Questa storia è per qualcuno. E’ per Angelo che mi incoraggia sempre, e per Lara che fa lo stesso e ha pure letto in anteprima questa storia in mezzo a espressioni di entusiasmo che mi hanno commosso. Ho impiegato molto tempo a finire questo racconto: i primi paragrafi risalgono a mesi fa, penso che si
noti. Ci voleva il finale ufficiale del manga, e l’onda della delusione che ha scosso una parte del fandom per portarmi a concludere e dire finalmente la mia.
Non ci sono chiari spoiler sui capitoli dopo la morte di Kikyou, ma penso che chi ha letto i capitoli degli ultimi due o tre volumi riesca a riconoscere dove ho preso dalla Takahashi e dove invece ho cambiato.
E giusto per giocare al
lettore attento, trovate la citazione da Kill Bill.
Soliti termini giapponesi da conoscere…
Youkai = demone; mai userò la parola demone: o dico youkai, o antico spirito.
Sono puntigliosa su questo punto;
Hanyou = mezzo-demone;
Shouki = miasma;
Gaijin = straniero.
As the world falls down
奈落
E nella mia ora più buia
loro splenderanno
splenderanno per me
all'infinito.
Haggard, Eppur si muove
Tokyo era sotto di lui, acciaio e cemento e torri di vetro, e un cielo nero dove
le costellazioni erano scomparse. Centomila stelle nuove brillavano più in
basso, in vari colori, più luminose o intermittenti o veloci come lampi di un
giallo abbagliante, che si spegnevano e che si muovevano in una rete brulicante
di chiarore.
Lui osservava.
Dall’alto la città sembrava un formicaio. Piccole figure scure in continuo
movimento che si succedevano tra i viali, in mezzo alle vetture, su per gli
ascensori dei palazzi, giù nei recessi immensi della metropolitana, in un moto
perpetuo, apparentemente senza inizio e inevitabilmente senza fine. Tutto, in
una sola occhiata.
Forse era per questo.
Era soltanto per vedere la città e la sua folla, per osservare la città vecchia
dal nome nuovo e la solita folla brulicante rivestita dei panni moderni, che
riuscivano a nascondere quasi ma non completamente il fatto che loro, proprio
loro, erano rimasti sempre gli stessi: umani, soltanto umani.
Forse era perché voleva essere lì, e non avere sopra di sé nient’altro che una
cupola oscura di vetro, e il vuoto di quello che veniva chiamato cielo,
immobile, immutabile, per loro di sotto nient’altro che una minaccia da
esorcizzare, tanto che non alzavano lo sguardo se non per imprecare contro quel
vuoto o interrogarlo desolati, quando invece era così consolante trovare che era
perfetto: non conteneva nulla ma inglobava tutto.
E ogni tanto il cielo veniva attraversato da una lucciola di metallo, l’ultima
sfida dell’uomo ai suoi limiti, un oggetto che lui aveva scoperto, a suo tempo,
non più di una manciata di decenni prima, con un lampo di sorpresa e un pensiero
di ironico compatimento.
Così come un giorno, nel mezzo del suo cammino, aveva alzato lo sguardo e si era
accorto che un torre si elevava verso il cielo, di un materiale scuro e
inflessibile, ardita, dall’ingannevole aspetto leggiadro, e si era chiesto, per
un attimo, cosa era accaduto. L’uomo: cosa aveva fatto? Era riuscito finalmente
a costruire la sua torre di Babele (aveva scoperto quella storia molto tempo
dopo, in uno dei tanti testi che aveva letto e poi gettato via in stanze che
contenevano tutto ciò che l’umanità aveva potuto dire in mille anni e più),
aveva sostituito le ali di cera di Icaro con qualcosa di più resistente e ora,
ora poteva dare la scalata all’ultimo confine che gli era precluso?
Era rimasto in silenzio, sopraffatto.
Prima che un sorriso distorto lo cogliesse nel pensare che l’uomo non cambiava,
soltanto le sue mire si erano ingigantite più di quanto lui avesse sospettato.
Una volta un uomo donava la sua anima solo per il desiderio di una donna, ma poi
arrivò Mefistofele e lo convinse che valeva di più la conoscenza. E perché no?
Il prezzo non cambiava.
Si fermò a lungo a studiare la torre che saliva al cielo in mezzo ai gaijin che
commentavano stupefatti, perplessi, irritati, con sul viso l’identica
espressione di meraviglia per la solidità della costruzione e come sfidava ogni
pettegolezzo, e ogni profezia infausta che di lì a poco la dava a crollare. Lui
solo, l’étrange étranger, non diceva nulla né faceva nulla né mostrava alcun
sentimento davanti al portento.
Perché da tanto tempo non sentiva il pungolo. Perché da troppi giorni che non si
curava di contare non desiderava qualcosa.
E quando un americano cominciò a replicare le torri di acciaio e di ferro lui
sapeva che voleva la stessa audacia.
