Caravanserraglio venexian
Un coso azzurro e starnazzante gli passò in mezzo
ai piedi e si gettò a capofitto nel salone. Basilio, per un
pelo, tenne in equilibrio se stesso e il plico di appunti che
trasportava.
Peccato non avesse previsto il ragazzino all’inseguimento del
coso: si trovò a osservare mestamente, schiena contro il
pavimento, i fogli che svolazzavano per il salone.
- Signor Basilio! Oddio sta bene? – il suo assistente
arrivò inseguito da tre ulteriori cosi azzurri, al secolo
pavoni. Gli occhi dell'assistente e le tre paia di quelli delle
maledette bestiacce lo fissarono dall’alto. Basilio si mise
seduto sul pavimento e cominciò a raccattare i fogli volanti.
- Stae, perché siamo qui?
Eustachio gli porse una mano e lo aiutò ad alzarsi. - Posso
escludere le derive teologiche?
In risposta alla sua domanda, Basilio emise un gemito.
L’assistente lo prese come un assenso, si mise a posto gli
occhiali e iniziò con aria professionale: - Il Doge ha
ammirato le vostre molte doti e vi ha chiamato al suo servizio a
palazzo per l’allestimento della parata di carnevale, cosa
per cui…
- Eustachio Zen. Intendevo come diavolo abbiamo fatto a ritrovarci qui
a rincorrere dei maledettissimi pavoni! – Basilio diede un
calcio a una delle bestie per disperderle, ma quelle si rimisero in
branco e li seguirono per il salone, come pulcini con le chiocce.
Eustachio lanciava occhiate nervose ora ai suoi appunti, ora alla loro
scorta pennuta.
- Beh, a metà corteo è prevista una nave
addobbata di rose, sopra la quale la figlia del doge sfilerà
con una maschera impreziosita da piume di pavone e per questo
attorniata da…
- …sarcasmo, Stae.
- No signore, sono previsti proprio pavoni.
Basilio snocciolò mentalmente alcune sue personalissime
litanie mentre recuperava i fogli in giro, solo per scoprire che un
pavone ne stava becchettando uno, con aria cattiva.
- Fermati stupido pennuto, quello è l’arco di rose
per la figlia del Doge! Stae, dov’è il domatore di
queste bestiacce?
L’assistente scattò sull’attenti.
- Lo vado a chiamare subito.
- Bene, se mi cerca qualcuno sono nelle cucine.
Si fece strada tra i pavoni verso il salone del banchetto. La porta si
chiuse su Eustachio che tentava di mettere in riga i pavoni, emettendo
un chiuchiuchiu
di richiamo, ma sembrava più assaltato dal branco che
ascoltato con benevolenza.
Basilio si massaggiò l’attaccatura del naso e
inspirò qualche volta, percorrendo il corridoio che portava
al salone del pranzo, dove un centinaio di persone stava disponendo
fiori e argenteria.
- Claro, come va qui?
- Bene! Il signor Baiocchi ci ha messo a disposizione i suoi cuochi.
Il maggiordomo schioccò le dita e una decina di camerieri
attorniarono Basilio, porgendogli vassoi di cibo.
- Arrosto buono, la salsa un po’ più agrodolce,
pane croccante giusto… questa la chiami faraona in gelatina?
Più cipolle nelle sarde! E questo? Ha un gusto
interessante…- assaggiò la ditata di salsa
densina che aveva preso da un paiolo, trasportato a fatica da un
ragazzino. Quello sbiancò quando si accorse del gesto.
- Signore, questo è il pasto delle scimmie…
Basilio sputazzò per tutto il salone.
- Scimmie? – ringhiò. Il cerchio di personale fece
qualche passo indietro, probabilmente per evitare le fiamme che gli
uscivano dalle narici. – Mi hanno chiamato per dirigere una
parata di carnevale o un caravanserraglio? E ADESSO CHE
C’È?! – il ragazzino che gli aveva
tirato il lembo della giacca fece un balzo indietro e si nascose dietro
uno dei cuochi. Basilio si ricompose e cercò di rivolgergli
un sorriso cordiale e disponibile. Dall’effetto, doveva
essere venuto fuori più un qualche ghigno satanico.
