That
Love is All There is
di Terre del Nord
Slytherin's Blood
Chains
- IV.024
- Bramosia
Rodolphus Lestrange
Trevillick, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
Il
castello era immerso nell'oscurità del
novilunio, sinistra sagoma stagliata contro un gelido cielo stellato,
inerpicato sulla scogliera, tra colline aspre che s'inseguivano fino a
gettarsi nell'oceano. C’eravamo Materializzati nel parco di
Trevillick, intabarrati nei nostri mantelli, in silenzio: avevo la
bocca protetta dal bavero di pelliccia, il cappuccio calato fin quasi
sugli occhi, la mente lontana, isolato persino da me stesso, in quel
nido tiepido che tanfava di me, di fumo, di sudore.
E
di sangue.
Mi affrettai, muovendomi pesante sul ghiaccio, lo sentivo spezzarsi
sotto di me. Fremetti: mi piaceva quel suono, il suono di qualcosa di
puro e integro che si rompe, si corrompe, si distrugge.
Grazie a me.
Mi mossi in silenzio tra i radi alberi scheletriti, diretto al portale
di pietra antica, senza voltarmi, senza assicurarmi che lei mi stesse
ancora dietro. Mi scansai il bavero, ormai sulla porta, respirai a
fondo, la pelle bruciò per il freddo, l'alito si
cristallizzò in spire che non caddero giù,
dissolte all'istante dal vento, un vento che ululava rabbioso come il
mio cuore, carico della salsedine strappata all'oceano, gonfio, sotto
di noi. La giornata era stata lunga, infinita, eppure la furia degli
elementi riaccendeva nelle mie membra una frenesia indomabile. I miei
sensi erano quelli di un lupo non ancora appagato, spinto dal desiderio
e dal bisogno della caccia. Spinsi di prepotenza la porta, infilandomi
dentro, rapido. Dovevo reprimere quella bramosia, chiudermi la notte
alle spalle.
E
questa vita. E lei... La mia vita con lei...
La schiera degli Elfi si presentò nell'oscuro vestibolo,
ossequiosa, pronta a soddisfare qualsiasi richiesta. Abbaiai loro
contro, di sparire e di lasciarmi in pace, non li volevo tra i piedi,
non volevo nessuno tra i piedi, proseguii lasciandomeli alle spalle,
consapevole che sarebbero corsi a rintanarsi negli antri più
nascosti, come luridi ratti, prima che Bellatrix piombasse su di loro e
ne centrasse uno a caso, con un Avada. L'ultima volta era toccato a
Tinkly, troppo vecchio, troppo lento. E di certo, quella sera, nemmeno
liquidarne una mezza dozzina sarebbe bastato a placarla. Ghignai.
*
Rodolphus Lestrange
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
«Mio
Signore... comandate... ucciderò io
stessa quella dannata Strega... per voi... »
Quando il Signore Oscuro
ci aveva convocato, tra i ruderi di Morvah, io mi ero mantenuto
nell'ombra, in piedi, mentre Bellatrix, preda del suo entusiasmo,
esaltata dal sangue, era corsa quasi a prostrarsi di fronte a lui,
senza curarsi dei presenti. Fino a qualche ora prima, un moto di
gelosia mi avrebbe devastato, sarei stato offeso da quella mancanza di
riguardo verso di me, di fronte a tutti, ma ora... ora che per me lei
era solo carne, nemmeno la gelosia verso Milord era più un
dolore tanto potente e insopportabile. Quelle scene erano solo la
conferma, la riprova della vita miserabile che mi ero scelto, al suo
fianco. Un continuo ammonimento perché aprissi gli occhi e
recuperassi il senno. Mi sentivo anestetizzato, fuori dal mio essere,
staccato dal mio sentire.
Bellatrix era convinta
che uno dei Mangiamorte avesse trovato Lady Sherton, io che saremmo
stati rimproverati per le libertà che c’eravamo
presi col marito. Mi chiesi se non fosse morto, l'ultimo colpo alla
nuca era stato tanto potente e devastante per lui, quanto liberatorio,
per me. Il Lord era di certo infuriato con noi. Vibrai ma non di paura,
sgarrare mi faceva solo sentire più vivo.
Per mia fortuna,
però, Bellatrix ed io c’eravamo sbagliati.
Entrambi.
«Ho bisogno
di voi ancora per poco qui... poi tornerete a
Londra... Sarà più utile Abraxas, con gli
Sherton, questa notte, visto quello che ho in mente per loro... Ma non
consideratevi congedati... mi serve qualcosa di molto importante...
qualcosa che solo voi due potete darmi... »
«Qualunque
cosa, Mio Signore... »
«Ho bisogno
di tuo zio, Bellatrix... Voglio... Orion Black...
»
«Mio zio? Mio
Signore, io... quell'uomo... »
Trattenni a stento un
ghigno, quando vidi l'ira infuocare gli occhi di Bellatrix. Con quel
“Voglio”, pronunciato in un soffio, carico
d’inesorabile urgenza, Milord non si riferiva certo al Sangue
del caro zio Black, ma alla sua supina e preziosa collaborazione.
