Because
of you.
[Prologo]
(Piccola,
infima nota di inizio testo. Tanto per.
Questa storia, benché scritta male - a mio parere, se voi
lettori la apprezzate mi fa piacere XD -, ha avuto l'onore di finire
tra le
Storie Scelte del sito.
Ora, mi sono trovata nell'imbarazzante situazione di, come dire?
Insomma, la storia non è granché però
c'è finita.
Mi sentivo un po' in obbligo, e ho pensato di rivederla. Almeno un
pochino ino ino. <3
Ciò significa che questo testo è in revisione, e che ci
resterà finché non terminerò il mio
lavoro. Bon, grazie mille a tutti voi. U____U
Vi voglio bene, carissimi.)
«L’hanyou
correva veloce per la foresta, inebriato dal
profumo del vento – era un aroma dolce, delicato.
L’hanyou lo inspirò con
gusto.
Sorrise,
fermandosi a
guardare un albero
secolare della foresta: era un ciliegio, antico, ben saldo nel terreno.
Una
pianta maestosa, bella a vedersi.
A un tratto, una cadenza di passi familiare attirò la sua
attenzione. Lei, era lei! Era lei!
Si voltò di scatto, un sorriso sghembo sulla faccia, il suo
nome sulle labbra;
allungò una mano nella direzione della donna, invitandola ad
avvicinarsi, e
mormorò qualcosa sovrappensiero. Era lei, lei!
“Ehi”,
la richiamò. “Cosa –
l’arco?”.
La freccia
saettò nell’aria prima che l’hanyou
potesse controbattere – un istante, e il corpo del giovane
sbatté con forza
contro il tronco dell’albero, e ivi restò
imprigionato.
“Kikyo”,
fu il suo ultimo mormorio. Poi
più nulla, era finita».
Kagome si
zittì, alzando gli occhi dal
libro e osservando di sottecchi la professoressa, una donna sulla
quarantina,
con vividi occhi celesti semichiusi e lunghi capelli castani tenuti
fermi in un
rigido e professionale chignon.
Era una donna
frivola, quella, e priva del
senso dell’umorismo. Una donna fastidiosa e poco propensa ad
accettare gli
scherzi, che per anni aveva cercato di sfondare come attrice e che
s’era
ritrovata abbandonata in un angolo, sola.
«Grazie,
Higurashi», le disse. «Sei stata
impeccabile, te lo concedo. Un buon lavoro, si nota il tuo affetto per
quello
stupido testo e il tuo sciocco attaccamento per quelle parole; lo si
nota
davvero».
Kagome
annuì secca, gettando poi un’occhiata
nervosa alla classe – meglio far silenzio, meglio.
Meglio non
far notare
alla professoressa
che quel testo non era stupido, che
quelle parole non erano sciocche,
che
amare quella leggenda non era
ridicolo. Anzi, tutt’altro.
Ma era meglio
tacere,
oh sì. Meglio far
finta di nulla.
«Decisamente
brava, non capisco perché ti
rifiuti di partecipare al corso di teatro».
Forse
perché di non le interessava far parte di un
gruppo di deficienti.
«La
ringrazio», biascicò. «Posso tornare a
posto, vero? Grazie».
Qualcuno
azzardò un’occhiata
compassionevole nella sua direzione, come a prenderla in giro, e
qualcun altro le
ridacchiò dietro. Nulla di straordinario, in effetti, dato
che in ogni classe
del mondo esistono deficienti simili.
E comunque, a
lei non
interessavano i
commenti estranei. No di certo.
Si
lasciò
ricadere sulla sua sedia,
socchiuse gli occhi e si impose di non ascoltare – il nuovo
lettore non doveva
aver studiato, oh no, perché balbettava incerto due parole
su tre.
«Kagome-chan,
mi presti una matita?».
«Eh?
Sì, certo». Sorrise, incerta, poi
allungò l’astuccio a Eri, la sua compagna di
banco. Era simpatica, Eri, e anche
piuttosto graziosa, e poi non la criticava mai per i suoi gusti
anticonvenzionali.
Il fatto di
amare
visceralmente un libro
per bambini non era poi così umiliante. O almeno, non
avrebbe dovuto essere
così umiliante.
“Leggende
del regno di Goshinboku” era un
libricino di trecentoventisette pagine, rilegato con cura, poco costoso
ma
molto interessante.
Parlava di
hanyou, di
youkai, di ningen e,
beh, dei rapporti tra le diverse specie – descriveva i modi,
barbari e
inaccettabili, con cui gli hanyou erano torturati dalle loro stesse
famiglie, e
i loro assassinii.
C’erano
tante storie, in quel libro, e
molte di esse risultavano piacevoli, amabili; c’erano tante
storie, in quel
libro, e molte di queste turbavano il cuore del lettore, lo
spaventavano.