– Avanti, ancora non mordo. Potrei farlo se mi dicessi che
hanno trasformato san Marco nella stalla per gli elefanti.
- Si-signor Tiozzo – il ragazzino deglutì e si
contorse le mani, - c’è stato un problema con la
maschera per la figlia del Doge.
- Un problema? – sibilò tra i denti Basilio.
- È… uhm… quando Annetta è
andata a controllare, stamattina… ahm… - Basilio
si immaginò di scuotere il ragazzino per fargli sputare il
resto del messaggio. Quello dovette cogliere il lampo omicida
perché sputò fuori tutto d’un fiato: -
L’ha vista volare via dalla finestra.
Sulla laguna, nei giorni di novembre in cui si scatena la bora,
l’avvento delle raffiche è preceduto da qualche
ora di calma piatta, in cui i canali sembrano grosse lastre di vetro
plumbeo. I veneziani riconoscono d’istinto questa quiete
pericolosa.
Le parole – Ah, l’ha vista volare via dalla
finestra – suonarono plumbee come i canali, la voce di
Basilio immobile come l’aria che vi aleggiava sopra.
– E dimmi, devo intendere “volata via” in
senso letterale? Ha spiegato le sue piume di pavone e ha deciso di
farsi un giretto?
Al ragazzino era rimasta abbastanza sfacciataggine per balbettare:
– E-esattamente così.
- IO TI MANDO A DRAGARE IL FONDO DEI CANALI!
Annetta, una bambina bionda e pallida, era seduta sul bordo del letto a
baldacchino, nella stanza trasformata nel magazzino di maschere e
costumi. La testa-manichino vuota, che fino a qualche ora prima reggeva
la maschera del pavone, era una nota stonata in mezzo al tripudio di
stoffe, gioielli e vestiti. Basilio incedeva a falcate da una parte
all’altra della stanza.
Eustachio Zen era ritto accanto a una delle colonne del baldacchino e
spostava lo sguardo dalla bambina a Basilio.
- Quindi, stavi portando dentro il cesto con la frutta di cera, quando
la maschera pavone è – Basilio fece un gesto col
braccio come per aiutarsi a pronunciare la parola – volata
via dalla finestra.
La bambina annuì: - Si è posata sul campanile.
Poi ha cambiato direzione e credo sia andata verso il Canal Grande.
- Giustamente, un pavone persiano avrà voluto godersi le
bellezze di Venezia. Lo troveremo a becchettare grano in qualche campo.
– Basilio si fermò di fronte ad Annetta
– Ora, bambina, se “volato via”
è stato un modo carino per dire che hai rotto o rovinato la
maschera, è il momento di svelarlo.
La bambina si eresse nella sua piccola ma forte dignità di
brava damigella: - Signore, quella era la maschera per la dogaressina
Fosca, non mi sarei mai permessa nemmeno di toccarla.
Basilio stava per insistere, quando sentì un vociare
concitato fuori dalla finestra: sotto palazzo Ducale, un gruppo di
gente indicava il cielo. Basilio guardò in direzione delle
dita puntate.
E vide la sua maschera di pavone svolazzare tra le procuratie della
piazza: si posò con una planata sul lastricato e
zampettò tutta felice in una pozzanghera.
- Visto che non sono una bugiarda? – Annetta si era fatta
largo tra lui ed Eustachio e indicava contenta la maschera che faceva
il bagno.
- Perdio, prendetemi quell’aggeggio! – Basilio
sentì le mani di Eustachio che lo trattenevano sul
davanzale, e si accorse che si era sporto fino alla cintola nella foga
di attirare l’attenzione. Da sotto lo avevano sentito, un
ortolano balzò addosso alla maschera fuggiasca: Basilio
trattenne un gemito quando vide le piume inzaccherate e stropicciate
dalla presa dell’uomo.
