Armin darebbe un
braccio per sapere cosa Jean gli dica ogni tanto nella sua lingua.
Ci prova, davvero,
ci prova a cercare assonanze, a chiedere ad altri cosa vogliano dire
quegli improvvisi sbalzi tra tedesco e francese che sembrano
diametralmente opposti.
Il tedesco rigido e
ordinato scivola sulla lingua del ragazzo con una sicurezza che
sembra sciogliersi in tutt'altro quando passa al francese, più
dolce, lento e, spesso, sensuale.
C'è una luce
diversa nel suoi occhi, quando passa da una lingua all'altra. Se non
altro, guarda lui in modo diverso. E alle parole si accompagnano
gesti diversi, mani strette prima di una missione o appena sfiorate
quando si trovano isolati dal mondo ed improvvisamente in uno stato
di sicurezza come non provavano da tempo.
Ma puce. È
quello che ripete più spesso, in fine di frase o come una
specie di punteggiatura in mezzo a frasi altrettanto incomprensibili.
È il tono tenero a farlo arrossire, mentre Jean gli sfiora una
guancia ed ha il coraggio di guardarlo negli occhi.
Armin è
convinto che potrebbe insultarlo e prenderlo comunque come una frase
tenera, in quel momento.
Questo finché,
ripulendo il rifugio in cui si sono isolati dopo la fuga, non sente
Oh putain de merde! con una
convinzione che non lascia dubbi su quanto abbia fatto male darsi una
martellata sul dito. Nonostante questo, deve reprimere una risata
quando lo porta fino al pozzo per immergere la mano.
La
sua espressione è comica, tutta corrucciata per il dolore e
l'ego ferito.
Vorrebbe
essere capace di allungare la mano verso il suo viso e dire qualcosa
di dolce come suonano solitamente le sue parole, ma lo sfiora
soltanto, sorprendendolo.
Fa
un sorriso nervoso, aprendo appena la bocca e corrucciandosi a
propria volta. Non ricorda nulla, all'improvviso ed abbassa la
testa.
“Mettiamo
delle erbe su quel dito.”
“...il
y a longtemps que je t’aime, jamais je ne t’oublierai.”
Se
potesse esprimersi in una lingua che Jean non capisce, Armin sa che
sarebbe capace di dire qualcosa di tenero e più simile a
quello che prova. Non ci sarebbe l'imbarazzo di un eventuale rifiuto,
non ci sarebbe la paura mai completamente sopita di essere preso in
giro per i propri sentimenti.
“Chante,
rossignol, chante, toi qui as le coeur gai...”
Ha
la testa sulle gambe di Jean mentre legge un libro che sa ormai a
memoria. Gli passa la mano tra i capelli e canta a mezza voce
qualcosa che non capisce, ma gli fa socchiudere gli occhi.
“Tu
as le coeur à rire, moi, je l’ai à pleurer.”
C'è
una nota triste, in quella melodia a volte strascicata, come se
facesse fatica a respirare.
Non
l'ha lasciato solo un momento da quando si sono sostituiti a Eren e
Christa. Quella presenza costante lo preoccupa più che
rassicurarlo. Perché al disgusto si sono sostituite domande a
cui non vuole rispondersi, ancora. E non vuole che Jean abbia da
porsele.
“Il
y a longtemps que je t’aime, jamais je ne t’oublierai.”
Appoggia
il libro per terra, subito dimenticato e le nozioni che ha appena
ripassato sulla coltivazione degli alberi da frutta potrebbe essergli
davvero utili, un giorno, ma la voce bassa di Jean lo culla in un
torpore che fa bene, alleviando ogni preoccupazione.
Alza
il braccio e gli sfiora il viso con la punta delle dita, mormorando
parole a caso che seguano il ritmo della canzone. Gli tocca le labbra
e Jean smette di canticchiare, facendo cadere la stanza in un
silenzio irreale.
Per
un momento vorrebbe chiedergli di cosa parli la canzone. Vorrebbe
chiedergli se la tristezza che ha sentito fosse solo nella sua voce o
anche nel testo.
Ma
si dice che per il momento lo lascerà esprimere sentimenti che
non può condividere, ancora per un poco.
“Jean,
dormiamo un po'.” mormora.
Il
proprio tedesco è addolcito di riflesso.
Che
sia per la canzone o le carezze tra i capelli, Armin non saprebbe
dirlo.
Si
rende conto solo la settimana dopo di un dettaglio.
Non
proprio un dettaglio, più qualcosa di perfettamente ovvio che
gli è sfuggito per motivi che ignora. Non dovrebbe succedere a
qualcuno capace di confondere un titano nel disperato tentativo di
salvare delle vite.
Eppure
rendersene conto è come un fulmine a ciel sereno e gli fa lo
stesso effetto che essere buttato giù dal letto e direttamente
in un cumulo di neve fresca.
“Bonjour
mon poussin.” mormora Jean
al suo orecchio, prendendolo per il fianco e portandoselo addosso.
