Capitolo 1
Disclaimer: i personaggi presenti nella storia non mi appartengono, ma sono proprietà della CW. L'immagine non è di mia proprietà ma di chi l'ha creata (cliccateci sopra per la pagina della creatrice). Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Salve
a tutti! Eccomi qui con l'ennesima storia su Supernatural *la folla si
lamenta* sì, sì lo so cosa state pensando, ma vi giuro
che questa volta non si tratta di una delle solite one-shot. Ebbene, mi
sono buttata a capofitto in una multichapter oh povera me!
Dunque, premetto che la storia è in corso d'opera e devo ancora
capire dove andrà a parare, quindi la scrittura e pubblicazione
sarà abbastanza lenta. Ho voluto, per il momento, pubblicare il
primo capitolo per vedere se la storia può interessare e anche
per spronarmi ad andare avanti.
La storia è ambientata in un futuro indefinito (o che
sarà definito più avanti) ed è principalmente nata
dal mio folle amore per Radioactive degli Imagine Dragons. Ci potrebbe
essere un cambio di rating e passare al rosso ma chissà: lo
scopriremo solo vivendo!
Ma bando alle ciancie, vi lascio leggere! :) vi prego di lasciare una
recensione anche piccina picciò per farmi sapere cosa ne pensate
e se dovrei davvero andare avanti a scrivere!
Adios!
Chiara
W E L C O M E T
O T H E N E W
A G E
I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.
I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.
Capitolo 1
Ripresi
conoscenza con un sobbalzo, tanto improvviso da farmi rimbombare il
cuore nelle orecchie. Mi misi a sedere di scatto, spalancando gli occhi
e inspirando in un ansimo. Sentii l'aria grattarmi la gola secca e i
polmoni gonfiarsi dolorosamente contro la gabbia toracica. Fu come se
quello fosse il primo respiro di tutta la mia vita.
Quello scatto improvviso non fu una
brillante idea: la testa iniziò a girare e la nausea mi
salì dallo stomaco. Le mie braccia cedettero e, quasi senza
rendermene conto, ricaddi indietro. Battei la testa contro l'asfalto e
solo allora mi resi conto del dolore lancinante che sembrava
trapassarmi il cranio da parte a parte. Doveva essere lì
già da prima che cadessi a terra. Un conato mi fece tremare lo
stomaco, ma non riuscii a rigettare.
Mi voltai su un fianco, mentre lo
sforzo di vomito mi faceva tossire come un disperato, strizzando gli
occhi a causa dei vortici di polvere che il mio fiato faceva sollevare
da terra. Appena riuscii a respirare normalmente, sollevai la testa di
qualche centimetro e sputai per terra un miscuglio di saliva e sangue.
La mia mascella doleva.
Qualcuno mi aveva proprio conciato per le feste.
Inspirai ed espirai lentamente per
cercare di far scendere la nausea. Man mano che i secondi passavano, il
dolore si espandeva in tutto il mio corpo: oltre alla testa, ora
pulsava anche la mia gamba destra. Mi sollevai sui gomiti con uno
sforzo e controllai la situazione: i jeans erano squarciati sul
ginocchio, così come la mia carne, e il sangue faceva attaccare
il tessuto alla mia pelle come una colla. Il taglio era lungo una
decina di centimetri e profondo. Non mancava molto che si vedesse
l'osso.
Che cazzo mi era successo?
Mi guardai attorno. Mi trovavo
disteso in mezzo alla strada e non si scorgeva anima viva. Il cielo era
nuvoloso e formava una cappa di caldo umido sopra la mia testa. Il
panorama era desolato.
Mi voltai sul fianco sinistro e
iniziai a strisciare, stando attento a tenere la gamba ferita dritta e
distante dai detriti della strada. Trascinai il peso di tutto il mio
corpo con i gomiti, mentre avanzavo stringendo gli occhi, che
lacrimavano a causa della polvere che si sollevava dall'asfalto. Tutta
la strada era coperta da uno strato grigio di cenere.
Arrivai al marciapiede e mi sedetti
sul bordo, usando tutta la mia forza per sollevarmi e girarmi. Il
respiro era affannoso. La gola era secca e bruciava. La gamba faceva un
male boia, ma mi preoccupava di più la testa. Sfiorai con le
dita la ferita tra i capelli, mordendomi il labbro quando si mise a
pulsare. Mi guardai la mano. Era impiastricciata di una sostanza
appiccicosa e color ruggine.
Sangue rappreso.
Sospirai, cercando di pensare positivo: almeno per il momento la botta in testa non aveva provocato danni gravi.
Oppure sì?
