Art
Disclaimer: come al solito...Non è a scopo di lucro, non è vero e non è uno scritto redatto al fine di offendere i protagonisti, con il quale non ho alcun rapporto nella realtà. E sempre come al solito...Enjoy it XD!
Art for art’s sake
Le molle della poltrona scalcinata del soggiorno mugolarono di
disappunto quando Helena si lasciò cadere a peso morto sul
cuscino sgualcito che la decorava stancamente con la sua stinta
fantasia floreale.
Era come se il mobile lamentasse la stessa stanchezza della ragazza che ne stava usufruendo.
Quel giorno Helena era letteralmente a pezzi.
Sospirando, cinse le proprie tempie con le dita, massaggiandole
circolarmente nella speranza di spazzare via il mal di testa incipiente
che la affliggeva.
Gesto inutile : la ragazza era fin troppo consapevole del fatto che
quel dolore leggero presto sarebbe sfociato in un’emicrania
lancinante.
Nonostante i suoi piedi gridassero di protesta, Helena si alzò
lentamente dal suo posto per recarsi nella piccola cucina del proprio
appartamento.
Di quel locale, appena illuminato dalla luce di un sole ormai fin
troppo vicino alla linea dell’orizzonte, un dettaglio in
particolare attirò l’attenzione della ragazza.
Un cesto posato con cura al centro del tavolo colmo fino all’orlo di mele rosse e luccicanti.
Nonostante fosse esausta, non potè trattenere un sorriso di fronte a quello spettacolo.
Una natura morta caravaggesca persa nell’acciaio che imperava in
quella squallida cucinetta per il quale l’affittuario si faceva
pagare fin troppo.
Una goccia d’arte affogata nell’untuosa pozza della realtà circostante.
Quasi le dispiacque quando si trattò di smontare
l’equilibrio perfetto di quei globi rossi e lucenti per rubarne
uno.
Fece rimbalzare la mela sul palmo un paio di volte, distrattamente, e uscì dalla stanza per tornare in soggiorno.
Bypassò completamente la lusinga consunta che la poltrona e il
divano stavano offrendo alle sue gambe pesanti per fermarsi di fronte
ad una parete dell’ambiente.
Una parete molto particolare…
La carta da parati quasi non si intravedeva più, coperta
com’era da decine e decine di foto : piccole o grandi, a colori o
in bianco e nero che fossero, il soggetto rappresentato era sempre e
solo uno, e in una delle foto più grandi risaltava in tutto il
suo splendore.
Un uomo, assorto in chissà quali pensieri che lo spingevano ad assumere un’aria stranamente corrucciata.
Helena sorrise di nuovo.
Adorava quell’espressione sul suo volto.
Le palpebre abbassate, due ventagli di ciglia nere proiettati verso i suoi zigomi, le labbra piegate in una smorfia concentrata.
Il bianco e nero estrapolava quella figura affascinante da ogni contesto temporale, rendendolo irreale, perfetto ed eterno.
Helena non faticava a pensare che la bellezza fosse davvero
l’unica forma di Genio esistente, come aveva letto tante volte
sul suo romanzo preferito.
Ne aveva la prova davanti agli occhi proprio in quell’istante.
Era stato divertente il modo in cui il caso le aveva fornito su un
piatto d’argento quella splendida apparizione, trasformando una
delle giornate potenzialmente più nere della sua vita in un
momento di esaltante epifania.
Come tutte le mattine, si era recata alla sede della rivista
scandalistica presso il quale malvolentieri lavorava ( sottopagata )
come fotografa.
Non era per sfoggiare sterili snobismi che Helena ci tenesse a
puntualizzare con chiunque di essere costretta da diversi fattori ad
essere un paparazzo, ma solo per prendere le distanze da
quell’attività che a suo parere sviliva il contenuto
dell’arte della fotografia.
Fermare il tempo. Abbellire l’attimo catturato, rivestendolo a nuovo delle proprie emozioni, dei propri ricordi.
Dare ad un avvenimento un punto di vista solo apparentemente impersonale.
Perché anche solo un cambiamento climatico, un raggio di luce in
più o uno in meno potevano concorrere a fornire
un’interpretazione del tutto differente del soggetto fotografato.
Ma a fotografare vip più o meno conosciuti non si faceva nulla di tutto ciò.