E così finì a vedere Tokyo dall’alto; ma in quel momento la sua attenzione si
spostò altrove, verso qualcuno che camminava tra quelle strade nel traffico
serale, verso qualcuno che, se lui fosse stato umano, l’avrebbe riportato nel
passato, mentre invece ora lui, Naraku, pensava soltanto a colui che giungeva da
tanto lontano, da un rifugio segreto, improvvisamente alla ribalta sotto la luce
dei neon come un relitto di secoli passati, ma che non si sarebbe mai ridotto al
triste destino di un fossile da museo.
Accadde quando un vento diverso soffiò…
***
… e portava un odore insolito, non quello delle sostanze
chimiche di cui la città si avvelenava con lentezza ma costanza, e a cui lui non
badava più di quanto badasse al profumo della terra smossa, all’odore acre dopo
un acquazzone o al sapore dell’oceano che si appiccica in uno strato sottile
alle labbra; ma quel vento aveva un carattere insolito. Forza. Una presenza che
lui sentiva, con più chiarezza perché era circondato da umani.
Deviò dalla sua via. Il parco si stava svuotando mentre il crepuscolo si
avvicinava.
Oltrepassò i prati innestati in modo artificiale, tra le aiuole di fiori
piantate seguendo progetti che architetti umani pensavano nel chiuso dei loro
studi di cemento: controllo, davvero apprezzabile come sforzo. Ma loro lì, a
stringersi nei cappotti mentre il vento serale, carico dei primi freddi, li
intirizziva a dispetto del fatto che vedevano la realtà come una macchina ben
oliata e in grado di essere sotto il loro comando.
Ah, ma non importava, a lui sicuramente no: che continuassero pure a vivere
nell’illusione!
Ora la sua attenzione era solo per la presenza. Tanti anni senza un potere
simile a portata di mano. Affrettò il passo, si spinse più a fondo nel parco,
nella zona che – lui lo capì con un’occhiata – era la più antica. Alberi
centenari gli sbarrarono il cammino.
Era nascosto tra gli alberi senza foglie. Solo che non era spoglio, lentamente i
boccioli si aprivano, lentamente i petali si rivelavano candidi, appena rosati
al centro, e nel silenzio i rami stormivano. La luce crepuscolare illuminava la
fioritura di un ciliegio, folgorante tra la natura assopita e stanca.
Sì, soprannaturale. A un passo da loro, dagli uomini.
Naraku sorrise.
I rami sussurravano parole d’invito. Nel tronco le pieghe del legno si mossero,
come se insetti minuscoli strisciassero sotto la corteccia, per gonfiarsi e
delinearsi in rughe profonde, e infine rivelare un viso.
La bocca si aprì.
“E’ passato tanto tempo da quando incontrai uno youkai.”
“Vecchio Ciliegio, così è anche per me.”
Un sospiro scosse le fronde, vento carico di una malinconia di innumerevoli
anni.
“Cosa sei, viaggiatore? Sei sopravvissuto alle maree del tempo. Ancora integro
cammini nelle vie tracciate dagli uomini.”
C’era stupore nella voce dell’albero a dispetto della rassegnazione.
“Li ho visti tutti morire, uno dopo l’altro, gli antichi spiriti che vagavano
sulla terra mortale. Chi più lentamente, chi più rapidamente. Sono caduti. Cosa
importa di loro? E’ una vecchia storia, una lunga e noiosa storia che non ti
potrà servire. Anche tu sei giunto alla fine.”
“Sei orgoglioso, e spietato. So che sono morti. Il vento mi ha portato le loro
maledizioni. Sono l’ultimo – o così credevo finché non ho sentito la presenza
dello youki.”
Il vecchio volto scavato nella corteccia si accartocciò, simile all’espressione
di chi riflette intensamente.
“Come ho potuto essere così sciocco!” le fronde si scossero imitando il suono di
una risata. “Hanyou. E’ questa la risposta!”
Naraku fece un sorriso che sembrava più un ghigno.
“Davvero, Vecchio Ciliegio, la tua linfa scorre male nell’antico tronco se
sbagli così facilmente.”
E dopo aver parlato, capì cosa aveva voluto dire l’antico spirito. La sua mano
scattò in avanti, un gesto imperioso che richiamò a sé un fascio di fili di
ragnatela. I fili si avvolsero fulminei attorno al tronco, striando il legno e
lasciando dietro di sé un puzzo di bruciato e di veleno. Le fronde sbatterono
impazzite, mentre le rughe del legno si incresparono come un mare scosso da
tempesta.
“Vecchio Ciliegio, chi ti chiese di attirarmi da te?”
L’albero emise un lamento profondo che vibrò dalle radici fino alla chioma.
“Hanyou! Non so dirti il suo nome, ma ricordo la sensazione che mi diede. Zampa
veloce. Manto chiaro E’ marchiato dalla luna, e la luna lo guida nella notte a
caccia delle sue prede. Lui, lui solo si è salvato dalla caduta degli youkai.”