Dietro di loro c'è un rumore improvviso di liquido che si
sparge per la cucina e voltandosi Armin nota il Capitano Levi con la
tazza di tè ancora in mano, ma il contenuto per metà
rovesciato sui pantaloni chiari.
Ha
un momento di terrore, che si trasforma in ilarità nel vedere
Eren affrettarsi gridando al cospetto del superiore. Davvero, che
cos'è successo per traumatizzarlo in quel modo?
Jean
tiene ancora la mano sulla sua vita, pizzicandolo appena. Deve
trattenersi per non scoppiare a ridere. Quello sarebbe deleterio, in
presenza del Capitano, lo sa senza nutrire per quell'uomo il rispetto
e la paura esagerati di Eren.
Capitano
che li sta ancora fissando come se qualcuno avesse appena scaricato
una montagna di fuliggine su di loro, il disgusto chiaro sul volto.
E
allora Armin capisce. Ricorda, almeno.
Levi
capisce il francese. Levi è francese.
E
qualsiasi cosa Jean gli abbia detto, è talmente melenso da
averlo lasciato con una paralisi del viso.
Non
sa se scoppiare a ridere o chiedere perdono e, nel dubbio, scappa
fuori dalla stanza trascinandosi dietro il ragazzo.
“Mon
lapin.” sussurra Jean, gli
occhi appannati dal sonno e feriti dalla luce del primo sole. Ha un
sorriso timido e stanco sul volto, ma non per questo è meno
bello.
Per
un momento Armin si chiede se sia un buongiorno, ma crede di aver
ormai appurato che quello è bonjour.
Sbadiglia,
la testa che trova immediatamente rifugio sulla sua spalla nuda.
“Che
cosa blateri.” gli chiede, portandosi la coperta sopra alla
testa per allontanare il freddo dalla schiena e nascondere il
rossore.
C'è
un lungo silenzio, poi un sospiro.
“Tu
es mignon comme un lapin.”
Sbuffa
ed alza la testa, tirandogli una ciocca di capelli. Cominciano ad
essere lunghi e più chiari di quando l'ha incontrato. Sono
passati anni. Ha passato anni come compagno nel Corpo di Ricerca,
accanto a lui. E un ulteriore anno come altro. Compagni davvero.
L'ha
visto cambiare e non vede l'ora di conoscere di più, di
vederlo diventare un uomo e riflettersi nei suoi occhi.
“Jean?”
Il
francese cerca il suo sguardo per un momento e lo distoglie quasi
subito, come se pochi secondi potessero mandarlo nel panico.
“Insegnami.”
mormora Armin, punzecchiandogli la guancia.
Non
è sicuro di vedere la sua espressione cambiare, dopo. Non del
tutto certo di vedere gli occhi illuminarsi e il sorriso tirare le
guance, perché il ragazzo lo stritola come se volesse
incastrarlo con lui e Armin scoppia a ridere per forza, colpito da
quelle dimostrazioni di affetto improvvise, come ogni volta.
“Je
t'aime.”
Il
ragazzo lo stringe di rimando, perché ormai quella è
una frase conosciuta, una frase di cui ha intuito il significato per
il tono ed il modo in cui l'altro la pronuncia. C'è devozione
e amore, la sicurezza della voce che però scivola verso la
fine, in un sussurro. Armin si sorprende di non esserci arrivato
prima.
“Je
t'aime.” cerca di dire, copiandolo, ma il suono finisce per
metà soffocato sulla sua pelle e per l'altra metà ha un
accento terribile che sente anche lui.
Jean
però ride, facendolo sparire tra il suo corpo e il materasso e
Armin si dice che si godrà ancora quelle parole
incomprensibili per un po'.
Angolo
autrice
Salve a tutti! Spero che questa storia sia piaciuta, io mi sono
divertita a scriverla, in uno stile un po' diverso dal solito!
Tutto è partito dalla mia personale headcanon per cui Jean
è originario dell'Alsazia, regione francese in cui si parla
sia tedesco che francese. Poi ovviamente la voglia di chiamare Armin
in modo carino e ridicolo ha avuto la meglio.
Sempre secondo headcanon, Levi/Rivaille sarebbe originario invece
della Lorena, la regione accanto all'Alsazia, terra d'origine di
Giovanna d'Arco, quindi in teoria dovrebbe capire tutto quello che
Jean non osa dire in tedesco.
Ho esitato a mettere le traduzioni in fondo, perché volevo
mettervi nei panni di Armin che non ci capisce granché di
francese, ma visto che i nomignoli teneri francesi sono ridicoli una
volta tradotti (spesso), li condivido con voi.
Ma puce: mia pulce/pulce.
Bonjour mon poussin: buongiorno pulcino mio.
Mon lapin: coniglietto mio.
Tu es mignon comme un lapin: sei carino come un coniglietto.
Je t'aime: ti amo.
Per quanto riguarda la canzone, si tratta di una
filastrocca/canzoncina per bambini. È triste da morire come
quasi tutte le canzoncine per bambini francesi.
Qui potete
trovare il testo francese, inglese e ascoltarla.
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