The Bridge of Life

di TheRebelInk
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Capitolo 15
 
Dopo un’altra settimana Ettore era di nuovo in piedi. Per modo di dire comunque: restava quasi tutto il giorno chiuso in casa a studiare per gli esami ed io rimanevo seduta al tavolo rotondo del soggiorno di fronte a lui. Osservavo soprattutto i suoi movimenti, non più impacciati e goffi, ma fluidi e pieni di vitalità. Era diventato sicuro di sé: l’autostima che aveva acquisito, ora lo spingeva non solo a dare il massimo ma anche a tirare fuori il meglio, il lato migliore di quella sua personalità così complessa e piena di ombre.
Dopo cena scendevo al suo appartamento e cercavamo di arredare le stanze come meglio potevamo.
Quella sera arrivai con due barattoli di vernice in mano e un paio di tele. Suonai il campanello con il naso e quando Ettore venne ad aprire, gli franai addosso. Dopo avermi rimessa in piedi, scoppiò a ridere e mi prese dalle mani la vernice con un’espressione tra il divertito e il dubbioso.
Aveva tappezzato di plastica, giornali e nastro adesivo tutta la sua stanza, anche se questa aveva le dimensioni di un ripostiglio in pratica. Entrai appoggiando le tele con cautela e rimasi a fissare quelle pareti così vuote.
- Ho pensato che un po’ di colore non farebbe male – sentenziò Ettore. La porta e circa altri dieci barattoli di vernice diversa incorniciavano il suo corpo esile. Spalancai la bocca, poi sventolai il pennello davanti a me.
- Allora, via ai lavori! – dissi con aria di sfida.
- Vediamo che sai fare… - insinuò maliziosamente.
- Ma io prendo questa! – replicai indicando la parete contro cui era appoggiata la testiera del letto.
Afferrai il pennello e lo intinsi in un barattolo a caso, poi restai ad osservare tutto quel bianco.
Era come se il mio corpo agisse da solo. Avevo la sensazione che la mia mente fosse vuota. Gli occhi non vedevano le linee e le macchie di colore: erano sfocate, qualcosa che solo la parte più profonda e tormentata di me stava tirando fuori, come se, per una volta, volesse emergere da tutta quella tranquillità in cui credevo di averla riposta.
Era come un’onda: cresceva e cresceva sempre di più, finché la spiaggia non la spezzava improvvisamente. Non mi accorsi di quanto stessi dipingendo febbrilmente fino a che, da qualche parte nella mia mente, mi resi conto che avevo ricoperto la parete di strati e strati di vernice grigia, verde e rossa. Mi allontanai esausta, lasciando gocciolare il pennello. 
Avevo dipinto degli alberi.
Una lunga linea grigia.
Il sole che tramontava.
I girasoli.
Avevo dipinto ciò che avevo visto dal viadotto.
Quando mi riscossi, mi voltai verso Ettore che stava fissando quelle immagini a bocca aperta. Scosse piano le ciocche macchiate di vernice bianca e mormorò:- Non sapevo fossi così brava…
- Non… - trattenni il fiato – Non sei… arrabbiato?
Sorrise. – No. – Piegò la testa, come se stesse studiando la nuova parete e poi aggiunse:- Vieni, guarda.
Lasciò cadere il pennello su un giornale e mi prese la mano. – Sali – disse indicandomi il letto. Ancora attonita, mi ritrovai in piedi sul materasso. Eravamo fianco a fianco, a un palmo dalla parete.
Ettore sollevò le nostre mani intrecciate e le posò sulla vernice ancora fresca. Lo fissai in cerca di una spiegazione e lui chiuse gli occhi.
- Sono su questo viadotto – sussurrò – Vedo gli alberi e i fiori a più di cinquanta metri sotto di me. Vedo il rosso del sole, ogni sua sfumatura tra le nuvole. Vedo i pilastri che reggono il viadotto, vedo il cemento nascondersi tra le foglie. Giù, più in basso. Vedo il grano ondeggiare, come tante piccole creature che liberano al vento le loro trecce bionde.
Ettore strinse le palpebre per un momento e poi le aprì. Staccò la sua mano dalla mia e iniziò a tracciare un volto nella vernice con le dita.
- Ora sento una voce. E penso sia un Angelo, penso di essermi già buttato e che tutto sia finito. Sono felice. E poi mi accorgo che in realtà c’è una ragazza disperata che mi chiama, che grida con quanto fiato ha in gola. Mi chiede come mi chiamo. Ed io le dico quel nome ridicolo che pronunciato da lei sembra molto meglio. Ora la voglio conoscere e capisco che mi ha appena salvato la vita.
Le dita di Ettore si allontanarono e si posarono sulle mie guance. La vernice non mi dava fastidio.
- Ho imparato a conoscere colei che mi ha visto e che ha voluto ascoltarmi – bisbigliò avvicinando il suo viso al mio – Ma soprattutto, ho imparato ad amarla.
E mi baciò piano, con quella sua timidezza che mi piaceva tanto.
E in quel momento, mentre Ettore mi stringeva forte a sé, capii che anche io lo amavo.
 
 




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