Alcune
note prima di iniziare la fanfic:
-Ci sono molti riferimenti alla
1° puntata della 2° stagione in molte battute, quindi se non si capisce
qualcosa consiglio di andarsela a rivedere.
-Inoltre
ho dovuto per forza di cose fare dialoghi piuttosto elaborati e lunghi, dato il
particolare modo di parlare di Sherlock (molto veloce e stra
complicato): spero che i dialoghi non risultino troppo complessi o noiosi, ma
invito a leggerli come fa lui (e magari immaginarsi la colonna sonora da "Sherlock-sta-risolvendo-un-caso", insomma XD)
Grigio.
Le decisioni impetuose e audaci in un primo momento riempiono di
entusiasmo,
ma poi sono difficili a seguirsi e disastrose nei risultati.
(Tito Livio)
Grigio, grigio, grigio.
Il grigio copriva tutto: gli alberi, il vialetto delle
automobili, il tetto, l’ordinato prato (tagliato all’inglese, naturalmente); il cielo stesso era tinto
di grigio per quanto nevicava.
Era questo il suo mondo, da qualche settimana a quella
parte: grigio. Grigio e monotono e
noioso: i tre aggettivi che più di tutti potevano ledere quell’intelletto
che aveva costantemente la disperata necessità di sentirsi vivo. E lui, lui, il suo acerrimo
nemico, lo sapeva… e per questo aveva trovato quella soluzione, ben
peggiore di qualsiasi pericoloso viaggio in est Europa o di qualsiasi missione
segreta o di qualsiasi cosa…
Come ogni giorno, si alzò a un’imprecisata ora
compresa fra la mattina e il pomeriggio, si preparò una tazza di buon
tè caldo e si scrocchiò leggermente le ossa (senza che nessuna
maledetta voce da medico gli urlasse quanto facesse male); arrivato in
soggiorno, come d’abitudine si guardò intorno alla ricerca di
qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse
distrarre il suo intelletto annoiato; ma non trovò nulla, come sempre...
Perciò, si sedette sul divanetto accanto alla finestra e lì
rimase a guardare il paesaggio innevato, sprofondato nei ricordi e nella
malinconia e nella noia.
In quella casa poteva fare tutto, ma non poteva fare niente.
Mycroft, evidentemente, a Buckingham Palace godeva
davvero di tutto quel prestigio di cui trapelava ogni fibra del suo essere; lo
dimostrava il fatto che quella specie di prigione, in cui il suo fratellino era
formalmente agli arresti domiciliari, non mancasse di nessun lusso: essa era
provvista di televisione, computer, internet, una piscina, un magnifico prato
con tanto di boschi, una cucina rifornita ogni tre giorni, un caminetto
elettrico, un caldo letto a baldacchino. L’unica cosa che era proibita ai
suoi occupanti era andare via da lì: il boschetto e il prato terminavano
in una recinzione che solo un ristretto personale poteva oltrepassare.
Ma tutto questo sfarzo era solo un vano tentativo da parte
di Mycroft di evidenziare ciò che ogni
centimetro di quel lusso e quelle comodità urlavano alle orecchie di
Sherlock: questa è la punizione
per avermi disobbedito. Lo sparo a Magnussen
sembrava un avvenimento di una vita precedente; poi era avvenuto l’addio
di John, la falsa partenza, il ritorno di Moriarty…
e infine era arrivato il grigio, immerso in una placida campagna inglese.
All’inizio, la noia accecante di quel posto lo aveva quasi fatto
diventare matto e senza i suoi calmanti –comuni sigarette o una soluzione
contenente il 7% di una cara sostanza– si era sentito completamente spacciato: neanche
il violino, che suo fratello aveva avuto il buon cuore di trasferire fin
lì, era riuscito a quietarlo. Non aveva più toccato cibo
né pensato né suonato né provato bizzarri esperimenti
chimici né fatto nient’altro, entrando in quella che una mente
comune avrebbe definito depressione;
ma la sua non era una mente comune,
perciò la sua condizione era stata la cosa più vicina al coma
cosciente.