Le vite di quella gente apparivano offuscate, a grana grossa,
imbruttite dal teleobiettivo invadente e becero che detestava
maneggiare a quel modo.
Quel giorno il suo capo l’aveva chiamata nel suo ufficio per la
solita, noiosa, irritante ramanzina sulla propria incompetenza e
mancanza di dedizione al lavoro, minacciandola con un dito grassoccio
puntato verso il suo naso :
- …sai quanto non mi piacciano questi tuoi capricci da artistoide fallita, Berg. Cominci seriamente a darmi sui nervi.-
Helena aveva raddrizzato la colonna vertebrale per affrontare con rigida determinazione quell’essere rivoltante.
- Artistoide? Forse. Ma fallita mai, signore.- affermò la
ragazza forse con un filo di enfasi, che attirò una risata di
scherno da parte del suo interlocutore, prima che riuscisse a replicare
fra un singhiozzo o l’altro : - Già, già… Se
ti licenziassi potresti tentare la carriera teatrale, sai? Di sicuro
avresti più speranza di diventare attrice che fotografa
professionista…-
- Mi creda, ne sono pienamente consapevole… Altrimenti non sarei
ancora qui.- sibilò sarcasticamente Helena, abbassando lo
sguardo sulle proprie scarpe – consunte e solcate da minuscole
pieghe sulla punta, testimoni della miseria nera nella quale versava
– per non essere costretta a fissare negli occhietti porcini il
suo datore di lavoro, che nel frattempo si era issato a fatica dalla
poltrona dalla quale di solito sembrava incapace di scollarsi per
avvicinarsi, seppur di poco, alla ragazza, mormorando con tono
insinuante – il suo solito tono insinuante da maniaco porco
debosciato e viscido : - E pensare che io ho tante di quelle
conoscenze, nel campo… Se solo ti decidessi ad essere un
po’ più gentile con me potrei provare a…-
- Non aggiunga una parola.- lo zittì Helena quasi ringhiando, in preda al disgusto.
Non sopportava che la trattasse così ogni fottuta volta. Non
sopportava quel suo modo di alitarle sul collo, quel suo modo di
svilire le sue aspirazioni ed aspettative tentando di barattarle con
del sesso facile.
Non lo sopportava più.
- Credi di essere nella posizione giusta per poter dettare legge,
Helena…?- sorrise mellifluo l’uomo, allungando una mano
per intrecciarne le dita sgraziate fra i capelli scuri della giovane :
non ebbe il tempo di ritrarsi, quando lo schiaffo di Helena
saettò a colpirgli una guancia rubiconda, appesantito da tutta
la rabbia e la forza che la ragazza era riuscita a radunare da ogni
angolo del suo corpo.
Lo schiocco sonoro del gesto le sembrò il rumore più agghiacciante che avesse mai udito in vita sua.
Non era nemmeno lontanamente paragonabile a quel “Non farti
più vedere in questo edificio, puttanella da quattro
soldi” con il quale quel gentiluomo del direttore la stava
liquidando in quel momento.
…mai un insulto le era parso avere un suono più dolce.
Un gruppetto di bambini giocavano sullo scivolo, impolverati, con le
ginocchia sbucciate e un sorriso perenne sui volti sereni e sudati.
Helena, seduta su una panchina poco lontana, sorrise suo malgrado di
fronte a quello spettacolo di gioia e spensieratezza, carezzando
affettuosamente la sua macchina fotografica come fosse un gatto
addormentatosi sulle sue ginocchia.
Avrebbe dovuto essere tesa, triste e preoccupata per il suo futuro, per
il fatto di aver perso l’unico barlume di ( seppur squallida e
ripugnante ) stabilità della sua vita, per non parlare della sua
sola fonte di sostentamento, per quanto magra fosse… Ma anche
sforzandosi di setacciare le sue emozioni alla ricerca di una qualche
traccia di negatività, Helena non riusciva a trovarne neanche
una briciola : era anestetizzata da una sensazione di libertà
che la pervadeva tutta in un moto di felicità pura e cristallina.
Una felicità fanciullesca, come quella di quei bambini laggiù.
La giovane reclinò il capo, chiudendo gli occhi : per ora le andava bene così.
Anzi, con un bel cappuccino dello Starbucks che si trovava di fronte all’entrata del parco sarebbe stato ancora meglio.