Bellatrix non era portata per questo genere di aspetti del nostro
“lavoro”, preferiva lo spargimento del sangue alla
sottile arte della corruzione. Inoltre sapevo quanto disprezzasse i
membri più moderati della sua famiglia, per questo, sentirsi
dire dal Signore Oscuro che era necessaria la collaborazione di suo
zio, agli occhi di mia moglie a dir poco un inetto, era un'offesa
personale, un colpo al suo orgoglio. Nel suo cuore, con il suo impeto,
la sua devozione, il suo furore, lei immaginava di compensare agli
occhi di Milord tutte le mancanze della sua codarda famiglia.
Evidentemente il Lord non la pensava allo stesso modo e, ad aggravare
la situazione, aveva avuto cura di affermarlo di fronte a tutti.
«Faremo
visita a Black questa sera stessa, mio Signore... so
come renderlo collaborativo... conosco un paio di argomenti con i quali
ottenere la sua piena attenzione e collaborazione... »
«Bene,
Rodolphus... Black non deve sfuggirti... al pari della
Strega ha informazioni preziose per la nostra causa... inoltre ha
tergiversato anche troppo... deve scegliere... da che parte stare...
»
Milord mi aveva chiesto di parlare in privato, sugli ultimi momenti
passati a Londra; una volta congedati,
Bellatrix era rimasta a lungo davanti al fuoco, inerte, silenziosa, gli
occhi persi nelle fiamme: era furibonda e fuori di sé. Ed
io... in cuor mio, vederla così offesa, delusa, infuriata
per quell'umiliazione, di fronte a tutti gli altri, era fonte di
soddisfazione e divertimento per me. Volevo che soffrisse, che fosse
umiliata, come lei aveva umiliato me.
E
dall'unica persona
che ammiri, mia cara, dall'unica che porti
così a fondo nel tuo cuore.
*
Rodolphus Lestrange
Trevillick, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
Il portale si richiuse con violenza, la sua voce ruggì
maledizioni e insulti, contro tutti, di sicuro anche contro di me. Non
me ne curai, guardai l'immensa scalinata che portava ai piani
superiori, alla camera da letto che usavano i miei quando, d'estate,
risiedevamo nella casa di mia madre, nel Cornwall, immersa nel profumo
dei suoi roseti. Rabbrividii di disgusto e inquietudine, ricordando le
urla di mio padre, i suoi passi pesanti, le lacrime di mia madre.
Percependo l'alito freddo dei fantasmi e dei ricordi, mi trascinai
lungo il corridoio, fino al salottino, disseminando a terra, dietro di
me, uno dopo l'altro, il mantello, la toga, e via via strati e strati
di vesti.
Come facevo ai bei
tempi, quando non ero ancora un uomo ma un ragazzo, quando tornavo in
quella casa alle ore più impensabili, al termine di notti
furiose, fatte di sesso, di sbronze... e di sangue…
portandomi dietro qualche femmina o passando il tempo a perseguitare
mio fratello.
«Rodolphus!»
Sì, la troia ce l'ha con me.
Ghignai, di nuovo. E, di nuovo, non mi voltai.
Afferrai alcune bottiglie di Firewhisky che occhieggiavano sul tavolino
e puntai la bacchetta per chiudere la porta con un incantesimo, deciso
a stare da solo, in pace, sbronzandomi fino a perdere non solo
conoscenza, ma persino il ricordo di me stesso. Avevamo sistemato anche
Black, ormai... Risi, osservando la lacerazione che mi ero procurato
alle nocche, quando avevo messo le mani addosso a quel dannato
damerino, perché mi consegnasse i ricordi che volevo della
sua visita a Hogwarts e... non solo quello. C’era voluto
più del previsto, credevo avrebbe ceduto molto
più velocemente... ma anche con lui... io sapevo sempre come
risultare... convincente.
Orion mi aveva bandito dalla sua casa, da alcune settimane, dopo i
fatti di Herrengton, ma il fatto che fossi il nuovo Lord Lestrange di
colpo aveva aperto delle opportunità nuove. L'idea di
torturare emotivamente quell'uomo, di tenerlo sulle spine, mi aveva
solleticato la fantasia e permesso di sopportare la tediosa cena con
sua moglie, quella dannata piattola del figlioletto e quello stronzo di
Pollux... prima o poi mi sarei vendicato di quella notte... e mi sarei
preso la sua vita... e tutto il resto.
Mio
padre... Sherton... Black...
Sì, dopo una
giornata intensa come questa, mi merito riposo,
pace e tranquillità.
Ciò che voleva la ragione, però, non era
condiviso dall'istinto. L'irrequietezza mi palpitava sotto pelle,
dotata di vita propria: sapevo che non avrebbe portato a nulla di
buono, lo sapevo, ero troppo stanco per riuscire a governarla e
indirizzarla in una missione coerente e fruttuosa… ma non
stanco a sufficienza da spegnerla soltanto chiudendo gli occhi e
abbandonandomi su quel divano. Era quel genere d'inquietudine che non
ti lasciava in pace finché non le avevi concesso
un'occasione.