Le mani di Eustachio smisero di trattenerlo perché non
cadesse di sotto e, pochi istanti dopo, vide il suo assistente che
correva sulla piazza per recuperare la maschera. Ritornò che
la stringeva come fosse un neonato: Basilio contò tre piume
spezzate, altre stropicciate, e tutto l’orlo inferiore sporco
di fango. La voce di Eustachio lo riscosse.
- Signor Basilio, ehm… - Eustachio gli stava porgendo la
maschera – e se si fosse attivato qualche meccanismo che
permetteva al pavone di volare? Forse il signor Edoardo…
Basilio, a sentire quel nome, sentì tutto il suo nervosismo
concentrarsi su un colpevole ben preciso. Diede a Eustachio una pacca
sulla spalla e rimise la maschera sulla testa-manichino.
- Giusto, quel mascheraio c’entra sempre quando succede
qualcosa di strano. – afferrò
l’assistente per un braccio e lo spinse fuori dalla stanza.
– Vai a prendere il tabarro, andiamo a fare una visita.
- Signora Masin, non capisco bene il senso di questa visita. Abbiamo
mai mancato un mese di affitto?
La signora, una donnetta secchina e un po’ curva, con un
fazzoletto annodato attorno ai capelli, evitava di incrociare il suo
sguardo.
- Lei mi capisce, noi siamo brava gente, timorata di Dio, e i vicini
mormorano… Insomma, so benissimo che la vostra fama di
artigiano vi precede e per me è un onore che un tale artista
viva sotto il mio tetto, e so che ogni artista ha le sue stramberie,
ma… sa, due uomini non ancora accasati che convivono,
assieme a una bambina! Capisce bene che si tratta di una situazione un
po’ ambigua…
Edoardo sospirò e si pulì le mani dalla pittura.
Liberò una sedia del laboratorio, piena di straccetti, e la
porse alla signora Masin.
- Grazie, la schiena è sempre un problema… -
mormorò la signora. Guardò con molto interesse la
vernice che asciugava sulla maschera di fronte a lei. Edoardo
scacciò via la gatta nera acciambellata su uno sgabello e ci
si sedette, di fronte alla signora. Prima che la schiena diventasse un
problema anche per lui, ruppe il silenzio:
- Non mi pare contro la legge avere un collega in affari e
un’apprendista. E non mi pare che si sia mai preoccupata del
fatto che al quarto piano della sua palazzina abitino signorine che
esercitano, diciamo, un mestiere nobile e antico.
La signora Masin sbiancò e lo guardò con astio.
– Quello è un laboratorio di sartoria.
Edoardo sospirò – Come vuole. Sta di fatto che non
abbiamo mai dato fastidio a nessuno.
- Per carità, signor mio! – la Masin si mise una
mano sul cuore – E so che avete accolto la bambina in un
gesto nobile e caritatevole, lo sa Dio dove sarebbe adesso altrimenti.
- Probabilmente a fare la sarta… - mugugnò
Edoardo, provocando un’altra smorfia di disprezzo da parte
della signora. – E comunque non vedo tutta questa
ambiguità di cui parlate lei e i nostri discreti vicini.
In quel momento, Jerome entrò nel laboratorio.
- Avevi ragione stamattina: a sforzare è stato peggio,
adesso mi fa un male terribile.
Edoardo, che stava per salutarlo, sentì la gola secca e la
bocca paralizzata sulla prima sillaba di “ciao”.
La Masin aveva uno sguardo trionfante, anche Jerome dovette notarlo. Di
certo notò gli occhi spalancati di Edoardo e il modo in cui
gli erano caduti gli occhiali sul naso, senza che facesse una mossa per
rimetterli al loro posto. Quindi le parole successive furono
crudeltà gratuita: – Signora, buongiorno.
È da una settimana che ho un braccio malandato, ma non
riesco a tenerlo fermo come dovrei. Non posso fare a meno di usarlo, sa.