E poi, da due giorni a quella parte, proprio quando il frigo
era sul punto di scoppiare per quanto poco spesso veniva svuotato, proprio
quando era passato molto tempo che Sherlock non parlava più come se ci
fosse il solito qualcuno seduto sul divanetto accanto al suo, qualcosa era
improvvisamente accaduto.
«Ho fame. Andiamo a cenare.» disse una decisa
voce dietro di lui, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Non era una domanda, era piuttosto un ordine alleggerito da
un sottile strato di proposta accattivante. Sherlock Holmes levò gli
occhi al cielo grigio: passava intere giornate così, oramai.
«Non ho fame.», rispose.
Un secco schioccare di lingua.
«Questa conversazione mi sembra un dejà-vu. Lei è noioso, Mr.
Holmes» chiosò la solita voce, per poi sbuffare.
L’altro, che era ancora girato verso il grigiore della
finestra, si immaginò esattamente il viso corrucciato alle sue spalle.
«E io che pensavo che lei fosse diverso dagli altri.
È divertente come, alla fine, ogni donna finisca per dire queste parole
a un uomo, non trova?»
Per tutta risposta, l’altro prese a tamburellare le
dita sul divanetto in cui era sprofondato… In realtà, il problema
–uno dei tanti, innumerevoli problemi che affliggevano la contorta mente
dell’unico consulente investigativo al mondo–
era proprio quello che lei aveva
appena evidenziato: Irene Adler non era ogni
donna, ma era proprio La Donna.
La Donna in questione sospirò ancora, si stiracchiò
e si sedette sul sofà davanti a quello di lui, entrambi prospicienti
alla finestra.
…E accadde: Sherlock
le concesse quell’unica, brevissima, impulsiva occhiata cui si era
ripromesso di non cedere. La Donna era scalza, indossava un paio di attillati
pantaloni grigi e una semplice canotta bianca; i suoi lunghi capelli neri erano
sciolti, era struccata ma assolutamente non trasandata. Quell’unica
occhiata fu per lei un vero segno di vittoria: rannicchiata sulla poltrona
guardò quell’uomo, ancora e ancora, e alla fine sorrise di
soddisfazione.
«Oh, be’. Dopo due
giorni di convivenza siamo arrivati a guardarci.
Chissà cosa arriveremo a fare fra una settimana? Io ho già
un’idea.»
Calò il silenzio. Lui cedette ancora: si guardarono.
La neve, fuori, continuava a scendere dal cielo grigio.
I due non si vedevano da tre anni –se si escludevano
le frequenti apparizioni di lei nel Palazzo Mentale di lui, s’intende.
Miss Adler era piombata in quella casa circa due giorni prima, non appena la
depressione di Sherlock aveva iniziato la sua forma peggiore; stando alle
parole di lei, Mycroft l’aveva trovata in
tutt’altre faccende affaccendata e l’aveva segregata in quella
placida casa perché probabilmente collegata al ritorno di Moriarty… ma ancora non era stata interrogata,
esattamente come Sherlock. Per la millesima volta, il cervello di lui
tornò a farsi le stesse domande che si era già posto in quei
giorni oramai tutti identici: perché confinarli entrambi lì?
Perché farlo quasi impazzire con l’unica cosa che poteva dilaniare
il suo cervello, la tanto odiata noia, se ancora non era stato minimamente
utile al governo Britannico? E perché, perché far venire la Donna
fin lì e farla apparire proprio nel momento in cui lui era stato
più profondamente depresso?
La neve continuava a scendere; il silenzio continuava a sussistere,
interrotto solo dal sottile crepitare del fuoco.
«Sta ancora nevicando?»
Le parole di Irene parvero svegliarlo da un mondo tutto suo;
distolse finalmente lo sguardo da lei e riprese a guardare il paesaggio
innevato. Annuì vagamente.
Silenzio, ancora.
«Sa, io e lei non siamo poi tanto diversi da quella
neve» disse ancora lei.