Dovevo soffocarla in qualche modo. Sprofondai su una delle poltrone di
broccato davanti al caminetto, con un colpo di bacchetta accesi il
fuoco e lo aizzai, fissandolo stregato. Più lo fissavo,
più lo aizzavo, ancora e di nuovo, sempre di più,
lo alimentai fin quasi a sentire la carezza dolorosa delle fiamme sul
mio corpo mezzo nudo, allungato com'ero lì davanti. Poco
alla volta, scivolai in un senso di torpore, non sentivo quasi
più nulla, non tanto per l'alcool che iniziava a
ottenebrarmi i sensi, ma perché ero completamente preso
nella danza delle fiamme, con gli occhi, con il ricordo, con la pelle.
Il ghigno si affacciò di nuovo sul mio volto, mentre la
vista di quelle fiamme si confondeva con un altro falò,
ripensai ad altre cose che si muovevano nel fuoco. No, la mia bramosia
non riusciva a trarre quiete, da quel calore e da quella sbornia,
anzi... la mente era agitata, reattiva, sollecitata, desiderosa,
bramosa di qualcosa di più, molto di più.
Avevo scolato la prima bottiglia in pochi minuti, il Firewhisky mi
bruciava le viscere come il fuoco mi scaldava la pelle nuda. Estasiato
da quelle sensazioni, le fomentai ancora, così posai la
seconda bottiglia a terra, ancora più rapidamente. La voce
di Bellatrix, sempre più alterata si percepiva appena di
là della pesante porta di quercia, non me ne curai, ero
impegnato nella contemplazione, mi compiacevo delle immagini che
rivivevo nel fuoco, sentivo ancora quasi l'odore della carne che
bruciava e si contorceva, ammiravo ancora quel volto devastato dal
dolore e dalla sorpresa, che si distruggeva nelle fiamme, il sorriso
sordido, il più odiato, quello legato ai peggiori ricordi
della mia vita, distrutto per sempre in quelle folli urla disumane. Ed
era opera mia. Risi.
Oh sì...
brucia... brucia... brucia... brucia...
Brucia all'inferno...
Brucia all'inferno...
Brucia! Padre!
Avrei dovuto bruciarlo vivo, mio padre. Me ne resi conto solo in quel
momento. Avevo avuto troppa fretta nel mettere fine all'incubo e al
tormento di tutta la mia vita con un asettico Avada Kedavra. Ero stato
troppo misericordioso. Era per questo che smaniavo ancora. Era per
questo che non ero soddisfatto. Mi era lasciato prendere
dall'impazienza. Non sarebbe accaduto più. In quel momento
avevo tratto la forza, sufficiente a liberarmi dalle catene di una vita
intera, nell'odio che aveva generato in me il tradimento di Bellatrix,
l'unica creatura che avevo immaginato di poter amare… Ora
ero consapevole che non era così, no... ero solo ottenebrato
dalla lussuria che lei riusciva a scatenare in me, molto più
potente e devastante di quella che albergava per natura nel mio animo.
Lei era solo… lei riusciva solo a rendere ancora
più devastante il mio fuoco, perché era lei
stessa fuoco, era come me. Come uno stupido, avevo dimenticato di
essere fuoco, anche senza di lei. Osservare quelle fiamme, ripensare,
capire, mi faceva sentire di nuovo libero, potente. Ero di nuovo il
padrone di me stesso e del mio destino. Dopo quelle inutili settimane
passate a credere e a temere che lei fosse riuscita a trovare un cuore,
nascosto nel mio petto, ero tornato in me.
Niente più
stupide romanticherie, niente più
stupide debolezze.
Avrei salutato la mia nuova consapevolezza e la mia libertà
progettando una vendetta feroce e inesorabile verso quei due,
sì... era lo stesso intento che mi aveva perseguitato per
tutto il giorno, ma se prima ero mosso dalla rabbia e dalla
disperazione, ora... aprii il medaglione che avevo al collo,
trasfigurai la foto che c'era nascosta dentro, accarezzai la pergamena
preziosa che avevo strappato a Black. Non risi, mi limitai a ghignare.
Sarei andato fino in fondo nella mia volontà di distruggere
e vendicarmi di Mirzam... l'avrei fatto impazzire dal dolore, dalla
paura, dall'angoscia... dal senso di colpa. Avrebbe pregato di ottenere
la morte, pur di smettere di pensare, di sapere, di soffrire: avrebbe
pagato, notte dopo notte, ogni affronto che mi aveva rivolto. Fino alla
pazzia.
Sì,
caro il mio Sherton... quello che ho fatto oggi... ho appena
iniziato... con te...
*
Rodolphus Lestrange
74, Essex Street, Londra - sab. 15 gennaio 1972
Nessuno di noi si era
illuso che sarebbe stato semplice: nella nostra memoria era ancora
vivida la notte di Herrengton, una vittoria semplice trasformata
improvvisamente in un caotico e disperato tentativo di fuga.