Naraku comprese perché non c’era nessun altro che poteva rispondere a quella
descrizione, né nessun altro che poteva possedere la tenacia di sfuggire allo
sterminio degli antichi spiriti.
“Hanyou! Ora ben vedo che lui è sulle tue tracce. E di ciò sono contento perché
sarà la tua morte.”
Ma Naraku non badava più alle maledizione del ciliegio, perché era solo un
vecchio sciocco, un relitto che non aveva compreso la portata dei cambiamenti, e
perché ormai stava spirando dalle ferite che gli aveva inferto con il suo shouki.
Aveva altro a cui pensare. Al cacciatore che sotto la luna di secoli interi
seguiva le sue orme fino a giungere lì, in quel momento, in quel luogo, a
trovarlo. Eppure non era pronto, non era ancora pronto ad affrontarlo di persona
e per questo Naraku gioiva perché poteva essere lui a preparare la trappola, era
lui che ora…
***
… Aspettava. La macchina ronzava dentro il suo guscio di
metallo. L’unica luce che illuminava il suo volto era azzurrina, elettrica; e
davvero tale aggettivo si addiceva a quella tonalità inusuale nel mondo, ad
un’intensità che ben difficilmente sole e luna potevano eguagliare. Naraku aveva
da tempo finito di stupirsi dell’audacia dell’uomo, riuscito a imbrigliare la
potenza del lampo e a piegarla ai suoi molteplici scopi. Usava quello che aveva
a disposizione, e lo usava bene.
Naraku impartì un ordine, battendo sulla tastiera, e la macchina si mise
docilmente a eseguire. Il subordinato perfetto! Quante volte si era chiesto, nei
momenti d’ozio che si era concesso nei secoli passati, quale sarebbe stato
l’individuo che meglio si sarebbe assoggettato ai suoi voleri. Aveva creduto di
esserci riuscito dando corpo al nulla, ma dopo che Kanna si era ribellata, alla
fine della sua esistenza, doveva ammettere di essere stato precipitoso nella sua
conclusione. No, neppure al nulla poteva affidarsi completamente.
Ma queste erano ipotesi, divagazioni che talvolta lo coglievano nel mezzo di
qualche giornata particolarmente noiosa, quando il rumore del mondo era un
sottofondo che non lo interessava più di tanto, di certo non con l’intensità di
un tempo, di quando era ancora giovane. Perché ormai non aveva più nessun
subordinato, tutti distrutti uno dopo l’altro, e tutti che si erano ribellati
con una caparbietà che lo aveva sempre stupito più che preoccupato: mai aveva
avuto dubbi, neppure nei momenti più pericolosi quando Mouryoumaru era riuscito
a conquistare una corazza indistruttibile, che a vincere sarebbe stato lui.
Sempre. I ribelli sarebbero stati distrutti. Non c’era altra certezza al mondo,
né ci doveva essere.
Dopo erano venuti gli esseri umani. Ne aveva a disposizione tantissimi, come
sassolini del go, pronti a essere disposti secondo il suo disegno. Ma avevano
anche tantissimi difetti che andavano tenuti in conto, aggirati e blanditi per
essere davvero efficaci, tanto che diventavano una perdita di tempo nei momenti
di necessità. E nonostante il disprezzo che gli suscitava spesso stare in mezzo
a loro, non aveva altro strumento a sua disposizione. Se fosse stato incline
alla lamentale, avrebbe recriminato per il tempo in cui aveva perso l’abitudine
di mischiarsi nel mondo umano e invece rimaneva nascosto, muovendo la sua
sparuta armata e i suoi occasionali alleati come meglio credeva da lontano. Ma
lui non si concedeva nessuna debolezza, tanto meno quella del rimpianto.
La macchina segnalò con un clic la fine del suo lavoro. I risultati apparvero
sullo schermo, una sequenza di indirizzi e una mappa del Giappone contrassegnata
da puntini colorati.
Alcuni erano dei bluff, lui lo sapeva, avendo già controllato l’affidabilità
delle sue fonti; ma in mezzo c’era sicuramente quello che cercava. Bastava
trovarlo. Bastava andare fuori dal suo rifugio, dal suo vecchio e confortevole
rifugio costruito in anni passati, quando per passare il tempo prometteva
successo e soldi ai mortali che incontrava e che credevano, presto o tardi non
importava, alle sue promesse e lo ricompensavano con doni e facilitazioni, come
loro li chiamavano. Cresciuto nel mezzo di un quartiere anonimo, era un palazzo
diventato via via più alto e più oscuro perché la gente attorno non si chiedeva
mai di chi potesse essere, e quale fosse la sua storia, e come mai fosse
all’apparenza abbandonato. Credevano che molti anni prima fosse stato abitato,
ma non avrebbero saputo dire esattamente da chi. Nessun mendicante o ladro aveva
forzato le porte chiuse. Il sole e la pioggia avevano scolorito i muri esterni,
e questo era l’unico affronto che il vecchio palazzo, il suo rifugio, aveva
affrontato in quel mezzo secolo di indisturbata vita.