Kagome ne
amava una
in particolare, ed era
forse la più drammatica dell’intero volume.
InuYasha era
il
secondogenito dell’ultimo
re del regno di Goshinboku, un hanyou dai capelli d’argento e
gli occhi d’oro –
lo si descriveva bello, spaventosamente avvenente, ironico, e si
narrava che
questi si fosse invaghito di una sacerdotessa umana, Kikyo.
Ma era un
hanyou,
lui, e poco importava
che fosse l’erede di quel regno selvaggio e ormai disabitato:
sarebbe morto, e
sarebbe stata Kikyo ad eliminarlo.
Era la
leggenda
più triste, quella, e la
più spaventosa, ma Kagome la adorava –
sobbalzò, immaginando la scena. Sobbalzò
quando vide le mani di Kikyo, di quella
finta di Kikyo, stringere con forza l’arco e
puntarlo contro il suo amato,
e raggelò ancora quando l’InuYasha dei suoi sogni
sbarrò gli occhi e si trovò
conficcato all’albero.
«Ahi».
Oh. Uhm, un
bigliettino.
Si
guardò
intorno, indecisa, e poi lo aprì
di scatto. Era di Sango, ovvio – era di Sango e la incitava a
far finta di
nulla. Era di Sango, di quella Sango che era la sua migliore amica e le
voleva
un bene dell’anima, di quella Sango tanto dolce e simpatica.
Si
voltò
appena, sorridendo, e mimò un:
«Grazie».
L’altra
le
fece appena un cenno del capo,
poi si alzò. «Sì, professoressa, certo
– leggo io, ovvio. Mi dia il tempo di
raggiungere la cattedra».
Oh. Ah, era
il suo
turno di leggere.
Era stanca. Stanca.
E le doleva
la testa.
E aveva sonno. E la
professoressa continuava a parlare e parlare e straparlare, come se
fosse
interessante.
Per la
cronaca, le
fischiavano anche le
orecchie – perché sì, Eri era
simpaticissima, ma leggeva da schifo. E che
diamine, poi!
«Professoressa»,
rantolò, «mi gira la
testa».
«Ah»,
commentò la donna, guardandola.
Boccheggiò qualche istante, come se stesse cercando una
risposta abbastanza
soddisfacente, e poi le fece cenno di uscire. «Non voglio
malati, qui».
Kagome non
aveva
nulla da obiettare. «Posso
andare, uhm, a risposare, quindi?».
Non che non
le
facesse piacere. No davvero.
Poteva
portarsi le
Leggende dietro, e
leggere. O sonnecchiare un po’ e pensare ad InuYasha, e
concedere del meritato
riposo ai suoi neuroni, stanchi e spossati.
«Certo»,
la professoressa alzò le spalle,
«come no. Mica sto spiegando qualcosa di importante, oh no,
certo che puoi
andare!». Si portò teatralmente una mano sulla
fronte e sollevò gli occhi verso
il cielo. «Non mi si spezzerà il cuore, Higurashi,
no davvero, va’».
«…grazie»,
azzardò Kagome, alzandosi.
«Dopo chiederò gli appunti a Sango, glielo
prometto».
La donna non
disse
nient’altro.
«Buongiorno,
sono qui perché mi fa male la
testa. La prof ha detto che posso restare».
«Ah».
L’infermiera
era il classico tipo da
le-ragazzine-più-giovani-di-me-mi-irritano.
Una bionda
ossigenata
con due occhi
azzurri e una faccina piccola e coccolosa, di quelle che ti sembrano
carine sì,
ma solo per i primi cinque minuti, perché in breve di
rivelano troie bastarde.
Non le chiese
cosa
avesse e non le propose
alcun medicinale, ma si limitò ad indicarle un lettino vuoto
e biascicare: «Fatti
una dormitina, cara». Il fatto che l’affermazione
ricordasse tanto una minaccia
era preoccupante, in effetti.
«D’accordo».
Kagome alzò le spalle e
sollevò la coperta. «Resterò qui sino
alla fine delle lezioni, credo. Potrebbe
svegliarmi?».
L’infermiera
la guardò appena. «Sì, certo.
Proverò a ricordarmi che una piccola
allieva riposa nel terzo lettino della fila a destra, certo. Ma tu
riposa, piccola allieva; ah, cerca
di non russare.
Nel caso, mettiti a fare altro, preferirei non essere
disturbata».
Bene, di male
in
peggio – Kagome tirò
fuori dallo zaino il libro e lo depose sul comodino, indecisa sa
aprirlo, e
concedersi una meritata rilettura del testo, o provare a riposare.
Beh, provando
a
riposare rischiava di
restare bloccata in infermeria.
…e
non era
piacevole, no davvero. Quindi
aprì il tomo e se lo sistemò sulle gambe,
osservando deliziata le
illustrazioni: erano fatte bene, curate nei minimi particolari,
ispirate a ritratti
reali del sovrano e dei suoi figli.
