Nota legale: Non
intrattengo alcun rapporto - personale o lavorativo - con gli attori
citati.
Il qui presente
intreccio è da considerarsi proprietà esclusiva
dell'autrice; pertanto, non può essere riprodotto
- totalmente o parzialmente - senza il consenso di quest'ultima. Titolo
© MacBeth, 1606, William Shakespeare.
Avvertimenti:
slash, pochissimo lemon.
Note: Allora, Arthur
è nato a Birmingham. La madre Ellie era attrice di
teatro. Suona la tastiera e la chitarra e da giovane aveva una band
chiamata Edmund, in onore dell'omonimo personaggio delle Cronache di
Narnia. #WikipediaCHI?
This
Mess We Are In
Come sarebbe grigio il
filo della nostra vita
se non fosse
intrecciato con l'amicizia e l'amore.
(Thomas More)
Atto
I
Matt e Karen sono
stati inghiottiti dalla nebbia londinese – è una
città cannibale quella, aveva detto sua mamma stampandogli
un bacio in fronte prima della partenza da Birmingham.
Arthur aveva sorriso
accondiscendente e caricato la valigia sul treno, negli occhi tutta la
gioia che accompagna ogni nuova avventura.
Era sempre stato un
bravo bambino, non aveva mai combinato – troppi –
guai, ma quando si metteva in testa qualcosa, l’avrebbe
fatta, inutile opporsi: e lui aveva scelto di sfidare la grande
metropoli mangia uomini e diventare attore. Suo padre l’aveva
lasciato con questi affettuosi ricordi e l’augurio di
realizzare i sogni. E ricordandogli di chiamare casa una volta
arrivato, sennò chi la sente tua madre.
A distanza di quasi
cinque anni, Arthur non può ancora credere che entrambi i
pronostici dei suoi genitori si siano avverati: okay, della sua
magnifica carriera artistica non aveva mai dubitato, però i
vicoli di Londra si sono letteralmente divorati i suoi amici.
Ellie Darvill ha
sempre ragione.
Inizia così
a contare fino a dieci mentalmente, per rilassarsi, ma combattere con
Amy Pond e il Dottore, insieme, in Oxford Street e con tanto di saldi,
in una domenica uggiosa in cui no, lui non sarebbe mai uscito - nessuna
persona sana di mente lo farebbe – richiede una pazienza che
nemmeno un uomo stoico come lui possiede.
Si è
voltato giusto un attimo e – pouf! – quello stupido
moccioso, con tanto di fida assistente, è sparito per la
terza volta consecutiva in una mattinata.
Arthur si siede sulla
prima panchina che trova e si strofina gli occhi per la stanchezza: la
sera prima le riprese sono terminate a un orario improponibile.
Naturalmente, i
cellulari costosissimi dei due colleghi sono irraggiungibili. E non sa
nemmeno in che diavolo di traversa si trovi.
Perso e solo. Tanto
vale mettersi comodi e aspettare.
«’Thur,
Arthur» Karen gli sta tirando una manica gentilmente
«Ti sei addormentato».
Ci mette un
po’ ad assimilare.
In pubblico? Voglio
morire.
Si sveglia
completamente, già rosso per la vergogna, e due occhi
allegri lo fissano tra ciglia lunghissime.
Dietro una montatura
orribile.
Sono andati a comprare
degli occhiali. Li hanno visti in vetrina e Matt se
n’è innamorato, spiega la rossa.
«Ma tu non
avresti approvato la mia scelta – perché sei
noioso. Quindi non ti abbiamo detto niente.»
L’hanno
abbandonato per un paio di occhiali.
Rosa.
Quello che lo fa
più arrabbiare è che, sul viso tenero di Matt,
non stanno nemmeno così male.
Atto
II
Matt l’ha
trascinato a fare shopping.
Rimpiange anche che
Karen sia rimasta a casa. Sarebbe stata un ottimo sostegno morale o,
meglio, si sarebbe potuto lamentare con lei.
Invece adesso
è seduto su una sedia troppo scomoda, completamente solo e
sommerso da almeno otto paia di jeans.
Il suo accompagnatore,
come lo aveva presentato quando era passato a Birmingham per salutare
dopo un weekend in Irlanda – Ma Ellie non è una
donna stupida – canticchia allegramente dal camerino.
«Matt, ti
sentirà tutto il negozio se non la smetti e ci fermeranno
per le foto e tutto il resto, se si accorgono di noi» latra,
torturandosi le mani nervosamente.