Sì, sarebbe presto uscito e sarebbe andato negli indirizzi che ora la macchina
con pazienza controllava ad uno ad uno, avrebbe offerto e corrotto, perché non
c’era niente che convinceva gli uomini come la vista degli yen, e avrebbe
mentito. Soldi e posizione: conosceva da tempo le leve che servivano a scalzare
gli ostacoli nel mondo mortale. Quando aveva giocato tutto nel suo azzardo, e
perso, molti secoli prima, era rimasto senza nessuna risorsa. Ma aveva pazienza,
e aveva inventiva. E come scoprì in seguito gli eventi andavano in suo favore…
bastava solo che ne approfittasse. Ma a Naraku non bastava, allora, voleva
partecipare di persona, voleva essere al centro di quegli eventi, voleva
azzardare ancora e questa volta primeggiare su tutti. Il mondo si stava
trasformando, lui non sarebbe stato a guardare.
Perché la Shikon no Tama era perduta, per sempre. Lo sentiva – lo aveva sentito
chiaramente, anche nella semi-incoscienza in cui era mentre la Shikon no Tama fu
purificata dal desiderio della giovane miko. Accadeva ancora di ripensare a quei
giorni, e di ripensare a quella fonte da cui traeva alimento per la propria
forza, e di ripensare a come la perse. Fu unica e irripetibile, la Shikon no
Tama. E quando ricordava quel tempo lontano, la sconfitta lacerante, accadeva
che un’ombra passasse nei suoi pensieri e li distorcesse; allora rimaneva
immobile, in silenzio, fermo ad attendere che l’onda passasse perché era sicuro
che se si fosse mosso avrebbe distrutto ogni cosa, ogni singola cosa, fino alla
più piccola esistenza, che si parasse di fronte a lui.
Adesso aveva individuato il suo jolly per lo scontro che stava preparando.
Naraku ordinò alla macchina di scrivere gli indirizzi trovati, e mentre
attendeva scorse il catalogo dei musei di arte giapponese della nazione, a cui
aveva accesso tramite i fili che legavano quella macchina ad altre ancora. Era
un sistema perfetto per ottenere le informazioni che voleva, ma era un vero
peccato che non potesse estendere la sua coscienza attraverso quell’intreccio di
materiali per capire se ciò che voleva era davvero lì fuori, nel mondo esterno.
La macchina procedeva per vie sue, che lui non conosceva. Qualsiasi servitore
avesse, rimaneva sempre un punto in cui il suo controllo non giungeva; si
consolava pensando che poteva sempre distruggerlo.
Naraku prese il foglio degli indirizzi. Era sicuro di riuscire, non avrebbe
cominciato altrimenti una ricerca senza alcun indizio, vincendo le reticenze
degli umani e la loro avidità che proteggeva i loro preziosi beni, per riuscire
a trovare ciò di cui aveva bisogno, quello che credeva perduto da anni e che
tuttavia gli serviva, ora che era lui era tornato… E una volta trovato, avrebbe
pensato come usare l’oggetto a suo vantaggio… E poi… e poi…
***
… scese l’oscurità. Le luci della città diventarono più
luminose. Naraku camminava tra le zone d’ombra che si creavano tra una pozza di
luce e l’altra, stando attento a non farsi notare. Poco prima aveva riconosciuto
una presenza, come una sensazione fastidiosa al limite del suo campo visivo che
lo aveva messo sul chi vive.
Era lei, la ragazzina umana; o meglio era la stessa ma cresciuta, camminava poco
oltre con la stessa sfrontatezza delle giovani donne moderne. Dal modo con cui
si muoveva, Naraku capì che non si era accorta ancora di lui. Sorrise con
disprezzo, perché aveva tutto il vantaggio per preparare l’incontro.
Che fortunata coincidenza! Aveva sospettato che la ragazzina fosse ormai morta
da secoli ormai, benché non ne fosse certo, e solo ora, solo dopo averla vista
camminare tranquilla tra le strade di Tokyo, come se fosse sempre appartenuta a
quella città, richiamò alla memoria tutti quei particolari che gli erano rimasti
oscuri. Come un ragazzina così strana, vestita in modo così insolito, fosse
potuta comparire nel Sengoku, come mai avesse poteri da miko ma non
l’addestramento delle sacerdotesse dello shinto, e come era possibile che fosse
proprio lei a possedere la Shikon no Tama. Perché di questo era certo: la
preziosa sfera era arrivata con lei. Naraku ebbe un dubbio, ma verificò subito
che non poteva che essere la ragazza del passato e non una reincarnazione. Il
ribollire sacro del potere, che scorreva tutt’intorno a lei, appariva come una
luce fortissima ai suoi occhi, una luce fastidiosa che non aveva dimenticato
facilmente. Era l’ultima cosa che aveva visto prima della sconfitta.