Poteva
andare a pagina due, e guardare il disegno di
InuYasha da bambino.
Era un
quadretto
così carino, quello, che
Kagome finiva sempre coll’osservarlo deliziata – un
bambinetto con delle
orecchie da cagnolino circondato da centinaia di giocattoli, ecco
com’era l’InuYasha
infante. Nient’altro che un neonato.
Lo immaginava
gattonare per il castello,
magari inseguire Sesshomaru, il suo detestato fratellastro, o
addormentarsi tra
le braccia della regina Izayoi, il respiro pesante di un bambino stanco
e
felice.
Forse avrebbe
fatto
bene anche lei a
riposare. Oh, sì.
Forse avrebbe
fatto
bene ad prendere
sonno, almeno per un po’. In fin dei conti, che male poteva
farle, dormire un
po’?
Chiuse gli
occhi. Ecco.
«Kagome-chan?
Ehi, Kagome? Guarda che è
ora di andare».
«Mh?».
«Svegliati,
dai. C’è InuYasha fuori dalla finestra!».
Spalancò
gli occhi, si mise a sedere e per
poco non cacciò un urlo – ah, sì, non
che si aspettasse davvero di vedere
InuYasha, eh. Era solo – niente di importante. Scosse il capo
e guardò Sango.
«Perché mi hai aspettata? Potevi andare. Non
c’era bisogno di restare qui».
«Oh,
invece
sì. Era l'unica soluzione»,
sospirò l’altra, «non voglio che tu cada
in un tombino perché impegnata a
leggere quelle sciocche leggende. Sì, so che le ami
visceralmente, ma
riconoscerai anche tu che sono leggermente stupide. E una sacerdotessa
non
dovrebbe prendere tanto in considerazione certe storielle».
«Storielle?».
Kagome inarcò un
sopracciglio. «Non sono
storielle.
Sono leggende del regno di Goshinboku», guardò
Sango intimandole di non
interferire, «il regno di Goshinboku, il nostro
confinante».
«Non
deve
importarci. Il nostro re si sta già
occupando della situazione».
«Quell'incapace?»,
rantolò Kagome,
sdegnata – il loro re, eh? Quel deficiente che non faceva
altro se non
ingozzarsi e ordinare all’esercito di procurarsi nuovi
armamenti?
E cosa stava
facendo,
di grazia, per
aiutare le sorti della dinastia Taisho?
«Sango,
quello non sa fare nulla. Il regno
di Goshinboku è allo sfascio e…».
«Ma
noi
siamo due adolescenti e non
possiamo fare nulla, quindi smettila di fare la bambina».
«Parlerò
con il re». Kagome strinse i
pugni, poi rivolse un’occhiataccia all’amica.
«Parlerò con il re, okay? E
otterrò di poter fare qualcosa. Del resto, il mio tempio ha
un forte ascendente
su di lui-».
L’altra
alzò una mano, interrompendola:
«Non oserai! Non dire cavolate, non puoi. È
inaccettabile. Se il regno di
Yoshi, ovvero il nostro, si schierasse dalla parte di quello di
Goshinboku, il
regno di Asu avrebbe una ragione per sentirsi minacciato e dichiararci
guerra».
«Il
regno
di Asu è un regno di barbari»,
commentò aspra Kagome, alzando gli occhi verso il cielo.
«Non sanno neppure
allacciarsi le scarpe. Se noi – siamo i più
evoluti, no? – ci schierassimo dalla
parte di Goshinboku, allora potremmo vincere».
«Anche
il
regno di Asu è adeguatamente
evoluto».
«…e
tu chiami evoluto un regno dove la
libertà di culto è
un’utopia?», rantolò.
Argh. Lei
adorava
Sango, la adorava
tantissimo, ma a volte c’erano cose che proprio non le
andavano giù, e quella era una
cosa che proprio non riteneva giusta.
Insomma,
consentire
che vi fosse ancora un
posto dove la legge del taglione era la cosa più importante,
e dove gli hanyou
erano considerati alla stregua di un criminale era inaccettabile.
Ed era
inaccettabile
che due amanti
fossero costretti ad uccidersi l’un l’altro.
Non che a
InuYasha
non fosse successa la
stessa cosa, eh. Ma almeno, il regno di Goshinboku aveva perso il suo
ultimo
sovrano duecento anni prima, ed era ormai allo scatafascio.
Sango
sospirò. «Kagome, ti prego, sta’
calma. Siamo arrivate a casa tua, non vorrei che tuo nonno mi
minacciasse con
una scopa».
«Ah».
«Beh,
io
devo andare. E tu devi
esercitarci con l’arco, se non erro».
Kagome le
sorrise
appena, poi fece un
passo indietro – qualche attimo o giù di
lì, ecco. Le ci vollero pochi istanti
perché scomparisse oltre i confini del tempio.
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