Così pieni di noi stessi, di entusiasmo e di sete di sangue,
però, nessuno tra noi aveva preso in seria considerazione
l'eventualità di poter sbagliare di nuovo. E
invece…
Quando il Maestro era
apparso, al massimo del suo maligno splendore, al centro del salotto
del 74 di Essex Street, avevo ghignato... pochi istanti dopo, l'unica
sensazione che provavo era confusione. Non sapevo come Sherton avesse
fatto, ma Milord era rimasto imprigionato col nemico dietro una
barriera di fiamme, investito dalla sua stessa Magia; all'inizio non ne
ero certo, poi non ebbi più dubbi, era proprio la Magia
scaturita dalla sua bacchetta, Sherton aveva gettato a terra la propria
e si era buttato in ginocchio, pur senza essere ferito. Sembrava che
gli incantesimi del Lord non sortissero effetto su di lui: tutti noi
incitavamo il Maestro a colpire più forte, prima o poi quel
bastardo avrebbe dovuto cedere, e Bellatrix prima, poi anche alcuni
degli altri, andando contro gli ordini, avevano iniziato a scagliare
Cruciatus contro il Mago del Nord per aiutare Milord, ma nessuno di
loro riuscì a fermarlo. Io ero ammutolito, immobile, con la
terribile sensazione che ci fosse un trucco e che colpirlo fosse
esattamente ciò che Sherton voleva da noi: il Signore Oscuro
in breve, dovette lottare contro fiamme che, subdole, avevano
attecchito sulle sue vesti, Sherton si rimise in piedi, al centro della
stanza, e continuò a non fare nulla, ignorando persino il
fuoco che gli stava andando incontro. Lo fissai, con orrore vidi che
sorrideva e salmodiava una delle sue dannate filastrocche gaeliche, era
con quella che dominava il fuoco: Sherton era l'unico in quella stanza
a sapere cosa stesse accadendo. Ne aveva il pieno controllo.
All'improvviso un boato
ci investì, un tremore profondo ci fece crollare a terra,
poi il risucchio dell'aria mi travolse, mi sollevò e mi
schiantò contro la parete dietro di me, sentii qualcosa
cadermi addosso, colpirmi in testa e stordirmi. Privo di respiro,
soffocato dalla pressione e dal calore che pareva sprigionato dal
centro infernale della terra, dolorante, per secondi interminabili
pensai di essere in punto di morte poi, sempre confuso, avevo cercato
di rimettermi in piedi, mi ero guardato intorno, e avevo visto Milord e
Sherton presi tra fiamme ancora più alte, prossime ormai al
soffitto. Gli altri, tutti schiantati come me contro le pareti, si
stavano riprendendo lentamente, una voragine si era aperta nel
pavimento tra il caminetto e la porta che dava sul giardino, parte
della parete di fronte era venuta giù, il corpo inanimato di
Emerson doveva essere stato inghiottito dalla terra, anche il tappeto,
sul quale giaceva morto, era sparito. Tutti gli oggetti presenti poco
prima nella stanza erano finiti contro le pareti, distrutti e
accatastati. Bellatrix, come una tigre, si era rialzata per prima,
urlando come un'ossessa ma, ancora assordato, non capivo le sue parole,
potevano essere maledizioni o lamenti per se stessa e il suo Signore:
rapida, aveva attirato con un incantesimo tutti gli oggetti affilati
presenti, per scagliarli all'indirizzo di Sherton, sempre in piedi al
centro della stanza, ma, ancora una volta, quella barriera parve
proteggerlo, almeno quanto stava imprigionando il Signore Oscuro. Le
lame di vetro si trasformarono in polvere e sabbia appena toccarono le
fiamme dalla sinistra luce verdastra: l'ennesimo inutile attacco.
Una crepa sul soffitto
si allargò, si trasformò in una breccia e parti
del solaio ci crollarono addosso, Pucey urlò, colpito, e
cercò di portarsi in un luogo più riparato,
Sherton si mosse a sua volta seguendo con gli occhi le condizioni del
solaio sopra la sua testa. Ghignai, era la prima volta, da quando era
iniziato tutto, che il Mago lasciava l'istinto di sopravvivenza
prevalere sulla ragione ed io mi tenni pronto ad approfittarne. Appena
si ritrovò alcuni centimetri fuori dalla barriera, scoperto
sul fianco destro e un oggetto, staccatosi dal soffitto, cadde e
colpì Milord, attraendo la sua attenzione, estrassi la
bacchetta dalla cintola, la stessa che gli avevo rubato al piano di
sopra per ammazzare mio padre, e mi scagliai su di lui, centrandolo con
una Cruciatus. Impegnato nel maleficio, Sherton non mi aveva visto e,
raggiunto alle spalle, non riuscì a opporsi: finalmente
cadde, il mio colpo tanto potente da fargli cedere le ginocchia
all'istante.
Mi ero avvicinato, lui
era ai miei piedi, si voltò per guardarmi, furioso, deviai
la sua maledizione non verbale, lo fissai, gli soffiai contro una nuova
Cruciatus, vidi i suoi occhi grigi diventare un lago di dolore represso
a stento, mentre s’imponeva di non urlare, il suo corpo,
però, privo di controllo, si contorceva negli spasmi: mai
come in quell'istante avevo notato la somiglianza con suo figlio, con
il riverbero rosso delle fiamme, i suoi capelli corvini apparivano
rossastri come quelli di Mirzam. L'immagine s’impresse nel
mio cervello, la reazione della mia mano e delle mie labbra fu
istantanea, colpii, con più violenza, con tutta la furia e
l'odio che mi montavano dentro, quasi a svenire per lo sforzo. Non
traevo nemmeno piacere dalla sua agonia, continuavo per inerzia,
assente, come se Cruciare fosse per me indispensabile quanto respirare.