Mi chiamavo Dean Winchester, mio
fratello era Sam e i miei genitori erano stati Mary e John. Non sapevo
che giorno fosse e quello mi spaventò. L'ultima cosa che
ricordavo era Sam su un letto di ospedale... e prima? Un cielo nero era
esploso in migliaia di palle di fuoco, che si dirigevano
inesorabilmente verso la Terra. Ricordavo chiaramente di aver fissato
una di quelle comete e di averci visto un angelo, cui si erano staccate
le ali durante la caduta.
Il mio cuore perse un battito. Dov'era Castiel? E Sam?
Mi guardai attorno, analizzando
ogni dettaglio per cercare di orientarmi. La strada era popolata da
carcasse di automobili arrugginite, molte delle quali smembrate e
girate sottosopra. I muri degli edifici erano grigi e sporchi e quasi
tutte le porte e le finestre erano state sprangate con delle assi di
legno.
L'atmosfera era surreale. Sembrava
che la città fosse stata investita da un'onda radioattiva.
Più mi guardavo intorno, più mi rendevo conto di
conoscere quello scenario. L'avevo già visto prima.
La scritta spiccava sul muro
dell'edificio dall'altra parte della strada. Mi si accapponò la
pelle nel prendere in considerazione l'idea che quella che era stata
usata non fosse vernice rossa.
Croatoan.
Figlio di puttana...
La bile mi si fermò in bocca
e fui costretto a sputarla. Sentii il naso colarmi e lo pulii con la
manica, che si sporcò di sangue.
Quel panorama grigio e desolato mi
era abbastanza familiare: ci avevo vissuto tre giorni, quella volta che
quel figlio di puttana di Zaccaria mi aveva sparato nel futuro per
farmi vedere quale sarebbe stata la conseguenza se non avessi detto il
"grande sì" a Michele. Ricordavo chiaramente, in
quell'occasione, di aver visto un cartello di divieto di entrata
attaccato ad una rete che recava una data.
Duemilaquattordici.
Se mi trovavo nel
duemilaquattordici, non ricordavo assolutamente nulla di quello che era
successo negli ultimi sei mesi circa. La botta in testa mi aveva fatto
davvero perdere la memoria.
In ogni caso, sapevo cos'era lo scenario che si stagliava di fronte a me.
La fottuta Apocalisse.
Un pensiero grattava un angolo
della mia mente, mentre si faceva breccia nella mia testa l'idea che ci
fosse qualcosa di più che familiare in quella scena. Non era la
consapevolezza di essermi già trovato in quell'esatto luogo
molti anni prima. Era qualcosa di più recente, ma indefinito,
impalpabile. Come quando ci si sveglia e si sente ancora il gusto del
sogno sulla lingua, mescolandosi con la realtà, tanto da
confonderci per i primi secondi.
Era quello che mi stava accadendo.
Avevo l'impressione di essermi appena svegliato e che i miei ricordi
fossero solo un sogno. Che quella che avevo di fronte a me era la
realtà in cui avevo vissuto tutta la mia vita.
Scossi la testa, cancellando quel
pensiero, e mi concentrai su qualcosa di più importante. Dovevo
trovare un modo per andarmene di lì, scoprire se esisteva ancora
qualche forma di civiltà da quelle parti. Ma non sarei riuscito
nemmeno ad alzarmi in piedi con la gamba in quello stato.
Squarciai i jeans con il coltello a
serramanico che trovai in tasca, fino a liberarmi il polpaccio, poi
sollevai il tessuto per scoprire il ginocchio, stringendo i denti
quando la ferita pizzicò. Un fiotto sgorgava lentamente tra il
sangue rappreso e gocciolava sull'asfalto. Non sfiorai nemmeno il
taglio: le mie mani erano nere e sporche e avrei rischiato un'infezione.
Mi sfilai la maglia, rimanendo a
petto nudo, e la piegai a formare una benda. La posai sulla ferita e
annodai le maniche dietro il ginocchio, stringendo in modo da non
fermare troppo la circolazione. Come fasciatura non era un
granché, ma almeno speravo che la ferita non si sporcasse
ulteriormente.
Mi guardai attorno, cercando di
orientarmi, ma non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi
e di dove sarei potuto andare. Il mio sguardo si posò su un
pullman a una ventina di metri da dove mi trovavo. La scritta sul
fianco era sbiadita ma si riuscivano ancora a scorgere le parole
"Carcere della Contea". Un bus per il trasporto dei carcerati. Era
l'unico mezzo in vista che avesse tutte e quattro le ruote e che non
fosse ribaltato.
Mi misi in piedi facendo leva sulle
braccia e tenendo la gamba martoriata più dritta che potevo. Mi
alzai cautamente, sperando di non essere preso di nuovo da un conato.
Una volta in piedi, constatai che il mio stomaco stava tutto sommato
bene e mi decisi a muovermi. Provai a spostare il peso sulla gamba
ferita, ma un dolore lancinante mi fece tremare il ginocchio. Cattiva
idea.