Poteva dire (se avesse voluto e avuto occasione di ammetterlo con qualcuno) che
era per colpa di lei se aveva perduto tutto. Aveva predisposto un attacco solo
per quella sciocca, insignificante femmina umana che non era neppure in grado di
difendersi da sola. Sembrava sempre un bersaglio facile, ma non lo era,
naturalmente non lo era. Ed era questo a farlo fremere di una pericolosa rabbia.
Se le circostanze fossero state diverse, non si sarebbe mai curato di una come
lei, sarebbe stata come un insetto lungo il cammino che si ignora o si calpesta
con uguale noncuranza, invece per sua sfortuna lei non era una persona
qualunque. Aveva il volto di Kikyou, gli stessi occhi scuri che per beffa erano
meno pericolosi ma altrettanto testardi a resistergli. Aveva provato a
ucciderla, a spingerla al tradimento, a portarla dalla propria parte pur di
spezzare la vita della ragazza. Nessun espediente era andato a buon fine.
Naraku si costrinse a ragionare con calma, con indifferenza. Non accadeva spesso
che dovesse rivolgersi un simile avvertimento, ma sapeva che quella zona oscura
- quei pensieri turbinosi e pieni di rancore - se avesse perso il controllo,
sarebbe montata come un’onda, traboccando oltre i limiti dell’ombra, invadendo e
travolgendo lo spazio della luce. Quello era il momento meno adatto per
distarsi. La ragazza sembrava indifesa, e senza armi visibili con sé lo era
ancora di più. Ma non avrebbe rischiato, non ancora.
Da lontano osservò che ancora non aveva individuato la sua presenza; era un
vergognoso smacco per una miko, ma andava tutto a suo vantaggio. Era l’ottusità
della ragazza il vantaggio che aveva su di lei, e il motivo per cui aveva sempre
perso. Non ora, non più. Non aveva il tempo di rinvangare i fallimenti.
La folla nascondeva del tutto Naraku, e lui si mescolava alla folla con
l’abilità di non attirare l’attenzione anche con gli occhiali scuri che era
costretto a indossare per mascherare il suo sguardo agli altri. L’inganno non
era perfetto: c’era sempre qualcuno che provava la sensazione di essere sfiorato
da una corrente fredda, si voltava, lo guardava ma già a quel punto gli occhi
fuggivano via, troppo sconcertati o troppo spaventati. Semplicemente lui non
piaceva alle persone.
Poteva anche nascondersi alla ragazza, ma non per molto ancora. Pochi passi li
separavano ora. Sentiva le risate che lei scambiava con le compagne, prive di
preoccupazioni alcune. Sì, le compagne. Erano altre tre, un gruppo unito in una
spensieratezza femminile. Lui le notò solo ora, da quanto gli parevano
insignificanti. Ma vedeva che la ragazza stava stretta a loro, parlava a loro
con famigliarità, aveva un legame.
Naraku sapeva cosa fare.
Le luci al neon di un vicino locale esplosero in una cascata di scintille e di
vetri infranti. Ci furono delle grida tutt’intorno, le persone presero a
correre, alcune troppo spaesate si lasciavano scontrare da quelli che
arretravano.
La ragazza e le sue tre compagne erano ancora lì, confuse a guardare i frammenti
incandescenti che si erano raffreddati vicino a loro. Nessuna di loro si era
ferita, come lui aveva previsto. Dal locale giungeva la trasmissione della
radio: “Poteva ben dire che era nato nella morte, e con essa era diventato
grande,” diceva una voce potente, dura.
E la ragazza si voltò, lo vide, lo riconobbe: la tensione divenne evidente nel
suo corpo, impreparato, colto di sorpresa. Naraku sorrise; quasi vedeva il
desiderio di fuga della ragazza, il desiderio della preda di tentare lo scatto
finale anche quando sa di non avere scampo. Ma rimase, stretta alle compagne, e
per un attimo, un attimo infinitamente breve che non avrebbe mai portato alla
coscienza, parve a Naraku più pericolosa che mai.
Lui si spostò, deviò di lato, quasi per girare in circolo, senza mai abbandonare
lo sguardo sul gruppetto. Si allontanarono insieme, lei e le compagne, scosse e
ancora strette nel preludio di un abbraccio. Un lampione vicino esplose in una
cascata di scintille. La gente, a quel punto, impazzì: ci furono grida, persone
che scappavano alla cieca mentre un altro lampione si fulminava. Frammenti di
vetro erano ovunque, alcuni avevano colpito, uno aveva preso al volto una
compagna della ragazza che vacillò con le mani premute sulla ferita e in una
cacofonia di strilli.