Era già
svenuto da un pezzo quando non ne potei più, mi avvicinai,
lo toccai con un piede, vidi che non reagiva, pensai fosse morto, ma a
me non bastava, non sentivo alcuna soddisfazione nella mente e nello
spirito: di solito, per finire un avversario, colpivo con un asettico
Avada, con Sherton era stato diverso. Avevo iniziato a prendere il suo
corpo a calci, gli ero piombato sopra e l'avevo attaccato a pugni,
mentre attorno a me continuavano a cadere macerie e chi poteva,
fuggiva. Venuto meno il controllo di Sherton, le fiamme sembrarono
placarsi, Bellatrix riuscì ad avvicinarsi a Milord tanto da
sollevarlo, pronta a Smaterializzarsi via con lui: per un istante si
era fermata, per guardarmi, avevo visto il suo volto illuminarsi di
crudeltà e soddisfazione, ma subito mi aveva urlato di
caricarmi Sherton in spalla e fuggire a mia volta. Io le avevo ghignato
contro, avevo preso Sherton per i capelli, alla sommità
della testa e l'avevo tirato su come un cencio, intendevo sferrargli un
ultimo pugno dietro la nuca, proprio sotto l'orecchio, se ben assestato
quello poteva essere un colpo mortale. Sentivo già le mie
ossa scricchiolare, la mia pelle rompersi, il mio sangue uscire dalle
nocche, pregustavo le sensazioni, immaginavo quanto dolore avrei
provato, quanto mi sarei inebriato del tanfo della carne e del sangue
che mi sarebbero schizzati addosso. Pucey, però,
ricomparendo da chissà dove, aveva messo fine alle mie
fantasie, mi aveva spinto, facendomi perdere la presa, mi aveva fissato
come si guarda un pazzo, sibilando "Milord lo vuole vivo!", aveva preso
Sherton, ridotto a un ammasso di carne sanguinolento, per poi
Smaterializzarsi.
Ero scoppiato a ridere,
liberando tutta la tensione accumulata: sì, l'ordine di
Milord era di portar via vivi i prigionieri; a me però,
esaltato com'ero, non importava delle conseguenze, se davvero il nostro
prezioso prigioniero fosse morto a causa mia, sarei stato ben felice
della punizione del Signore Oscuro. Bellatrix si
smaterializzò con il Lord, io continuai per un po' a girarmi
intorno osservando quella devastazione, continuavano a crollare pezzi
di muro e ovunque c'era fuoco. Non mi bastava. Immaginavo la faccia di
Mirzam quando avesse visto la sua casa ridotta in macerie, volevo che
fosse consapevole delle proprie colpe, della rovina che aveva portato
in famiglia. Ghignai malefico: avrei fatto di più... di
meglio... non gli avrei permesso di soccorrere i fratelli, dovevano
odiarlo, considerarlo responsabile! Vederlo per il miserabile traditore
codardo che era.
Estrassi una boccetta
dal taschino, ci infilai un capello trovato nella stanza del bastardo e
la bevvi d'un fiato, aspettai di subirne gli effetti, poi uscii dal
fumo di Essex Street con le sue sembianze; una volta fuori, respirai a
fondo l'aria gelida e pulita e avanzai piano, alzai la testa e fissai
lentamente, una dopo l'altra, le finestre che si aprivano sulla via,
pregando gli dei che qualcuno si affacciasse per il trambusto e mi
vedesse. Fuori, per la strada, nelle case intorno, però,
sembrava tutto in ordine, l'esplosione non aveva sortito effetti fuori
della dimora degli Sherton, quel cane bastardo aveva pianificato la
morte di noi Maghi e la salvezza dei suoi dannati amici babbani.
Arrivato all'arco che chiudeva la strada, in fondo alla via, ci fu una
nuova esplosione, stavolta molto più potente, in grado di
far cadere mattoni e comignoli per la strada, e farmi crollare a faccia
avanti nella neve. Mi risollevai agitato, sentii le urla pervadere
l'aria, proveniente da ogni direzione, vidi la gente fuggire dalle
case. In lontananza, quasi subito, si sentirono ululare le sirene.
Forse qualche dannato Babbano sarebbe morto, alla fine. Approfittai
della confusione, levai il braccio e, nascosto nella penombra, invocai
il Marchio del Signore Oscuro, tutta Londra doveva vedere e credere che
la strage fosse opera di Mirzam Sherton, quel maledetto doveva essere
considerato dei nostri dalla sua amata sorellina. Ammirai il serpente
illuminare il cielo lattiginoso sulla città, scesi la
scalinata e mi Smaterializzai al luogo convenuto.