Qualcosa, in lui,
accadde, e durò una frazione di secondo: il suo cuore iniziò ad
accelerare, la mascella smise di essere così serrata, i muscoli si
rilassarono… Naturalmente sapeva che ora alcune ghiandole del suo corpo
avrebbero rilasciato morfina, le sue dita avrebbero smesso di tamburellare per
il nervosismo e la produzione di serotonina sarebbe aumentata di un certo
fattore percentuale: il che voleva dire solo una cosa. Dopo tanto tempo,
Sherlock aveva provato interesse per qualcosa –fatto, questo, che per il
suo intelletto e il suo corpo era come un antidolorifico.
«Ed esattamente, perché?» chiese,
irritato per non aver trovato una risposta a quell’assurda affermazione,
ma inevitabilmente incuriosito da ciò che l’altra avrebbe detto.
Miss Adler esibì il suo sorrisetto asimmetrico e
furbo sul volto ossuto; i suoi occhi chiari brillarono di arguzia, la stessa
arguzia che avevano espresso quando tanto tempo prima era (quasi) riuscita a incastrarlo.
«Poco bianco e molto nero: in una parola, grigio.
Ciò di cui siamo entrambi fatti. E, casualmente, lo stesso colore dei
nostri vestiti oggi.»
Mr. Holmes quasi non le lasciò finire la frase:
sapeva dove sarebbe andata a parare –naturalmente, aveva notato da prima
di lei il curioso accordo di colori di quel giorno–
e replicò, parlando rapidamente come era solito fare, con un
sopracciglio alzato:
«Il caso non c’entra, il caso non c’entra
mai: io mi vesto sempre con pantaloni neri e camicia bianca; le giacche nere
sono a lavare, perciò ho indossato una delle tante grigie che possiedo.»
Irene, per nulla turbata dal tono polemico dell’altro,
spiegò con fare ovvio:
«Io, invece, quando sono sotto lo stesso tetto con
uomo di solito non mi vesto proprio… quindi, be’,
credo sia proprio un caso. Comunque,
Mr. Holmes, anche se l’azzardato paragone con la neve non le piace…
riconoscerà che io e lei non siamo poi troppo diversi. Potrei dire che
siamo davvero uguali, a parte per una cosa.»
Questo paragone la divertiva, e anche parecchio: i suoi
occhi chiari ed espressivi erano completamente accesi, le sue labbra sottili
inarcate di piacere. Si protese in avanti con il corpo, rannicchiandosi ancora
di più sulla poltroncina e attendendo la risposta dell’altro.
Quella donna lo avrebbe fatto impazzire. Perché
sembrava così interessata a fare della inutile e noiosa conversazione? Non
poteva lasciarlo in pace lì, a fissare il panorama, ricordando i vecchi
tempi a Baker Street mentre non mangiava né beveva nulla, a parte ottimo
tè inglese? E soprattutto, domanda irrisolta da quasi tre anni a quella
parte… perché, perché
se ne sentiva in qualche strano modo attratto, tanto da risvegliare il suo
poderoso intelletto con faccende di nessun conto? Come già era accaduto
in passato, Sherlock fu così preso dall’osservarla e così
rapito dalle domande nella sua testa che quasi incespicò nel parlare e
dovette ricominciare dall’inizio, più lentamente del solito.
«“Non essere poi troppo diversi” è
alquanto vago, no? Oh, certo, siamo simili perché abbiamo occhi chiari,
capelli neri, carnagione chiara; o forse lei pensa di essere simile a me
perché, al contrario del novantanove per cento (per fare una stima
generosa, sono buono!) dei miei clienti o conoscenti, lei almeno usa il
cervello quei dieci secondi in più che le permettono di ragionare
largamente meglio di loro? O forse perché abbiamo simulato entrambi le
nostre morti, riuscendoci chi più o chi meno? Quali di queste tre
insignificanti fattori ci rende simili, esattamente, Miss Adler? E riguardo
all’unica cosa che sfortunatamente (sì, è ironia) non
abbiamo in comune, dovrei pensare che è la sua solita battuta sessuale o
forse stavolta c’è qualcosa di più profondo?»
Come suo solito, aveva detto tutto questo senza neanche
prendere fiato e rimanendo completamente impassibile, come accadeva quando era
scocciato da qualcosa o qualcuno: lei ne sembrava assolutamente deliziata.