Con il bicchierone di cappuccino ormai quasi vuoto in mano, Helena
passeggiava per il marciapiede a passi lenti, godendosi la limpida
freschezza di quella mite giornata di fine inverno e guardandosi
attorno, incuriosita di volta in volta da un dettaglio diverso : il
barbone spiritoso che esponeva un cartello per l’elemosina che
recitava a caratteri cubitali : “Ho bisogno di soldi per
mangiare, con i bottoni ed i gettoni telefonici non ci faccio nulla,
grazie!”, il gatto pezzato di rosso, nero, grigio e bianco che
sonnecchiava a pancia all’aria sul davanzale di una
finestra…
L’uomo sottile e vestito di nero che sostava di fronte ad un
portone enorme, accendendosi una sigaretta con espressione indifferente.
Il sole lo illuminava in pieno, disegnandone con la propria luce i
lineamenti fini ed armoniosi ed il contrasto fra la sua carnagione
impeccabilmente pallida e i vestiti, i capelli e gli occhiali
completamente neri.
Helena si voltò per guardarlo di nuovo, dopo averlo superato nel suo cammino.
Bello. Non il nonplusultra della mascolinità, ma davvero bello, e sicuramente consapevole di esserlo.
Insomma, sembrava essersi messo in posa, come se attendesse da un
momento all’altro di venire immortalato in foto… Non era
un atteggiamento da persona insicura.
…forse era un modello?
Bè, ad essere sinceri non credeva che la sua statura fosse
sufficiente a farlo ingaggiare come modello da un’agenzia di moda.
Un vero peccato, perché probabilmente doveva essere anche molto fotogenico.
Senza che Helena se ne avvedesse, le dita della sua mano libera avevano
artigliato la macchina fotografica che portava a tracolla, in una muta
ed inconfondibile richiesta.
La luce era ottima… Lui sembrava ignaro della sua presenza,
continuando a fumare la sua sigaretta ormai dimezzata tra un tiro e
l’altro…Bastava azzeccare il momento in cui non vi fosse
stata troppa gente di mezzo fra loro due…
Helena sentì la frenesia salire a passi incessanti dentro di lei.
Bevve l’ultimo goccio di cappuccino rimasto nel bicchiere di plastica per poi gettarlo in un cestino accanto a lei.
Tolse il tappo all’obbiettivo, afferrò saldamente l’apparecchio con entrambe le mani…
Clic!
Immersa nella luce rossastra dello sgabuzzino dell’appartamento
adibito a camera oscura, Helena aspettò con impazienza che il
volto dell’uomo emergesse dai flutti della vaschetta nel quale
aveva affogato il piccolo rettangolo di carta che si sarebbe presto
trasformato in una fotografia vera e propria.
Eccolo!, si disse la ragazza esultante quando finalmente l’immagine divenne nitida.
Lui, in tutto il suo splendore.
Così, sotto il bizzarro chiarore cremisi della stanza,
battezzata da una miscela di composti chimici, era venuta alla luce
quella che in tanti avrebbero potuto definire la propria ossessione.
Di certo quell’attrazione ne aveva tutti i tratti tipici.
Di lui non sapeva nulla. Ma proprio nulla di nulla.
L’unico risultato che aveva ricavato dai suoi dilettanteschi
appostamenti era che praticamente ogni giorno, alla stessa ora, lui
usciva fuori dal portone di quello stabile, si accendeva la sua brava
sigaretta, consumandola in cinque minuti al massimo, e poi tornava
dentro, a far solo Dio sapeva che.
Il resto aveva dovuto scoprirlo attraverso i giornali e le emittenti
radiofoniche che ascoltava di solito ( visto il suo totale disprezzo
per il tubo catodico ).
Non sapeva che lui fosse famoso. Neanche lo sospettava.
Aveva imputato quello strano senso di familiarità che gli
ispiravano i suoi tratti a qualcosa di molto più
“aulico”, molto più etereo e sottile…
Lo aveva riconosciuto come sua Musa.
Come se lo conoscesse da sempre, come se il suo cuore avesse accelerato
i suoi battiti la prima volta che lo aveva incontrato per avvisarla del
fatto che…Era lui.
Lo aveva eletto come sua fonte di massima ispirazione artistica...
…trovarselo spiattellato sulla copertina di un settimanale
scandalistico era stata un po’ una delusione, di conseguenza.