*
Rodolphus Lestrange
Trevillick, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
«Rodolphus... »
Mi voltai. Bellatrix era dietro di me, era entrata grazie a uno dei
suoi dannati sortilegi e ora era in piedi avvolta dal buio della
stanza, l'orlo della veste ancora sporco di sangue messo in risalto dal
rosseggiare del riverbero del caminetto. Mi chiesi di quanti anni si
sarebbe accorciata la vita dei suoi adorati zietti se i loro occhi
avessero colto quel delizioso dettaglio. Si avvicinò in
silenzio, i suoi occhi, ossidiana nera, erano pozzi profondi di
malvagità e lussuria.
Sapevo che cosa voleva da me. Aveva già provato a sedurmi
tra i ruderi: Bellatrix era fatta così, amava festeggiare il
sangue con la passione ed io ero sempre stato lieto di festeggiare con
lei. Risi al pensiero di quella pappamolla di Mirzam, del suo terrore
per il sangue, non riuscivo proprio a capire che cosa diavolo ci
trovasse mia moglie in quel damerino inutile. Risi, una risata appena
sommessa, all'inizio, poi sempre più vera, seria, corposa.
Non riuscivo a smettere di ridere, e intanto lei si avvicinava, sinuosa
e pericolosa come un felino.
La fissai ghignando, passai una mano sul mio volto, pronunciando un
incantesimo che cancellasse il torpore dell'alcool. Non le staccai gli
occhi di dosso, spavaldo, forse persino inquietante, volevo che capisse
che non c'era più alcuna soggezione in me, nei suoi
confronti.
Non
mi hai ancora davvero conosciuto… mai...
Le leggevo una domanda nello sguardo, una domanda che non aveva il
coraggio di farmi.
Bellatrix che manca di
coraggio... con me... che giornata
sorprendente...
Si avvicinò ancora, portandosi proprio davanti a me, si
lasciò scivolare di dosso la tunica, perché fosse
inequivocabile la sua intenzione, poi si chinò, si sedette
su di me, appoggiandosi al mio petto, si strinse a me, a cercare il mio
calore, a strusciarsi addosso come faceva a volte in piena notte,
quando s’infilava nel mio letto, per svegliarmi, se voleva
avermi...
Non la guardai, né la toccai, sospirai infastidito, le sue
mosse si fecero più insistenti, nonostante la mia
indifferenza non si diede per vinta, né mi
attaccò con gli insulti, com’era capitato a volte,
al contrario le sue mani iniziarono a insistere sulla mia barba,
costringendomi ad alzare il volto su di lei, io m’imposi di
guardare altrove, le sue dita scesero sul mio collo, seguite dalla
lingua, graffiarono le mie braccia, che tardavano ad abbracciarla;
continuò a fissarmi, languida; la guardai a mia volta,
infine, minaccioso, e mi diede improvvisamente fastidio vedere le sue
labbra stendersi in un ghignetto beffardo e provocatorio, i suoi occhi
accendersi di trionfo: credeva stessi giocando a fare il difficile,
credeva di avermi in pugno, credeva di sapere ogni cosa.
Oh Bellatrix, neanche
immagini, cosa ti farei in questo momento...
Quando le sue unghie mi scivolarono lente sul torace a graffiarmi la
pelle, lottai per mantenermi lucido e indifferente, controllare il
respiro, vincere quella guerra di sguardi, non lasciare che la furia
che mi possedeva prendesse il sopravvento. Io ero ragione, non un
burattino nelle sue mani.
Alla fine, però, la sua mano s'immerse inesorabile al di
sotto della cintola, avviluppandomi con il suo calore: i suoi occhi
sempre fissi nei miei urlarono la sua vittoria, quando mi
strappò un gemito, il mio cervello sembrava di colpo vuoto,
i miei propositi erano un ammasso di fili attorcigliati, la
volontà vinta e abbandonata, dimentica, da qualche parte. Il
mio corpo voleva tradirmi, rispondere alle focose lusinghe delle sue
mani, del suo corpo, delle sue labbra. Mi ritrovai all'improvviso
stretto sotto di lei, nudo, dominato, catturato dentro di lei, un topo
nelle grinfie di una gatta, una gatta meravigliosa, sensuale,
crudele, beffarda che si muoveva sopra di me, attorno a me, davanti a
me, rendendomi impossibile qualsiasi pensiero... Compiaciuta del suo
potere su di me. Delle mie mani costrette ad accarezzarla come voleva
lei, quando voleva lei, come ogni volta.
Non voglio, non
è quello che desidero, non è
quello che lei merita. Non da me.
La mano che le accarezzava docile la schiena salì alla base
del collo e strinse le sue chiome, prepotente, tirandole la testa
indietro, staccandola dalla mia pelle, sentii un gemito, forse di
fastidio, forse solo di sorpresa, ma non mi fermai, anzi, continuai a
tirare, salii con le labbra su quel collo così esposto e
attaccai, la mia bocca non baciava più, dilaniava, stringeva
la sua pelle tenera tra i denti fino a sentirla gemere, fino a sentirla
rompersi sotto i miei denti, fino a imporporarmi con un sottile rivolo
di sangue. Mi staccai e vidi i suoi occhi stupidi fissare le mie
labbra, mentre lentamente mi leccavo via quel sangue. Mi sollevai,
tirandomela dietro, senza alcun riguardo.