«Pecca di orgoglio: lo siamo.» sentenziò,
corrucciando il viso in tono ironico. «Come ha detto, usiamo il cervello,
a differenza di tanti altri; amiamo i misteri, io personalmente amo le storie
di detective; ci piace sentirci ammirati, applauditi, lodati, tanto da
reputarci i migliori nei rispettivi settori; usiamo le altre persone per i
nostri fini; ci preoccupiamo solo del tuo
o mio interesse. Basta? Ah, e
poi… sì, abbiamo agito assai raramente d’impulso, e questo
ci ha entrambi portato alla rovina.»
Quest’ultima affermazione fu così palesemente
ridicola che Sherlock si trovò a ridere rumorosamente; chinò il
capo all’indietro, batté una mano sulla propria coscia e si
alzò in piedi. Agire d’impulso, lui! Sherlock Holmes, il primo (nonché unico) consulente
investigativo al mondo, che basava la sua intera esistenza in piani
d’azione calcolati al millimetro e al secondo!
«Be’, la conosco troppo poco per sapere quando
lei ha agito d’impulso… ma conosco abbastanza bene me stesso da
sapere che non vi ho mai
ceduto.»
Di nuovo, sul volto di lei apparvero il sorrisetto e
l’arguzia: l’altro, istintivamente, deglutì. La Donna,
checché ne dicesse, non era affatto stupida né faceva
osservazioni senza senso; e riguardo a quell’unica cosa che non avevano
in comune…
«Come le ho detto, pecca di orgoglio, Sherlock.
Qualche minuto fa ha ceduto all’impulso che provava da quando ho messo
piedi qui dentro: guardarmi. Non mi sarei mai avvicinata tanto se il suo
sguardo non me lo avesse chiesto contro il suo stesso intelletto, Mr.
Holmes… E questo è uno.»
replicò lei, gli occhi da gatta pericolosamente vivaci.
Per la prima volta da molto, molto tempo, Sherlock Holmes si
trovò spiazzato. La osservò dall’alto in basso, e lo strano
silenzio che tanto caratterizzava e tanto aveva caratterizzato in passato il
loro rapporto aleggiò ancora nell’aria.
«E poi… be’. Non
sarebbe qui se non avesse preso una decisione impetuosa. Ma se non mi crede, perché
non chiediamo direttamente a Magnussen, che ne dice?»
propose, alzando ironicamente le sopracciglia fini.
A quel nome, il cuore di lui mancò un colpo; che cosa
strana… era davvero, davvero tanto umano e banale? E La Donna lo aveva
capito così bene? Aveva maledettamente ragione: sparare a Magnussen contro qualsiasi schema logico d’azione era
esattamente ciò che rientrava sotto il nome di istinto.
E neanche lei, d’altra parte, sarebbe mai stata
incastrata in quella casa se non avesse agito impulsivamente per l’unica
volta in vita sua… Quella fredda calcolatrice, che usava i propri clienti
come pura forma di protezione, tre anni prima non era davvero riuscita a
resistere a quella breve, impulsiva voglia di utilizzare quella password per il suo prezioso cellulare. E, dopo un breve
fremito iniziale di soddisfazione ed entusiasmo, quell’azione le era
costata protezione, sicurezza, lavoro, dignità… come a lui. E quell’impulsività
dimostrava inevitabilmente che sia lei che lui erano semplicemente umani, sebbene volessero dare a vedere
tutt’altro.
«Ho ragione, vede? Be’, a quanto pare
l’impulso ci ha rovinato entrambi… e, indirettamente, ci ha portati
in questa casa.»
Ancora, calò il silenzio. Temendo che dal suo sguardo
potesse trasparire fin troppo, il detective si risedette e riprese
l’osservazione del paesaggio invernale, oramai divenuto piuttosto buio.
Erano davvero così uguali? Ora poteva ragionare
meglio, senza che il suo orgoglio intaccasse qualsiasi cosa la Donna dicesse. Come
d’abitudine, unì i polpastrelli e vi appoggiò mento, labbra
e punta del naso: simbolo, questo, che Sherlock adottava quando era immerso in
un caso da risolvere, ma stavolta con se stesso nella bizzarra posizione di cliente.