Scoprire che il suo volto era passato sotto la lente distorta di un
teleobiettivo da paparazzo le aveva fatto ribollire il sangue nelle
vene dalla rabbia, pur comprendendo quanto fosse sciocco irritarsi per
qualcosa di simile.
Ma la sua Musa era stata deturpata ed appiattita, e non poteva fare a
meno di provare quel sentimento furibondo dentro di sé.
Per questo aveva seguitato a fotografare l’uomo da diverse
angolazioni, con diversi filtri ed espedienti che le costavano davvero
tanto, forse troppo.
Ma rinunciare al pranzo o alla cena non le era mai sembrato tanto
facile, in cambio dello scatto perfetto, in cambio dell’Arte con
la “A” maiuscola.
Ogni guizzo del suo sguardo, ogni piega assunta dalle sue labbra le
parlava di uno stato d’animo diverso, e ad ogni nuova foto le
pareva di conoscerlo meglio…
Quando poi era riuscita ad associare il suo volto alla sua voce,
credette di averlo finalmente catturato in tutta la sua essenza.
L’immagine perfetta abbinata alla voce perfetta : distaccata, e un po’ narcisista…Come lui.
Helena tornò al presente, e alla sua mela color rubino che
ancora splendeva debolmente nell’ultimo fulgore del crepuscolo
che stava fuggendo via dal soggiorno.
Non accese la luce, la penombra le sembrava una compagna più
consona da abbinare ai suoi pensieri, anche se la allontanava da lui,
impedendole di vederlo…
D’altronde era abituata a restare nell’ombra, lei.
Era il suo compito, e non le dispiaceva poi tanto.
Dal buio possono nascere anche cose belle, pensò Helena con un lieve sorriso malinconico.
Se non ci fosse il buio sarebbe impossibile vedere le stelle.
La giovane si avvicinò alla parete delle foto, gli occhi puntati ancora sulla stessa di prima.
Allungò una mano, e le sue dita planarono come piume sulla
guancia dell’uomo in una carezza inutile, poiché
quest’ultimo non l’avrebbe mai avvertita sulla sua pelle.
La sua pelle… Che consistenza avrà mai avuto?
E i suoi occhi? Dal vero avranno brillato della stessa luce che ostentavano sulla pellicola?
Non aveva una risposta a quelle domande… Ma non le era mai importato, prima d’allora.
Forse era solo stanchezza, forse erano solo quelle dannate gambe gonfie
e doloranti, forse era il fatto che quell’appartamento, come il
suo cuore, non le era mai sembrata tanto vuoto, e buio…Ma senza
nessuna stella a cui offrire il proprio colore come sfondo.
Le cadde la mela di mano, rotolando verso un angolo lontano del soggiorno, ma non ci badò granchè.
L’Arte, le Muse, lo Scatto Perfetto… Quella sera le
sembravano davvero solo invenzioni stantie ed inutili, di fronte alla
voglia che le era presa di toccare, assaggiare, carezzare
lui…Brian. Per una volta lo avrebbe chiamato con il suo nome.
Helena si sedette pian piano a terra, ed ebbe la sensazione in quel
modo di stare immergendosi lentamente nel buio sempre più
profondo della sua casa.
Era così che avrebbe passato la sua esistenza? Persa nelle
tenebre di quell’appartamento sgangherato, nel buio rassicurante
ed alienante della piccionaia dalla quale assisteva quotidianamente
alla ridicola messinscena della sua vita?
- No.-
Ebbe bisogno di pronunciarlo ad alta voce, per crederci veramente…
- No.-
…e dovette ripeterlo ancora una volta, per capire che…
- No.-
…che era vero. Che la sua vita non sarebbe sempre rimasta
così, che quella stasi inconcludente sarebbe finita per sempre a
partire da – perché no? – quella sera stessa.
Ricominciare da zero non le faceva paura, perché sapeva quale
sarebbe stato il suo punto di partenza…E il suo punto
d’arrivo.
Si rialzò in piedi, aguzzando la vista per intravedere la debole
macchia lattescente del volto dell’uomo, della sua ex-Musa
disegnata contro il muro che si faceva sempre più scuro col
passare dei minuti, e con tono di sfida alzò il mento,
esclamando : - Ti conquisterò, Brian Molko.-
Dopodiché allungò un braccio verso il vicino interruttore del lampadario principale, e accese finalmente la luce.
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