La stesi davanti a me, sul tavolino, volevo fissarla mentre il mio
corpo smetteva di amarla per possederla. Volevo fissare il suo
ghignetto altezzoso, compiaciuto di avermi ridotto ancora una volta a
un giocattolino ubbidiente, spegnersi poco per volta, mentre capiva chi
era il vero giocattolo, chi era nulla nelle mani dell'altro, come ci si
sente a essere solo carne, da usare e gettare. Era tutto il giorno che
desideravo veder cadere e bruciare le certezze di Bellatrix. Era quella
la bramosia che mi rendeva folle, e ora... ora lei era sotto
di me, in mio potere. Le bloccai i polsi con forza, strappandole un
gemito di dolore, ma non era quello che bramavo, no, del suo dolore non
sapevo cosa farmene, era della sua incertezza, della sua confusione che
mi sarei nutrito. Ammirai i suoi occhi persi nell'improvvisa
confusione, era a un passo dall'estasi, lo sapevo, quando avevo
interrotto il suo solito gioco, mi sentivo forte e potente, a vederla
così, confusa, privata per la prima volta di ciò
che voleva e che non le avevo negato mai...
Guardami...
sì guardami... questo non è
per niente un gioco. Non per me.
Ghignai, osservandola sotto di me, piccola, fragile, confusa, incapace
di capire se fosse un gioco nuovo o se fossi impazzito. O, peggio
ancora, se fossi ubriaco. La tenevo bloccata sotto di me, impedendole
di muoversi, senza fare nulla, a parte fissare e ghignare mentre il suo
torace si alzava e abbassava ritmico, veloce, segno della passione
interrotta, certo, ma anche dell'incertezza che diventava paura...
lasciai scivolare una mano sul suo corpo, dal ventre verso il collo,
con inconsueta ruvidezza, senza alcuna intenzione di darle piacere,
passai con il dito lungo le linee del mento e lo afferrai, poi scesi,
lentamente, afferrando il collo... lo strinsi via via un po' di
più, fino a vedere il suo colorito cambiare e una lacrima
staccarsi dall'estremità dell'occhio. Non disse una parola.
Quanto orgoglio
Bellatrix Black... quanto orgoglio in questo tuo
silenzio teso, mentre per la prima volta hai perso il controllo su
tutto il resto. E non sai cosa ti accadrà.
Era simile… così simile… alla
sensazione provata nella stanza di Mirzam, mentre la follia e il dolore
mi mostravano di tutto sul letto di quel bastardo... E lei... era
così concentrata sulla mia mano, sulla mia stretta forte
attorno al suo collo, che quando la penetrai, ruvido e prepotente, non
emise nemmeno un sospiro. Stringevo e la possedevo, con vigore, come
avevo fatto infinite volte, con infinite donne, di cui non
m’importava nulla, semplice calda carne che doveva soddisfare
una voglia passeggera. La costringevo a tenere gli occhi fissi su di
me, premendo un poco di più ogni volta che il suo sguardo
tentava di scivolare altrove, occhi che non trasmettevano
più nulla, a parte quel senso di confusione e di
apprensione. Ce n'erano state tante di donne come lei, donne alle quali
avevo imposto questo e altro ancora, della cui paura avevo riso, utili
solo a ottenere quegli spasmi che mi facevano liberare i lombi. Ed io
volevo vedere lei, Bellatrix Black, mia moglie, così, una
come tante altre, volevo distruggere quel potere che aveva da troppo
tempo su di me. Volevo rendermi conto che era solo una come tante.
Allentai la presa e la sollevai, trascinandomela dietro come un
fuscello, stringendola senza alcun riguardo contro la parete, tenendola
ferma, di spalle, non volevo guardarla più in faccia, volevo
che quella storia finisse così, che lei fosse per me un
corpo senza volto, che lei si sentisse usata come tutte le altre... La
schiacciai sotto il mio peso, così piccola e fragile
rispetto a me, le morsi la pelle tenera del collo, non per passione, ma
per marchiarla, fino a sentire di nuovo il sapore del suo purissimo
sangue, le tirai i capelli, rovesciandole la testa all'indietro,
facendole male, impossessandomi della bocca per mozzarle il fiato. E
finalmente affondai in lei, di nuovo, senza alcuna dolcezza, senza
amore, con tutta la disperazione, la forza, la rabbia, il furore che
avevo dentro. Consapevole di farle solo male e desideroso di fargliene,
era così che volevo godere di lei... che da quel giorno in
avanti avrei goduto di lei. Probabilmente non mi sarebbe capitato
più, in quel momento potevo contare sull'effetto sorpresa,
doveva essere davvero sconvolta, se non si ribellava, così
dovevo approfittarne, volevo che si sentisse come mi ero sentito io
quel giorno, tutti quei giorni, da quando c’eravamo
conosciuti, usato, umiliato, deriso, volevo che si sentisse il mero
trofeo che odiava essere, in pubblico, e solo carne da possedere nel
segreto della nostra stanza.
Ti sei sempre presa
gioco della mia debolezza per te, della mia
venerazione... d'ora in poi rimpiangerai ciò che hai
disprezzato e infine perduto, non mi avrai più, mai
più, avrai solo quella miseria che ho sempre concesso a
tutti gli altri...