La ragazza si voltò, lo osservò tra le ombre, lo osservò mentre guardava il
sangue macchiare la terra; tremò e con una parola di commiato alla compagne
corse via. Ma Naraku la precedeva, scivolando velocemente tra i sentieri
oscurati della città, seguendola mentre lei piegava verso il tempio Meiji, e
prima che riuscisse a entrare nel recinto sacro, strinse i lacci per catturarla.
Un’altra cosa che aveva imparato col tempo, di come nascondersi nel buio e
piegarlo ai suoi scopi, e se lo avesse imparato prima, avrebbe evitato di
vedersi sfuggire i nemici da sotto le mani. Lo shouki era un veleno potente, ma
i suoi avversari lo riuscivano a contrastare facilmente.
Lei lanciò un grido di terrore, barcollando, ma non si poteva più muovere.
“Naraku!” gridò mentre lui si avvicinava, come se con quel nome volesse
colpirlo.
“Tu eri morto! Devi essere morto!”
Vide la luce purificatrice di una freccia sacra, scoccata per colpire la Shikon
no Tama, scoccata per annullare la sua risorsa principale, che si avvicinava
sempre più velocemente, in una traiettoria sicura, vanificando la sua volontà.
“Così tutti credevano. Ma non sono stato io, infine, a perire.”
La ragazza sbiancò. Stava tentando di liberarsi, ma senza arco e frecce le era
difficile. Non come allora, quando sicura di sé si ergeva in mezzo alla
devastazione del villaggio. Allora accanto a sé aveva Inuyasha, forse era questo
che faceva la differenza? Quanto poteva diventare disperata sapendo che lui non
l’avrebbe salvata, questa volta?
“Cosa fai qui? Cosa vuoi?” gridava, vedendo che i suoi sforzi non servivano.
“Non ti accontenti di sapere che non potrò più stare con i miei amici? Non ti
accontenti di sapere che loro…”
“No,” rispose, ma la risposta non la sentì lei, e neppure lui.
Pensava alla testarda Kikyou che lo sfidava anche dopo la morte, a Inuyasha che
lo cacciava con tenacia per il suo desiderio di vendetta che considerava
giustizia, pensava alla voci che bisbigliavano nella Shikon no Tama, pensava
allo shouki che invadeva il villaggio di Kaede, all’improvviso, a spazzar via
gli sciocchi nemici prima che si organizzassero contro di lui, mentre erano
ancora prostrati dalla fine di Kikyou… ricordava il giorno, ricordava le voci
del gioiello, … ricordava, ricordava, e la sua decisione divenne ancora più
resistente, e più affilata.
Lo shouki intossicò l’aria, la ragazza tentò con rinnovato sforzo di liberarsi.
Levò il volto verso di lui, in un gesto supplice e ostinato: “Si può
dimenticare, sai. E’ solo il passato… è passato tanto tempo da allora…” le
parole si bloccarono; i ricordi avanzavano, ognuno era tagliente. “Non basta che
hai distrutto ogni cosa? Il villaggio, la vita delle persone … persino il pozzo,
e così non ho più potuto tornare da loro?!”
Negli occhi di lei c’erano lacrime. Naraku osservava in silenzio: non capiva
quelle parole, non capiva quel tentativo di dialogo, non capiva neppure quelle
lacrime. Gli sembravano sciocche, come offensive nei suoi confronti: come se lei
pensasse davvero di cambiare la sua volontà con qualche parola disperata e un
grido di dolore! Ecco, quella era diventata la sua nemica, anzi quella era la
sua nemica, fin dal principio, prima ancora che lei apparisse dal nulla
custodendo dentro di sé il gioiello. Già allora era stata scelta. Ecco, pensava
ancora con lucidità, ecco che la Shikon no Tama aveva preso proprio lei,
agognava quell’anima sciocca, semplice e innocente, e proprio per questo
candida, un’anima che non era stata temprata da nessun fuoco ma che era
resistente in un modo misterioso. Sì, la Shikon no Tama la voleva per sé, per
continuare a esistere, per alimentarsi ed accrescersi in un parossismo di
egoismo. Voleva anche la sua anima, quella di Naraku stesso – come aveva capito
presto quanto risultasse appetibile al gioiello un’esistenza così inconsueta e
oscura! Per questo Naraku aveva abbandonato la Shikon no Tama, per questo
l’aveva lasciata colpire dalla freccia sacra, per questo l’aveva sacrificata,
per questo aveva sostituito al suo posto Byakuya, mera illusione che era
scomparsa nel nulla da cui era venuta, e poi era svanito, scomparso, e in realtà
era scappato e nel suo nascondiglio aveva celato la sua presenza, come certi
organismi che diminuiscono la loro attività per passare indenni ad un periodo
critico e venuto il momento propizio, riprendono vita, accrescono, si
diffondono. Così Naraku era creduto distrutto, e attendeva soltanto che la
situazione gli fosse favorevole.