La bocca della Masin a ogni parola si stendeva in un sorriso
mefistofelico e soddisfatto: guardò Edoardo con tutto il
volto che gridava “a-ah!”.
Edoardo rimise in funzione la voce, con la sensazione di dover salvare
una barca che stava affondando e solo un ditale per togliere
l’acqua: - Jerome, per cortesia, vai a vedere cosa combina
Marina, l’ho mandata in campo a giocare. – Mantenne
uno splendido sorriso appiccicato in faccia, anche se la voce gli
uscì di qualche tono più alta del solito. Jerome
annuì, senza cambiare la faccia da schiaffi che aveva
mantenuto fino a quel momento. Stava per uscire quando la porta del
laboratorio fu occupata da altre due figure. Uno era un omino magro e
occhialuto, con un pavone sottobraccio che a tratti gli becchettava i
bottoni del gilet; l’altro era Basilio Tiozzo, il maestro di
cerimonie del Doge. Aveva in mano una cappelliera e la faccia di chi
porta guai.
Perché per
oggi non ho ancora sofferto abbastanza.
- Eccola qua, lei! Il suo maledetto uccello ci sta causando un sacco di
problemi.
Jerome inarcò un sopracciglio, la signora Masin si
impettì tutta indignata, ma sempre sprizzante di maligna
soddisfazione; a Edoardo veniva solo da piangere.
La maschera non era da rifare del tutto, ma molte delle piume erano
irrimediabilmente rovinate. Edoardo comprese solo allora la presenza
del pavone da ascella di Eustachio Zen, l’assistente di
Tiozzo. Il maestro di cerimonie aveva occupato la sedia della signora
Masin (che se n’era andata borbottando “poi si sa
che i francesi sono tutti invertiti”) e batteva il piede con
impazienza. Edoardo finì di esaminare la maschera e si tolse
gli occhiali.
- Posso rimetterla a posto entro domani. Ma non capisco proprio come
abbia fatto a prendere il volo, non ho messo nulla che giustifichi
l’uscita dalla finestra e il, ehm, bagno in piazza san Marco.
- Per me può anche sputare fuoco, basta che domani sia sulla
testa della dogaressina, e come nuova. Stae, molla qui la bestia e
andiamo via. – Tiozzo batté a terra il bastone da
passeggio e si rimise il tabarro sulle spalle.
Eustachio Zen guardò il pavone, intento a beccare
l’unico bottone superstite del suo panciotto, come se dovesse
separarsi da un caro parente. Il pavone smise di beccare il bottone e
lo guardò, muovendo la testa a scatti. Edoardo era sicuro di
aver visto una lacrima scorrere sotto le lenti di Zen, ma il solerte
assistente liberò il pavone in terra, come da comandi.
- Bene, signor Edoardo, le manderò qui Stae domattina alle
nove. – Tiozzo si era alzato dalla sedia. – Mi
raccomando. Arrivederci signor Jerome.
I due si tirarono dietro la porta. Edoardo la chiuse a chiave e si
buttò di nuovo a sedere sullo sgabello. Le piume della
maschera pavone, appoggiata sul tavolo della bottega, si muovevano
lievi. Il pavone in carne e ossa, invece, aveva cominciato a
becchettare per terra. La gatta nera seguiva i suoi movimenti con una
serie di ringhi sommessi.
- Qui il pennuto non ci resta – miagolò.
– E devi farti perdonare per avermi interrotto il sonnellino
pomeridiano.
- Nerina, non ti ci mettere anche tu. Che cosa ti ho detto mille volte?
Hai il permesso di parlare…
-…solo dopo il tramonto. Beh, finché
l’uccello se ne sta qui, io tolgo il disturbo.
Nerina balzò con grazia dalla finestra e si
avventurò per i tetti. Edoardo chiuse anche quella, facendo
sbattacchiare gli infissi.
- Cos’è che aveva la Masin da stare qua?