Era vero, per quelle situazioni che Miss Adler aveva
nominato sembravano così simili… ed era, forse, proprio questo che
tempo prima lo aveva (per così dire) incuriosito
di lei… era tutta una questione di mera chimica, razionalmente parlando: non
c’era davvero null’altro e di questo Sherlock Holmes ne era
più che mai convinto. Ma insomma, essere addirittura uguali, a parte una
piccola cosa?
«No.» alla fine disse, guardandola al di sopra
dei propri polpastrelli.
La Donna non sembrò piccata dalla negazione;
interessata, semmai, e leggermente scettica. Attese una sua spiegazione –perché
sapeva che lui l’avrebbe data.
«Lei… è andata troppo oltre.»
«Oltre? Per il mio lavoro, per i frustini, Mr. Holmes?
O per l’aver accolto lei e il suo amichetto con il miglior vestito che
possegga, la prima volta che ci siamo incontrati?» replicò
l’altra, volendo sembrare ironica e noncurante; ma Sherlock sapeva che la
sua era solo finzione.
Infine lui parlò, stavolta lentamente:
«No. Lei usa le persone per i suoi scopi, per la sua
protezione, per il suo tornaconto; le stesse persone che guarderebbe morire
senza problemi, se fosse proprio necessario. Lei farebbe (o meglio, avrebbe fatto) cadere il governo Britannico
pur di essere al sicuro. Lei non ha amici, né conoscenti, né
qualcuno di caro: e questo, per l’appunto, è perché si
è spinta troppo oltre e non le farebbero comodo, sarebbero solo
d’intralcio. E il cielo solo sa quanto può avercela avuta con se
stessa per essersi lasciata emotivamente andare nel caso più importante
della sua vita, tre anni fa… sì, con me, esattamente. E anche
stare in questa casa sperduta nella campagna inglese, con solo la neve intorno
a noi, dove può avere un uomo cui spera presto di concedersi e nel
frattempo essere completamente al sicuro da qualsiasi minaccia esterna con il
piccolo svantaggio di non poter andare dove vuole… ma con un letto a
baldacchino, la cucina rifornita spesso, una piscina e un caminetto, che
importanza vuole che faccia?»
L’altra, di tutta risposta, agì velocissima: scattò
in piedi, si avvicinò a lui e lo schiaffeggiò in piena faccia.
Per poi ritornarsi a sedere come nulla fosse.
«Uh, avevo avuto ragione, tempo fa. I suoi zigomi sono
veramente taglienti. Era da un po’ che volevo farlo.»,
commentò, leggera.
«Non è l’unica a dirlo, temo.»
borbottò l’altro, massaggiandosi leggermente la guancia.
Calò il silenzio, ancora; ma Sherlock era sicuro di
aver fatto centro. Lei stava solo rimuginando per dare l’impressione di
non essere stata colpita troppo.
«Cosa dovrei dirle? Ha ragione. A mio discapito,
però, posso dire che tutto ciò che ho fatto è stato per
pura, comprensibile ed umana
protezione; come le dissi al nostro primo scontro, mi piace conoscere gente che
sarà dalla mia parte esattamente quando ne avrò bisogno… e
per farlo, be’, mi comporto male. Semplice. Ma
è una legge di natura, Mr. Holmes: vince chi si adatta
all’ambiente, non il più
bello o il più buono… o il più intelligente.»
Si guardarono, stavolta per lungo tempo. Prima che la
memoria o la coscienza potessero comunicarglielo, Sherlock pensò
automaticamente che John sarebbe prima o poi intervenuto a colmare quell’imbarazzante
(per lui) vuoto; ma quando realizzò per l’ennesima volta dove veramente
si trovava sentì, come al solito, che il suo cuore aveva perso un
battito.
«Tutto questo, dunque, ci porta a una sola
conclusione, implicitamente nascosta nelle sue parole. Lei è il buono e io sono la cattiva della situazione, o sbaglio? Come ha detto, io sono andata oltre il limite che un
“buono” non supererebbe mai. Eppure, le nostre uguaglianze
rimangono.»