Guardava il pianto della ragazza, e sentiva di guardare qualcosa da lontano,
sentiva di essere distaccato, indifferente a tutto.
“Tu sei l’ultima,” disse rispondendo con calma al terrore dello sguardo di lei.
Ma ricordava, ricordava, ricordava, e i ricordi alla lunga sopraffecero il
controllo…
Voleva essere crudele, voleva essere spietato.
“Sono morti tutti, i tuoi compagni. Uno dopo l’altro. E non ho dovuto neppure
faticare di persona.”
Si avvicinò alla ragazza, immobile e sfinita. Una mano alzata, in un gesto
innocuo.
“Hanno incontrato il loro destino, da soli, vittima dei loro stessi desideri.
Sì, ho solo aspettato.”
La mano fu rapida, sfondò il petto. Le vertebre si ruppero con un suono secco.
Un grido.
“Miroku pensava di essere al sicuro, dopo che la maledizione del kazaana si
annullò – opera mia, naturalmente – ma aveva dimenticato il veleno che aveva in
corpo. Sango morì per dare alla luce il figlio che il monaco voleva tanto.”
Un sibilo o un gemito. Venne un fiotto di sangue. La mano strinse il cuore.
“Kouga perse la poca cautela che gli rimaneva, scoperto che tu non c’eri più.
Chissà come l’avrà saputo. Pensava che fossi morta. E la sua rabbia lo portò a
combattere un nemico troppo forte per lui. Kaede… lei morì quel giorno,
nell’attacco al villaggio, no?”
Qualcosa si spezzò. Il sangue schizzava tutt’intorno.
“E Inuyasha… vorrai sapere anche di lui, immagino. Credeva così tanto di essere
il paladino degli umani, ma alla fine morì tradito da loro.”
Il cuore fu nella sua mano, ancora pulsante. Lo strinse fino a quando non sentì
la carne spappolarsi con un suono viscido, molle e il sangue cadere su di lui,
sul terreno, sul volto dove gli occhi di Kagome lo fissavano, vitrei.
Naraku era calmo, sembrava che non ci fosse mai stato nessuno più calmo di lui,
mentre guardava il cadavere ai suoi piedi con un ultimo sorriso di disprezzo.
Quando si voltò per andarsene lo aveva già dimenticato.
Ma aveva mentito, non era Kagome l’ultima, no. C’era ancora qualcuno che doveva…
***
… incontrare. La decappottabile scura correva spedita sulla strada litoranea.
Naraku guidava con noncuranza, come se quella strada fosse il mondo intero, e
non ci fosse altro e gli appartenesse completamente. Il vento generato dalla
velocità gli sollevava i capelli in una raggiera scura, e nell’aria c’era
l’odore profondo del mare. Anche con il retrogusto dei veleni chimici, il sapore
era inebriante, e di sicuro anche colui che lo aspettava la pensava allo stesso
modo, mentre annusava il suo odore nel salino del mare.
La strada procedeva dritta, senza ostacoli, senza presenza che non fosse la sua,
senza un’apparente fine, e avrebbe potuto andare avanti così, se non fosse che
da lontano si ingrandì un punto, una lucina di falena, evanescente ma sempre più
grande mentre lui si avvicinava, che si stagliava tra la plumbea compattezza del
terreno e del cielo. Naraku fermò la macchina. Tra il cambio e la leva del freno
spuntava l’elsa di una katana. La prese.
“Sesshoumaru,” disse.
“Naraku.”
Si guardarono, al di là dello spazio neutrale che avevano lasciato fra loro.
“Ti sei abituato agli usi mortali. Porti i loro abiti, usi i loro giocattoli,”
Sesshoumaru aveva sul viso l’inalterata espressione altezzosa. “Disgustoso.”
“E tu, Sesshoumaru, sembri un reperto da museo nella tua vecchia armatura. Forse
lo sei davvero. Non ti sei accorto, ad esempio, che il mondo è cambiato. Ma
presumo che eri troppo impegnato a nasconderti.”
Ci fu uno schiocco, come di una corda spezzata. Zampa veloce, manto chiaro… sì,
il Vecchio Ciliegio non si era sbagliato a chiamarlo così, poteva incutere
soggezione anche con il solo sgranchirsi delle sue dita artigliate.
“Attento, Naraku, la mia pazienza è al limite.”
“E hai aspettato tanto tempo per venire fuori. Fremevi davvero d’impazienza per
non aver partecipato a quella che il tuo patetico fratello e i suoi amici
chiamavano la loro vittoria su di me.”
Sesshoumaru si slanciò in avanti, fluido e veloce come vento, ma a bloccarlo fu
il fodero della spada nera, proteso in alto da Naraku. Si fermò, lo youkai, ad
un tratto cauto.
“Parliamo. Ci sarà tempo per la battaglia.”
“Non ho nulla da dire ad un hanyou.”