– Jerome occupò la sedia che avevano usato sia la
loro padrona di casa sia Tiozzo. Edoardo, che stava quasi per
dimenticare la visita della padrona, sentì ricrescere il
nervoso.
- Se qualcuno
non andasse in giro a dire cose equivoche con quella là, non
saremmo sul punto dello sfratto ogni mese!
- Bene, la prossima volta le racconterò la
verità: “Sa signora, mi sono slogato il braccio
cadendo da un’altana, perché le guardie mi avevano
sorpreso sul tetto di Ca’ Foscari…”
Preferiresti?
- La prossima volta, fammi un piacere e cadi di testa, dal tetto di
Ca’ Foscari.
- Oppure la facciamo parlare con Nerina. Forse tra donne bisbetiche si
capirebbero meglio. – Jerome girò gli occhi sulla
maschera malconcia. - Per fortuna chiunque l’abbia portata
via da palazzo Ducale era un idiota: non ha nemmeno rubato lo smeraldo
incastonato sulla testa.
- Perché tu l’avresti preso subito, vero? -
Edoardo per darsi un contegno cominciò a pulire le
piume imbrattate di fango della maschera. Anche lo smeraldo di cui
aveva parlato Jerome era tutto sporco. Inumidì una pezza e
cominciò a strofinare.
Sentì una botta sulla fronte.
La stiva di una nave,
due facce di uomini intraviste attraverso la trama di un panno, le mani
di un terzo uomo, una fitta di dolore, “Selvaggi che
incastrano una gemma del genere in un pezzaccio di legno da
barca”, una borsa, il cortile di una casa, nero…
- Ehi!
Due schiaffi lo riportarono nel laboratorio. Era a terra, le sue gambe
avevano urtato e rovesciato lo sgabellino. Si massaggiò la
testa e tastò attorno a sé per ritrovare gli
occhiali. Rinforcatili, vide la faccia di Jerome che lo guardava,
preoccupato.
- Devo, devo indossare la maschera – era la sua voce?
Perché stava parlando? Non aveva dato nessun segnale al
cervello perché dicesse una cosa del genere. E alle mani
perché afferrassero la maschera e gliela mettessero in testa.
Il cortile di una casa,
una stanza elegante con un letto a baldacchino, costumi e manichini, un
pezzo di legno scuro solcato da spirali, una voce cavernosa che si fuse
alla sua voce:
- “Rivoglio l’altra parte, rivoglio Tuka.”
- Che cos’è che vuoi? – di nuovo la
coscienza tornò nel laboratorio e alla voce di Jerome.
- Cosa?
- Rivoglio Tuka.
- Che cosa stai dicendo?
- L’hai detto tu un attimo fa! – Jerome gli tolse
di mano la maschera e la appoggiò di nuovo sul tavolo.
Edoardo si sentiva la testa leggera, come se fino a un attimo prima un
intruso ci si fosse intrufolato, mettendo a soqquadro i pensieri.
Guardò la maschera, le cui piume continuavano a frusciare
anche senza un alito di vento.
- Da dove vengono i materiali della maschera? – Edoardo porse
una mano a Jerome, che lo aiutò a rialzarsi in piedi.
- Dal doge.
- Intendo prima.
Jerome si concentrò un attimo e rispose: - Due settimane fa
hanno fatto approdo in riva degli Schiavoni due navi provenienti dalle
Indie.
Come la stiva che gli era comparsa in testa. Edoardo riprese in mano la
maschera e guardò lo smeraldo: le piume fremettero ancora
più forte.
- Ho sentito una voce, in testa, che mi diceva “rivoglio
l’altra parte, rivoglio Tuka”.
- Non mi dire, abbiamo tra le mani un artefatto magico. –
constatò Jerome.
La maniglia della porta si abbassò qualche volta. Vedendo
che la porta non si apriva, qualcuno da fuori cominciò a
bussare.
- Ehi, Edoardo, non è orario di bottega questo?
Perché è tutto chiuso? – la voce di
Marina arrivò, squillante, attraverso il legno.