I suoi occhi chiari lo stavano ora scrutando e nella sua
voce si percepiva una certa derisione.
Questo era un qualcosa cui Sherlock Holmes non aveva mai e
poi mai pensato –il che per lui era parecchio strano e faticoso da
ammettere. Si trovava nella particolare e nuova posizione di essere “il
buono” o “il puro” fra i due; cosa veramente bizzarra, visto
che gli unici amici che possedeva erano un comandante di polizia, un pezzo di
pane, un’eccentrica affittuaria di casa, un’asociale medico
patologo e una neomamma (ex assassina, sì, ma piuttosto pentita) e
rispetto a loro era sempre sembrato un mostro privo di gratitudine o rispetto.
Ma La Donna, La Donna… era veramente diversa da tutto
e da tutti; e, volente o nolente, in maniera razionale o no, lui ne era
inevitabilmente attratto. Il suo intelletto aspirava a sensazioni nuove, stimolanti,
in continuo mutamento, e la Donna era assolutamente all’altezza di tutte
quante queste aspettative: era un intrigato mistero da svolgere, una pentola
costantemente pronta ad esplodere, un velenoso serpente che non avrebbe esitato
a colpire per la propria salvaguarda; e tutto questo, condito da un intelletto
assolutamente formidabile, capace di razionalizzare e dominare qualsiasi istinto
e scattante nel risolvere delicati intrighi polizieschi, con una sveltezza
seconda solo (ovviamente) a quella di lui.
Era quasi calata la sera; il paesaggio grigiastro era
divenuto completamente nero.
«Io, il buono?
Ma per favore…»
mormorò lui, con aria quasi schifata, più a se stesso che
all’altra. Era vero, essere buono rispetto
a Irene Adler non voleva dire poi molto; ma, in qualche modo, quella
definizione tranciante lo turbava.
«Mi dispiace davvero, ma a mio parere invece lo
è, il che è causato da quell’unica cosa che non abbiamo in
comune che lei ancora non ha capito cos’è. E lo è in modo
drasticamente banale: farebbe di
tutto per una coccola del caro John, o per poter vedere anche per un secondo la
sua bambina e sapere se effettivamente l’ha chiamata con il suo ridicolo
nome, o sbaglio? Ha sacrificato Baker Street, il suo ritorno sulle scene del
crimine, la sua salute e (più di tutti) il suo amato lavoro per finire
qui dentro senza nulla da fare, in mano a qualcuno che per lei è ancora
peggiore di Jim Moriarty: se non è essere
buoni, questo, che cos’è, Mr. Holmes? Io sarò andata oltre,
e ne sono fiera, ma non ho rischiato alcunché, mi sono semplicemente
goduta la vita; e qui, come lei prima ha fatto caldamente notare, sarò
ancora più protetta che altrove… e, fra parentesi, sul fatto che
spero che lei si conceda a me, be’, la vedo
davvero bruttina.»
Il solo sentire nominare Baker Street fu per lui più
letale di quanto avesse mai potuto immaginare; rimase muto per qualche minuto,
lo sguardo che vagava ancora per il paesaggio oramai notturno, chiedendosi per
l’ennesima volta quanto fosse lontano da casa.
Era stato davvero così ingenuo e folle e umano a fare
tutto ciò che La Donna aveva elencato? Detto da quelle labbra
accattivanti e con quel tono ironico, Sherlock si sentì quasi
(…quasi) un idiota.
Chiuse gli occhi per un solo, eterno secondo. E
realizzò. Sì, La Donna aveva ragione, aveva sacrificato
tutto… ma per John. Per John.
Sherlock Holmes si ritrovò a sorridere dopo parecchio
tempo: aveva risolto anche questo caso. Sì, lui e miss Adler erano
davvero così simili in
così tanti aspetti… tranne uno, uno solo, il fondamentale: John. Era
proprio quella l’unica differenza che La Donna aveva prima menzionato:
incredibilmente, l’aveva capito perfino prima di lui.