“Lo hai. O altrimenti perché venire fuori adesso? Perché non venire fuori prima,
mentre gli youkai invocavano l’aiuto dei più potenti, dei più forti, perché gli
umani all’improvviso non si erano dimostrati tanto deboli? Gli umani li
combattevano, li distruggevano. Si moltiplicavano, e la vecchia stirpe non
sapeva più come minacciarli. Dov’eri, Sesshoumaru?” chiese senza badare al
ringhio gutturale di avvertimento.
“Quella non era la mia battaglia. Uccidevo gli umani, quando volevo, ma il conto
in sospeso era un altro.”
Naraku sgranò gli occhi, in una pantomima di stupore.
“Non essere superbo, hanyou. Sono qui solo per prendere la tua vita, perché mi
spetta.”
“E così mi vuoi dire che non ti importa sapere che sono stato io a provocare lo
sterminio degli youkai. Che sono io ad aver armato e incitato gli uomini a
difendersi dai mostri che giorno e notte rubavano le loro vite.”
Sesshoumaru sferzò l’aria, in un gesto di avvertimento. Era nervoso.
“Di te nessuno sentiva parlare.”
E così l’aveva creduto anche lui, Naraku se ne compiacque.
Sesshoumaru capì i pensieri dell’hanyou, e preparò un altro attacco. Un cratere
si aprì nel punto dove prima era fermo Naraku, il veleno sciolse l’asfalto in
uno sfrigolio verdastro.
“Sei arrogante,” sputò con disprezzo. “Non sono venuto per sentirti vantare
della tua pazzia. Anche se tu sei qui proprio per questo.”
“No, non mi interessa che tu lo sappia, Sesshoumaru,” e quella forse era una
bugia, anche se neppure Naraku lo sapeva. “Lo hai appreso, alla fine, che sono
stato io. Il Vecchio Ciliegio aveva capito, e lo hai usato come messaggero per
me …”
“La sua voce ha viaggiato per vie segrete fino a raggiungermi. Troppo tardi,
forse. Non importa.”
Sesshoumaru si erse in tutta la sua statura, mentre il vento carezzava la sua
poderosa coda. “Che tu abbia sterminato gli youkai è una sciocchezza. Ma
cos’altro si poteva aspettare da un hanyou, se non allearsi con gli umani?”
“Sei cieco, Sesshoumaru, sei limitato nella tua logica,” ritorse con malignità
Naraku. “Sono venuto perché c’è qualcosa che tu dovevi vedere.”
Naraku sfoderò la katana… e la Tessaiga fu svelata agli occhi stupiti (sì, per
un attimo sinceramente stupiti) dell’avversario. Solo che era cambiata: non era
più la spada logora, dalla lama consumata e dall’elsa che si sfilacciava,
inutile tranne per chi poteva accedere alla sua natura segreta. La lama era nera
e affilata come ossidiana. La linea dell’elsa era spartana, il fodero di
resistente ebano.
La furia turbinò attorno a Sesshoumaru come un vento di tempesta, schizzi di
spuma marina si levarono all’improvviso rendendo l’aria opaca di salino mentre
lo sguardo rosso dello youkai si accendeva all’aspettativa di affondare gli
artigli nella carne del nemico.
“Tu non hai capito, Sesshoumaru,” disse Naraku sereno, imperscrutabile. “Non
sono io ad essermi abbassato alla vita degli umani, o gli umani ad essersi
elevati. Non sono io ad essermi, come dicono loro, adattato. Ho adattato il
mondo attorno a me. L’ho piegato al mio disegno, l’ho modificato secondo il mio
piacimento, come ho fatto con questa spada. La spada che volevi. Ammetto che non
è stato facile, la Tessaiga ha una volontà forte, così come il mondo, ma alla
fine ci sono riuscito.”
Lo shouki, che lo proteggeva, per ora aveva fermato l’avanzata furiosa di
Sesshoumaru.
“Mentre tu, Sesshoumaru,” continuò. “Tu hai avuto sempre una visione limitata.
Ti consideravi superiore. Uccidevi quando volevi. Possedevi cosa volevi. Pensavi
che tutto fosse a tua disposizione. E non hai nulla, non hai mai avuto nulla e
non sei mai stato nulla.
“Hai perso.”
Sesshoumaru si fermò, disorientato sotto il peso di quelle parole.
“Hai perso,” ripeté Naraku.
Lo youkai sorrise, incerto dapprima ma con più convinzione. Fu un sorriso pieno
di consapevolezza, bellissimo e indomito. “Non ancora.”
Scattò in avanti, con gli artigli tesi. Anche Naraku si preparò a colpire, la
lama della Tessaiga che descriveva un arco minaccioso nell’aria greve.
L’alba si levò all’orizzonte, di un rosso sangue.
- FINE -
Inuyasha è c) Rumiko Takahashi. La presenta storia è invece c) Laurie
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