Oppure moriremo prima come
Brian Jones[4] – e non mi sono ancora ripreso da quel
fattaccio. Dopotutto, nessuno di noi qui ha ancora ventisette anni. Il più
vicino è proprio JJ, che, se continua di questo passo, morirà d’amore come
l’ormai andato membro degli Stones.
E, udite
udite, morirà d’amore proprio per quella gran sventola di Pam, che è la groupie
preferita di Donnie – l’unica, probabilmente. Se l’è portata dall’Inghilterra e
ormai anche lei è diventata un po’ famosa. Una volta, ai microfoni di Rolling
Stone – venuti a intervistare noi, la opening band – ha persino
detto che chiunque fosse stata intenzionata a succhiare il cazzo di Donnie
sarebbe dovuta passare sul suo cadavere. È stato divertente, perché eravamo in
diretta con non so bene quale canale della East Coast. Ovviamente l’hanno
cacciata via, e chi pensate sia stato a doverla portare fuori di peso mentre
lei scalpitava come un’ossessa?
Esatto,
proprio JJ!
Sospettiamo
tutti che sia stato quello il momento in cui si è innamorato di lei, ma non lo
sapremo mai. Non lo sapremo perché siamo in aeroporto, pronti a imbarcarci
verso Heathrow. Nessuno di noi ha realmente voglia di tornare, e nessuno di noi
ha realmente voglia di rimanere insieme agli altri.
La verità è
che odi stare on the road quando non hai la possibilità di tornare a casa ed è
una lezione che abbiamo imparato a nostre spese.
Credo che JJ
sia stato quello a prenderla peggio di tutti. Beh, voglio dire, è il
roadie. L’ho anche già detto. Ma la verità è che ha iniziato a odiare il
tour quando è subentrato quello strano interesse per la donna del suo migliore
amico – ma non fatevi sentire a dire che una groupie è una donna di qualcuno,
perché queste groupie qui sono le donne della musica, mica come le americane
che si fanno fottere e basta.
«Only know you love her when you let her go.»
Ah, Heathrow.
Lo leggo negli occhi di tutti che, per un inglese, la pioggia sarà sempre
qualcosa di confortevole. Siamo rimasti tutti sconvolti quando siamo arrivati
in Louisiana – era fine agosto, e noi a fine agosto ci
portiamo sempre il chiodo sulla spalla, soprattutto di notte – e quella cappa
di caldo allucinante ci ha fatti stramazzare sulle ginocchia. Ci eravamo anche
calati qualcosa, se non ricordo male: è stato un mix micidiale.
Beh, dicevo
che ora siamo a Heathrow. La sorella di Pam – cazzo, mi piacerebbe conoscere la
madre se anche la sorella ha quel... ah, lasciamo perdere – è
venuta a prenderla per tornare a casa e lei, prima di raccattare la valigia e
andarsene, si getta al collo di Donnie per fargli un’allegra ispezione orale.
Non ho ben capito se stia cercando di insegnare alle sue groupie oltreoceano
come si faccia a limonare con la propria rockstar – perché ho l’assoluta
certezza che la lingua di Pam l’abbiano vista anche da là.
Lancio uno
sguardo a JJ, anche Pam vede che sta per dirle qualcosa, ma, quando si
avvicina, lui si scansa bruscamente. Sapevo che sarebbe andata a finire così,
sapevo già da subito che JJ non avrebbe avuto le palle per dirle ciò che prova:
dopotutto, l’amore è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole[5].
E JJ non è così stupido da donare a Pam il suo essere soltanto un roadie,
mentre lei ha fame di rock.
Dopotutto, il
motivo per cui abbiamo smesso di sopportarci è sempre stato uno solo: lei.
Tutti, in
qualche modo, l’abbiamo amata, tutti abbiamo capito quanto Donnie fosse
fortunato, sia ad averla per sé che a fottersene altamente di ciò che lei ha
sempre provato nei suoi confronti, perché lui è l’unico tra noi ad averla presa
come una groupie e non come una strafottuta principessa – e strafottuta in tutti
i sensi. Abbiamo iniziato a mal sopportare Donnie – il nostro leader, cazzo – e
poi anche a mal sopportarci tra di noi, perché avremmo potuto fotterci la
ragazza in qualunque momento.
Solo ora, ora
che lei sta andando via, ci rendiamo conto di quanto siamo stati idioti. So di
parlare a nome di tutti, perché incontro lo sguardo di JJ e ci leggo dentro
quello che sta vorticando anche nella mia testa intontita dalle compresse:
capisci di averla amata davvero solo quando l’hai lasciata andare.
Per fortuna
che per San Valentino saremo tutti fuori dal cazzo, a rimorchiare qualche
bottiglia mezza vuota che sicuramente non ci dirà di no.
*
[1]Lemmy
Kilmister, bassista e leader dei Motörhead.
[2]Famiglia di
Slash, ex chitarrista dei Guns N’ Roses. Tutto ciò che ho detto su di loro ha
come fonte la biografia dello stesso Slash, quindi non è campato per aria.
[3]Syd Barrett è
stato uno dei fondatori dei Pink Floyd, allontanato dal gruppo perché “gli
acidi gli avevano fottuto il cervello”. Una frase del genere viene riportata
nel libro “Groupie”, di Jenny Fabian, in cui Syd viene chiamato Ben, per
mantenere una parvenza di anonimato.
[4]Del Club 27
fanno purtroppo parte Brian Jones, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison.
Essi hanno in comune il fatto di essere morti a ventisette anni, come poi
succederà anche a Kurt Cobain ed Amy Winehouse, altri tra i più famosi artisti
colpiti da questa “maledizione”. Quando è ambientata questa storia, ovvero a
febbraio del 1970, l’unico ad essere già morto era solo Brian Jones, ma ho
presupposto che i rocker avessero già iniziato a considerarla un’età maledetta.
[5]Jacques Lacan.
Il titolo
della storia è preso da una canzone dei Rolling Stones, mentre i versi che si
trovano nella storia sono tratti da Let her go di Passenger
(sono anacronistici, ne sono consapevole, ma era il prompt di un contest).