- Tieni ferma la maschera, che non le venga in mente di fare qualche
altro scherzetto. – Edoardo andò ad aprire. Marina
era in piedi, con una barchetta di legno in mano.
– Ah, allora eravate… ehi! – la prese
per una manica e la tirò dentro, chiudendo di nuovo la porta
a doppia mandata. – Che cosa è successo che siete
tappati qui dentro? Oh, ma quello è un pavone!
La bestia scaricata nel laboratorio da Tiozzo si era rifugiata sotto il
tavolo e guardava tutti con aria arcigna. – Posso toccarlo?
- Per carità, con la fortuna che ho addosso oggi potrebbe
essere sacro a Giunone e se gli roviniamo una piuma ci trasforma tutti
in ratti.
Marina non gli diede retta. Frugò in tasca e tirò
fuori un bussolao mangiucchiato: lo ridusse in briciole e si
accucciò ad altezza pavone, porgendo la mano con il cibo.
Jerome, intanto, aveva preso in mano la maschera e guardava dentro lo
smeraldo in cerca di indizi.
- Hai detto che ti sono balenate in testa delle immagini, quando
l’hai indossata?
Edoardo annuì.
- Ma è quella della dogaressina! È magica,
Edoardo? – Marina aveva preso in braccio il pavone e gli
grattava la testa, seduta a terra. Il pavone becchettava le briciole.
- Non dirlo come se fosse una cosa divertente. Comunque sì,
lo smeraldo sulla fronte l’ha animata e… adesso mi
dici che cosa hai intenzione di fare, tu!
Jerome aveva indossato la maschera. La voce che uscì dalla
sua bocca era la sua, ma al contempo non lo era.
- “Andiamo a ritrovare Tuka.”
Faceva già caldo per essere febbraio. Jerome
inspirò l’aria della notte e guardò in
basso le luci del carnevale in piazza san Marco. Era il tempo in cui la
città non dormiva per due settimane: da una parte era
più difficile portare a termine i suoi incarichi,
dall’altra nel resto dell’anno non si sarebbero
più ripresentati bottini così ricchi.
Un fremito dalla tasca, dove aveva messo lo smeraldo, lo
riportò sull’obbiettivo della serata.
Tuka, palazzo, stoffe,
Tuka. Ora. Fretta.
- Un po’ di rispetto, spirito, non si mette premura a un
artista.
No lucette, distrazione.
Tuka. Fretta fretta.
Jerome diede un pugno sulla tasca e si alzò in piedi sul
tetto. Corse leggero sopra le procuratie fino alla torre
dell’orologio, proseguì sul palazzo attiguo e, con
un’ultima rincorsa, spiccò un salto fino al
palazzo del Patriarca. Da lì proseguire fino a palazzo
Ducale era un gioco da bambini. Aspettò il rintocco
dell’orologio e il cambio della guardia.
Presto presto Tuka?
- Presto presto. Ora, mostrami di nuovo la stanza dove sei stato
depositato.
La mente fu invasa di nuovo dalle immagini della stanza elegante con il
letto a baldacchino, occupata da costumi e manichini. Conosceva quel
letto, l’anno prima quella ragazza, Bianca, lo aveva
trascinato lì tentando di capire come recuperare il
medaglione di sua nonna. Sistemò la maschera nera sopra gli
occhi, alzò il bavero del mantello e, reggendosi con le mani
al cornicione, si calò nel cortile interno. Voltò
il mantello dalla parte della fodera, ricamata con vedute della
città.
- Bel costume, - si era appena cambiato, che una donna mascherata lo
superò assieme a un gruppo di amiche. Jerome si
inchinò e proseguì verso le scale che portavano
al piano superiore e alla stanza con…
Quando Tuka?
- Esattamente in tre minuti. Minuto uno, aspettare sulle scale che ci
sia il passaggio delle guardie. Minuto due, percorrere il corridoio sul
lato sinistro. Minuto tre, – erano arrivati davanti alla
porta, - trovare il passe-partout giusto.