Sì, mi sarei preso ciò che mi spettava per
diritto e l'avrei lasciata lì, dopo aver finito, come si fa
con un piatto di avanzi: era questo che era, in fondo, lei mi aveva
sempre e solo concesso gli avanzi di un altro. Risoluto, spensi infine
il cervello, e mi lasciai andare, senza curarmi in alcun modo di lei,
tutto teso a soddisfarmi fisicamente: non avrei mai immaginato che
quella situazione mi avrebbe esaltato così tanto, sembrava
che soddisfare la mia voglia di vendicarmi, di farle così
male da ridurla in lacrime, rendesse le sensazioni ancora
più potenti.
Lei è
Bellatrix Black, Rodolphus… le
lacrime… almeno quelle… non te le
concederà mai.
Ghignai, soddisfatto, mi staccai da lei: un brivido sconosciuto mi
squassò dalla testa ai piedi, un impeto più forte
dell'orgasmo, quando notai che il mio seme le scivolava lungo le cosce,
rosso del suo sangue. Quando vidi le sue gambe tremare, trattenni a
stento una risata. Avrei dovuto lasciarla lì, tremante,
contro la parete, sola, mi sarei dovuto disinteressare di lei, mentre
mi rivestivo e tornavo a pensare ai fatti miei, come avevo sempre fatto
con le donne di cui non m'importava nulla.
Bellatrix però si voltò e i miei occhi videro i
suoi. Ci si tuffarono dentro e si persero come non si erano mai persi
prima, nemmeno in lei. La sua pelle divenne una calamita per le mie
dita... lo era dal primo giorno, certo, ma ora sapevo che lo sarebbe
stata fino all'ultimo, per quanto io mi maledissi e la maledissi. Per
quanto io la odiassi e mi odiassi. Non provai rimorso, alcun rimorso,
vero, come potevo provarlo? Ma mi ritrovai accanto a lei, a
sorreggerla, a toccarla, a sfiorare la sua pelle con le labbra come un
dono prezioso, a baciarle la testa, gli occhi, le labbra, a scivolare
col mio corpo sul suo corpo, fino a trovarmi in ginocchio davanti a
lei, a stringerle le gambe, con quelle braccia che per tutto il tempo
si erano ostinate a negarle un abbraccio. La faccia contro le sue
ginocchia, tremanti, le guance umide delle mie lacrime. E del mio seme
e del suo sangue.
Mi hai devastato, hai
preso la mia mente, il mio cuore, il mio corpo e
li hai ridotti in mille coriandoli.
«Rodolphus... »
Risi, non potevo fare altro. Non potevo certo dirle
Mi sono innamorato di
te, Bellatrix, è questo che mi
è successo... e ho appena scoperto che neppure ora che so
che dovrei solo odiarti, riesco a strapparti via dalla mia anima...
Mi voltai, raccattai la sua toga che aveva gettato a terra per sedurmi
e gliela drappeggiai addosso, cercai di recuperare la calma e impedirle
e impedire a me stesso di guardarmi dentro... c'era un baratro oscuro,
dentro di me, e avevo appena sperimentato che...
La avvolsi e le strofinai le mani nelle mie, gli occhi bassi, in
silenzio.
«Perdonami… troppo
Firewhisky… Ho perso il controllo... »
Bellatrix rimase qualche istante in silenzio, poi sollevò la
testa, e mi guardò beffarda, come sempre; le sue mani
scivolarono di nuovo su di me... si sollevò sulle punte,
fino al mio orecchio... mi leccò il collo. E la sua mano
scivolò di nuovo su di me, in basso, ancora più
in basso.
«Sei il nuovo Lord Lestrange,
dico bene? Ed hai ucciso tu tuo padre, non Alshain Sherton!»
La fissai interrogativo, non sapevo come l’avesse scoperto,
ma rimasi in silenzio. Non capivo che cosa c'entrasse adesso. Forse
voleva giustificare le mie azioni tirando fuori quella storia.
«Questo significa che tutto
questo è tuo... compresa la scrivania del tuo vecchio, di
sopra... »
«E allora?»
«Dobbiamo festeggiare, non
credi? Seguimi, Lord Lestrange... Seguimi e scopami ancora, da dio...
»
Scivolò davanti a me, muovendosi felina come una
gatta… Notai con una punta di sorpresa e
d’improvviso divertimento che aveva arraffato almeno altre
tre bottiglie.
*continua*
NdA:
Ciao a tutti,
questo capitolo è un chap bonus nato come regalo per
SeveraBarty
Crouch, ieri finalmente l'ho consegnato a mano alla
destinataria, perciò ora posso pubblicarlo. La vicenda
è
tutta incentrata su Rodolphus Lestrange ma ho inserito alcuni elementi
che vi
aiuteranno ad avere un quadro più esauriente di cosa
è avvenuto in Essex Street a casa Sherton. La parte finale
è un poco diversa dal solito, se dovesse creare problemi
posterò questo chap a parte come OS. Ringrazio quanti hanno
letto, commentato, aggiunto alle liste ecc ecc... A presto.
Valeria
Scheda
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