Lei era esattamente ciò che lui sarebbe diventato
(…uso dei frustini esclusi, insomma) in un terribile universo alternativo
in cui non esisteva nessuna Baker Street e nessun coinquilino, limite cui
Sherlock in passato si era davvero molto spesso avvicinato ma che non aveva mai
davvero perpetrato a fondo. Al loro primo incontro miss Adler lo aveva
narcotizzato solo per riavere il suo cellulare; lo aveva usato per comunicare
deliberatamente con Moriarty; aveva usufruito di
quello strano legame che ancora li teneva uniti per farsi salvare da un’esecuzione
nel deserto asiatico per poi sparire per tre lunghi anni. Lui, molto tempo
prima di conoscere John, si galvanizzava all’idea di uccisioni di bambini
e pregava per avere qualche rapimento per spezzare la routine; senza John non
avrebbe mai sacrificato così tanto per nessuno; e, be’,
senza John era quasi arrivato al limite di non avere amici, ma non
l’aveva mai davvero oltrepassato…
Ma se l’avere John, in qualche strano modo, voleva dire
essere dalla parte dei buoni, allora…
«E a causa di quell’unica differenza fra noi
due, Mr. Holmes, le posso attribuire un grigio più chiaro del mio grigio-quasi-nero… ma sempre grigio rimane, insomma.
Non le piace come colore?»
Di nuovo, la guardò. No, odiava il grigio: era un
colore esasperatamente insignificante, monotono, triste; inoltre, avrebbe per
sempre associato il grigio a quella prigione di neve e prato e solitudine in
cui suo fratello lo teneva rinchiuso, lontano da Londra…
Irene guardò fuori dalla finestra e parlò come
se lui avesse risposto, quasi leggendogli il pensiero.
«Oh, be’, a me
sì. Mi dona. Lo associo alla materia grigia, che abbiamo entrambi da
vendere. Lo associo alla neve, che amo. E poi il grigio è scuro relativamente al bianco, ma chiaro relativamente al nero, no?»
Sherlock quasi sorrise. Non era ciò che era proprio
lui, scuro e cattivo e sociopatico (anzi, sociopatico
ad alta funzionalità) rispetto agli altri, ma chiaro e buono e pieno
di amici e disposto al sacrificio rispetto alla Donna? Strano come queste
ultime tre parole non gli dessero fastidio; e strano come, per un solo secondo,
si sentì più leggero, meno triste per essere tanto lontano da
casa, più umano…
Ancora, silenzio. Era oramai sera; la neve grigia non
c’era più, solo un nero manto indistinguibile.
Forse alla Donna era venuta noia di discorsi filosofici, o
forse aveva capito che aveva fatto esattamente breccia nella complessa (e complessata)
psicologia dell’altro, o forse neanche veramente le importava fintanto
che poteva guardare Sherlock Holmes in santa pace; neanche provò a
riaprire il discorso per sottolineare il fatto che fosse arrivata prima di lui
a capire qualcosa. Si limitò semplicemente a guardare quegli zigomi alti
e quegli occhi chiari e quella mano destra che era ancora nella sua tipica posa
di riflessione (pollice e indice appoggiati fra labbra e naso e guance, dita
semichiuse, sguardo vacuo)… e, in qualche inevitabile e incredibile modo,
si ritrovò a sorridere di vero cuore come raramente le era capitato di
fare.
Le luci non erano state accese: i due erano stati troppo
impegnati a parlare per rendersene conto. Il salottino era al buio, eccezion
fatta per la flebile luce del fuoco dietro di loro.
Sherlock stava per dire qualcosa; ma lei non gli diede
tempo, come se sapesse ciò che avrebbe detto. Irene si alzò,
agile come suo solito, si avvicinò all’altra poltroncina e si
inginocchiò. Una mano calda scorse nel buio prima lungo la spalla destra
di lui, poi accarezzò leggermente la sua guancia e infine tirò il
polso e l’appoggiò al bracciolo.
Lui sorrise, piano.