Jerome staccò dalla cintola un mazzo di chiavi: al terzo
tentativo la porta si aprì, ma non perché aveva
trovato la chiave giusta. Una ragazzina, più o meno
dell’età di Marina, fissò Jerome.
Minuto quattro, scappare
gambe levate, Tuka?
- Oh sta’ zitto.
- Vi siete perso, signore?
Jerome spinse la ragazzina via dalla porta, entrò nella
stanza e si gettò sopra un mucchio di scarti in un angolo.
Lo smeraldo pulsava nella sua tasca, si era fatto quasi più
pesante. Sotto uno scampolo di stoffa verde qualcosa pulsava, come
infuso di luce propria. Jerome afferrò scampolo e oggetto,
se li nascose sotto il mantello e si issò sul davanzale
della finestra. La bambina era ancora immobile a lato della porta,
più sorpresa che spaventata.
- Voi siete… siete l’Ombra delle Calli!
– sussurrò alla fine.
- E tu non dovresti chiamare le guardie? – le risposte
Jerome, già pronto a saltare.
- Giusto. – la bambina corse nel corridoio. Jerome
sistemò il bottino sotto il mantello e planò in
piazza, tra le urla stupite di qualche maschera. Corse tra la folla
fino alle procuratie, scalò un palazzo e scomparve tra i
tetti.
- Quello non è cibo, Gustavo. – Marina
rimbeccò il pavone e gli tolse dal becco il calzino di
Jerome abbandonato sul divano. – Domani costruisco la tua
gabbia in cortile, si vede che qui in casa soffri.
- Domani quel pennuto sarà cotto e servito per cena,
altroché. – Edoardo era chino sul pezzo di legno,
che stava prendendo la forma di una maschera. La voce cavernosa aveva
espresso quel desiderio.
- Ma avevi detto che c’erano ancora piume avanzate e che non
serviva usare le sue! – Marina cinse in un abbraccio
protettivo il pennuto. – Scommetto che anche lo spiritello
dello smeraldo non lo vuole morto.
- Io sì. – Nerina smise di fare toeletta e
guardò il pavone con astio. Marina le fece una linguaccia,
il pavone emise uno stridio acuto e continuò a farsi
coccolare dalla bambina.
Jerome aveva un grosso libro aperto sulle ginocchia.
- Potrebbe essere un djinn,
il pezzo di legno e lo smeraldo componevano probabilmente il feticcio
tramite cui il djinn
è stato vincolato.
- Ovvio, per una volta che il committente della maschera non
è un vampiro millenario, a essere stregato doveva per forza
essere lo smeraldo. – Edoardo grugnì e diede un
ultimo ritocco alle cavità degli occhi. Lo smeraldo sulla
maschera pulsò qualche volta, animato di luce propria.
- Beh, non sarà certo peggio di quella volta del pesce e
dell’anello. – Jerome chiuse il libro e si mise ad
accarezzare Nerina.
Edoardo si asciugò le goccioline di sudore che gli bagnavano
le sopracciglia, prese lo smeraldo dal tavolo e lo incastrò
nella nuova montatura, al centro della fronte sulla maschera di legno.
Dallo smeraldo uscì una scia di luce verde e dorata assieme,
che si avviluppò in spirali prima di prendere possesso della
maschera. L’artefatto si librò in aria.
Il legno della maschera diventò verde incandescente, come se
l’avessero gettato in mezzo al fuoco. La luce si
concentrò negli occhi, che divennero color smeraldo, mentre
nelle venature del legno continuava a scorrere la luce, come fossero
vasi sanguigni. La maschera strabuzzò gli occhi,
sgranchì la mascella e provò qualche smorfia.
- Aaah, molto meglio. Ti sono grato, maestro mascheraio, per avermi
restituito un domicilio confortevole.