Matt non lo fa
involontariamente, ma più gli suggerisce di mantenere un
profilo basso, più sembra essere una calamita naturale per
la folla, con la sua espressione birbante e i suoi modi gentili, sempre
pronto a firmare autografi e gridare cose stupide come “Bow
ties are cool” o “Geronimo!”, prendendo a
braccetto le fan entusiaste.
Mentre Arthur,
nonostante la gratitudine infinita che prova, ora come ora desidera
solo tornare nel suo appartamento e impiegare in modo più
fruttuoso il suo pomeriggio.
La sua testolina
capelluta sbuca dalla tenda, sentendosi chiamato in causa.
«Secondo me,
il primo che ci farà “scoprire” sarai tu
con il tuo starnazzare» strizza l’occhio nel dirlo,
perché questa faccenda del “non voglio che i
paparazzi violino la mia privacy quindi posso mettermi gli occhiali da
sole anche se piove” da parte di Arthur per lui non ha il
minimo senso. Gli sembra quasi di vivere in un film d’azione,
in cui il protagonista deve portare a termine la sua missione senza
farsi vedere dai cattivi di turno.
«Passiamo a
questioni più importanti: come mi stanno questi
calzoni?».
Arthur sta per avere
un embolo.
Nonostante questo si
alza con una calma inconsueta e si avvicina con fare critico
«Fammi vedere meglio».
Con uno scatto
atletico che appartiene più al centurione che ad Arthur, il
ragazzo s’infila nel camerino e cinge la vita di Matt,
premendo sulla sua coscia il suo principio di erezione.
«Non sono
male questi jeans» soffia al suo orecchio «ma
staresti meglio senza».
Se tanto bisogna
attirare l’attenzione, tanto vale farlo per un motivo valido.
Atto III
Sta piovendo, nessuna
novità.
Una pioggia fitta e
tagliente come aghi di vetro e – stranamente –
silenziosa.
È
piacevole, la pioggia di Londra, ha un che di materno, è
mite e metodica come le cose che piacciono ad Arthur.
Infatti ad Arthur
piace la pioggia. Da sempre.
Da bambino saltava
nelle pozzanghere davanti al vialetto oppure insieme a sua sorella
cercava le lumache nel giardino del nonno, tra le petunie rigogliose di
un rosa pallido e i boccioli delle gardenie.
Da adolescente,
invece, aveva scoperto che la pioggia è
l’accompagnamento perfetto per le note nostalgiche della
chitarra: spesso era in tournée con la compagnia della
madre, lontano da casa e da suoi amici.
Qualcuno,
però, sta rovinando il suo angolino di
tranquillità in questo tempo sospeso, rubato alle riprese.
Dolce, meritato nulla.
Il ragazzo alza gli
occhi dal libro che sta leggendo, completamente stravaccato sul divano
del proprio appartamento.
«Se avessi
veramente una Tardis, ce ne saremmo andati da un bel pezzo, in un posto
meno nuvoloso. Che ne so, il Sole. O Mercurio. Ci saranno le nuvole su
Mercurio?» sul tappeto ai suoi piedi, Matt ha il broncio.
«Perché
non fai qualcosa per distrarti? Guarda la Tv» gli passa il
telecomando incoraggiante, per ricevere poi un’occhiataccia
«L’antenna ha iniziato a fare i capricci
mezz’ora fa, te l’ho anche detto. Ma tu eri troppo
impegnato a leggere quello stupido libro per la milionesima
volta».
«Aspetta,
aspetta: Le Cronache di Narnia non sono uno “stupido
libro!”. Sono una scuola di vita. Tutti dovrebbero
leggerle!».
Arthur ha la voce un
po’ più acuta del normale, quindi Matt decide di
ritrattare l’affermazione, tirandosi su a sedere accanto a
lui e fingendosi interessato.
In realtà
il suo vero intento è stendersi addosso al fidanzato e
rubargli un angolo del plaid.
«Ma quindi
non ho capito: Edmund è un traditore ed è il tuo
personaggio preferito?»
Il minore sorride nel
cercare di comprendere la logica di Arthur, ormai incantato ad
accarezzargli il pizzetto biondo del mento.
L’altro
continua a blaterare dell’evoluzione del personaggio e tutto
il resto, ma ormai Matt si è accomodato tra le sue braccia e
ha iniziato a riempirgli il viso di baci infantili.
«Ti piace
così tanto, la mia barba? Karen mi ha detto di
tagliarla».
«In
realtà» scende a succhiargli il lobo di un
orecchio «stavo pensando» un brivido attraversa la
schiena del compagno «Che già il solo fatto di
avere la barba, dimostra come tu sia troppo grande per leggere i libri
di C.S. Lewis».
Per Arthur Matt non
capisce niente di letteratura.
Glielo dirà
domani.
|