Irene Adler non era leale, non era virtuosa, non era
docile… insomma, non era buona, come a
quanto pare lui era (almeno rispetto a lei). Era perversa, ingannatrice,
manipolatrice, inusuale, brillante, fin troppo sveglia. In una parola, era perfetta.
«Sa, qualche tempo fa un uomo molto sexy mi
insegnò a interpretare i battiti del polso» iniziò La
Donna.
Poggiò due dita finemente smaltate di rosso sopra il
suo polso; l’altro rimase in silenzio.
«Mr. Holmes, c’è una cosa che posso dire inequivocabilmente di lei.»
Si guardarono: grigio nel grigio –chi più, chi
meno scuro.
«Lei ha fame.»
E Sherlock
Holmes, infine, capì.
«Be’, allora… andiamo a cenare, no?»
rispose, quasi in un sussurro, vicino all’orecchio di lei.
****************
Ah.
*sospira*
Era da
tantissimo tempo che volevo scrivere una AdLock (un
pochino più lunga della flash che ho pubblicato un mesetto fa) e non appena
ho visto questo contest ho preso al volo l’occasione.
Dovevamo descrivere punti di vista diversi di una coppia
composta da un personaggio “buono” e da uno “cattivo”,
ma la particolarità di tutto stava nel rendere questi punti di vista
reali e umani. Dovevamo mostrare un
loro litigio o comunque una discussione in cui si evincessero questi differenti
punti di vista e infine descrivere una probabile reazione del
“buono” al carattere del cattivo. Il tutto unito da un pacchetto
chiuso contenente una citazione, un prompt e un
sentimento.
Come
coppia ho appunto scelto Sherlock (nel ruolo di “buono”) e Irene e
come citazione avevo quella di Tito Livio che ho scritto in alto (che fra
l’altro è una frase che ritengo verissima x°D)
e come prompt la parola neve (il sentimento non l’ho usato perché non sapevo
come usarlo).
Spero
veramente di aver reso le differenze fra i due e di non aver fatto sembrare lei
come un mostro malvagio o lui come un buon santarellino, cosa che entrambi
(…soprattutto lui <3) non
sono.
Io li amo
davvero. Il mio cervello probabilmente mi dice di shippare
Molly con Sherlock, perché lei è estremamente buona e timida e caruccia; ma il mio cuore mi dice di tifare per Irene, che
secondo me nella serie è resa benissimo (ok, ho dovuto fare un po’
di fatica a mandar giù il fatto che sia una battona, perché va
contro i miei principi eccetera eccetera X°D) ed è l’unico essere umano ad essere
veramente all’altezza di Sherlock. Gli sguardi di
incredulità/ammirazione/chissàcosa che
lui le lancia durante la 2x01 hanno causato spasmi alla mia fangirlosità
e ditemi tutto ciò che volete, ma Sherlock davvero non me la racconta
giusta nei suoi confronti in quell’episodio. Insomma, tanto per andare
sul banale: perché mai avrebbe dovuto salvarla dall’esecuzione nel
deserto? Oppure, perché lei nella 3° stagione appare (nuda 8D) nel
suo Mind Palace?
Nella fanfic ho citato quasi esplicitamente la 2x01, con
riferimenti anche un po’ sottili ma veri, tipo Sherlock che la guarda e
poi si impappina a parlare (quando, a casa di Irene, lei gli chiede se ha
risolto il caso del tizio ucciso dal boomerang) oppure il fatto che in quella
puntata i due si guardano molto e in completo silenzio (puntualmente interrotto
da John >_>).
Insomma,
spero davvero soprattutto di aver reso bene questi due caratteri enormemente
difficili da trattare e di aver sviluppato bene la loro relazione. Non è
stata una passeggiata scriverla, soprattutto perché non aveva idea di
come farli interagire. Ma il buon Mycroft ha pensato
a tutto XD (ho lasciato apposta aperta la domanda se Mycroft
abbia fatto comparire la Donna in quella casa intenzionalmente, perché
Sherlock era seriamente depresso, o se sia stato solo un caso perché
voleva davvero interrogarla… scegliete voi! Io la risposta penso di
saperla).
Commentino,
per favore? **
Clahp