Lo spirito aveva una voce profonda, che sembrava avere fuse in
sé mille altre voci diverse. Marina fissava tutto con gli
occhi spalancati, Jerome rimaneva pronto vicino al caminetto. La
maschera se ne accorse e rise con la sua nuova voce: - Il fuoco non
servirà. Non ucciderei mai coloro verso i quali ho un debito
di riconoscenza. – fluttuò a destra e a sinistra,
come se lo spirito stesse esaminando la stanza. - Oh,
tutt’altra cosa avere due occhi veri. Le sfaccettature dello
smeraldo potevano farmi venire il mal di testa, per fortuna non avevo
una testa! Ohohohoh.
Splendido, uno spirito
fatato con un senso dell’umorismo tutto suo.
- Perché non hai avvertito subito che ti mancava il pezzo di
legno, quando sei venuto per la prima volta in casa nostra? –
Marina attirò l’attenzione della maschera.
- Dormivo. Mi sono risvegliato pieno di piume e ho pensato di farmi un
voletto. Poi mi sono accorto che non avevo più Tuka con me,
e proprio allora il pancione collerico mi ha portato di nuovo qui. Mi
perdonerai, ragazzo – fluttuò
all’altezza del viso di Jerome – per averti rubato
la coscienza per qualche tempo.
La maschera posseduta riprese a fluttuare in giro per la casa, sotto lo
sguardo del pavone Gustavo e di Nerina.
- Sì sì – la maschera annuì
– credo proprio che mi piacerà stare qui.
A Edoardo caddero gli occhiali sul tavolo.
- Stare qui?
- Resti con noi!
La voce squillante di Marina si sovrappose e coprì il suo
grido isterico. La bambina scese dalla sedia e afferrò la
maschera a volo, stampandole un bacio sulla guancia.
- E tu dì qualcosa! – piagnucolò
Edoardo in direzione di Jerome, che si limitò a fare
spallucce.
- Credo che, restituendogli la sua dimora, tu l’abbia anche
in qualche modo vincolato a te che l’hai creata.
Nerina borbottò: – Vincoli, trucchetti per spiriti
scrocconi.
Eustachio Zen era la persona più felice del mondo quando
uscì dalla bottega del mascheraio e tornò verso
campo san Barnaba, dove lo aspettava la sua gondola. Adagiò
sul fondo dell’imbarcazione la maschera riparata (avrebbe
giurato che lo smeraldo fosse diverso, il giorno prima), poi ci fece
salire il pavone (“si chiama Gustavo”, aveva detto
la bambina) a cui non era stata torta nemmeno una piuma.
- Sarai bellissimo sulla barca della dogaressina, Gustavo, -
accarezzò la testa del pavone, che gli rispose con una
beccata festosa.
Eustachio fece segno al barcaiolo che potevano partire quando, con la
coda dell’occhio, vide un uomo e una donna con i capelli
fatti di alghe e i vestiti di vecchie tele strappate. Si
voltò per osservarli meglio, ma c’era solo una
coppia di paesani agghindati per il Carnevale. Stavano confabulando tra
loro, le facce rivolte alla bottega del mascheraio.
- Sicuro che sia questo il posto? – la voce della donna
suonava distorta.
- È la casa dei Guardiani, impossibile sbagliarsi.
La gondola scivolò sull’acqua fuori dalla portata
della voce dei due. Eustachio Zen, ancora nella coda
dell’occhio, vide sotto la gonna della ragazza, celata dagli
strati di stoffa che di nuovo parevano brandelli di vele, una flessuosa
pinna argentea.
Carnevale! Speriamo
finisca anche quest’anno.
La tana di Otto
Questa storia, più di un anno fa, aveva partecipato a un
contest, di cui non ricordo il titolo, solo che bisognava parlare di
Venezia. Non avevo avuto cuore di pubblicarla allora, perché
aveva un pezzo centrale scritto in modo estremamente frettoloso. Adesso
va meglio, e quindi ho deciso di pubblicarla prima della fine del
carnevale.
Come va presa? Come una sitcom, direi!
Edoardo, Jerome e Marina sono personaggi abbastanza vecchi, riciclati
ad hoc per l'occasione.
Godetevi il carnevale!
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