Sospirai. Non mi restava che saltellare fino all'autobus. Sarebbe stata davvero una lunga strada.
Dopo nemmeno sei metri ero
già stanco. La gamba sinistra doleva e non sapevo quanto ancora
sarebbe stata in grado di sostenere il mio peso. Presi in
considerazione l'idea di sedermi a terra per qualche secondo, ma sapevo
che se l'avessi fatto poi non sarei più riuscito a rimettermi in
piedi. Strinsi i denti e proseguii, un po' saltellando, un po'
chinandomi e posando le mani per terra per camminare a tre zampe.
Dopo cinque minuti avevo finalmente
raggiunto il bus. Il portello era spalancato e mi lasciai cadere sullo
scalino. Rimasi lì per un paio di minuti, lasciando riposare la
gamba sinistra, che aveva sopportato tutti i miei ottantacinque chili.
Sentii un formicolio salire dalle dita fino alla coscia, segno che il
sangue stava tornando a circolare.
Quando mi sentii più in
forze, salii zoppicando gli scalini e mi sedetti al posto di guida. Le
chiavi non erano inserite, né si trovavano in nessun cassetto o
scomparto - non ci avevo realmente sperato -, quindi mi chinai e tirai
fuori due fili da sotto il cruscotto, cui feci fare contatto. Il motore
accennò ad avviarsi un paio di volte, ma senza risultato. Dopo
il quinto tentativo si accese e mi lasciai andare ad un sospiro di
sollievo.
Infilai la gamba ferita sotto il
volante e mi sistemai in modo da poter premere l'acceleratore pur
tenendola dritta. Quella posizione - seduto sul bordo esterno del
sedile, tenendo la gamba in tensione - era scomodissima, ma speravo di
raggiungere la civiltà in pochi minuti, quindi avrei potuto
anche sopportare.
Dopo essere partito, mi accorsi
quasi subito che i freni non funzionavano proprio a meraviglia,
così continuai ad avanzare ad una velocità massima di
venti chilometri orari, tenendo spalancata la portiera del conducente e
rimanendo pronto a saltare fuori dall'autobus se ce ne fosse stato
bisogno.
Non sapendo dove potessi andare,
vagai alla cieca per un quasi un'ora, senza trovare anima viva. Durante
il tragitto ebbi qualche difficoltà nelle curve, che affrontavo
sempre a velocità troppo elevata. Un paio di volte l'autobus si
inclinò pericolosamente da un lato ed ebbi il terrore che si
ribaltasse, ma le sospensioni riuscirono a tenerlo dritto. In quelle
occasioni sentii l'adrenalina invadere il mio corpo e il cuore battermi
all'impazzata.
La gamba continuava a fare un male
cane e la maglia usata come benda era ormai imbrattata di sangue. Anche
se fossi riuscito a trovare qualcuno, non sapevo come sarebbero
riusciti a medicarmi. Avrei sicuramente sviluppato un'infezione.
Avevo ormai perso le speranze,
quando, lungo un rettilineo, notai la sagoma di una mezza dozzina di
persone ad un centinaio di metri di distanza. Iniziai a rallentare
subito, visto che i freni funzionavano molto malamente e mi ci sarebbe
voluto più spazio del normale per fermare l'autobus.
Quando mancava ancora una
cinquantina di metri, il gruppo di uomini si accorse di me - anzi,
dell'autobus. Esplose un colpo, che procurò un buco
perfettamente tondo sul parabrezza e sibilò accanto al mio
orecchio. Un decimo di secondo dopo mi ero abbassato, mentre altri
colpi esplodevano sopra di me, mandando in frantumi il vetro. Pigiai il
piede sul pedale del freno più forte che potevo, mentre il
ginocchio ferito pulsava così tanto che la mia vista
cominciò ad offuscarsi, ma mi sforzai a rimanere piegato.
Gli uomini smisero di sparare,
probabilmente pensando di essere riusciti a beccarmi. L'autobus
avanzò degli ultimi metri, poi si fermò completamente. Le
mie orecchie fischiavano e cercai di cambiare posizione: quando mi ero
chinato ero stato costretto a piegare il ginocchio ferito e ora
rischiavo di vomitare l'anima dal dolore. I frammenti di vetro sulla
mia schiena caddero per terra mentre mi sollevavo cautamente di qualche
centimetro.
Un rumore di passi arrivò
attutito alle mie orecchie, mentre il mio cervello lo registrava con
difficoltà. "Cazzo!", esclamò una voce che non conoscevo.
Mi sollevai ancora un po',
voltandomi verso il portello del conducente aperto. Tra la testa che
girava e il fischio nelle orecchie, la mia mente non riuscì a
riconoscere il volto dell'uomo che mi fissava atterrito.
"È Winchester!", lo sentii gridare, prima che il fischio nelle orecchie si facesse più acuto e mi facesse svenire.
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