Not Good Enough
Come è facile chiedere di più, come è facile essere
insoddisfatti… perché se si ci si accontenta di un compromesso si rischia di
essere felici, e se si è felici si ha qualcosa da perdere.
Se si fosse felici, forse, non si avrebbe nulla per cui lottare.
La gioia, per quanto possa essere grande, non sarà mai
infinita.
Non sarà mai
immortale e immutabile, non sarà per sempre perfetta.
La natura è mutevole.
Questo è il motivo per cui vivo lontano da tutto e da tutti, lontano dal calore
umano, lontano da quella gioia che però non sono stato capace di impedirmi di
desiderare. La maschera di ghiaccio che mi sono calato sull’anima sembrava
impenetrabile, ero certo che anni di dolore l’avessero temprata, resa forte come
un’armatura antica, ma piano piano, poco per volta, quasi senza che me ne
rendessi conto, un raggio di sole, di quel sole che per tanto tempo ho cercato
di evitare, l’ha inesorabilmente penetrata, facendola sciogliere dall’interno,
da quel punto in cui credevo fosse più spessa, proprio all’altezza del cuore.
Non avrei mai immaginato che un giorno mi sarei permesso di amare… e se
all’inizio mi sembrava sufficiente stare a guardare, per quello strano
meccanismo della mente che anela ad avere sempre di più, ho messo da parte la
prudenza e mi sono avvicinato, come mai prima d’allora avevo fatto.
Ho lasciato che il calore di un’altra anima ferita mi
avvolgesse, ho lasciato che il suo calore divenisse mio, ho lasciato cadere
quelle barriere che credevo indistruttibili, per potermi perdere almeno una
volta nell’immensità di un paio di occhi spaventati.
E quegli occhi
profondi, del colore del cielo e del mare, quegli occhi che non hanno mai
saputo mentire, per la prima volta mi hanno insegnato che nascondere le proprie
ferite non può che renderle più dolorose.
E quelle mani bianche mi hanno dimostrato che da un contatto non nasce per
forza una piaga, che esiste qualcosa di diverso dal silenzio lacerante causato
da un’essenza di solitudine.
E quelle labbra morbide, dolci, che mi hanno accolto in un
bacio leggero mi hanno insegnato che, in fondo, anche a me poteva essere
concesso un brandello di felicità.
La gioia provocata in
me anche dalla semplice evocazione di un nome, di un semplice nome, mi
sconcertava, non volevo credere che il mio animo fosse arrivato a tanta debolezza.
Mi spaventava come, dopo qualche tempo, la sua presenza mi fosse diventata
necessaria, quanto desiderassi sfiorare il suo corpo diafano coperto solo
dall’oscurità della notte.
Amavo.
Forse in modo eccessivo, ma ero felice.
Era quella gioia indicibile che nasce dalla condivisione,
dalla possibilità di spartire con qualcuno quella gioia così grande che sgorga
direttamente dal cuore.
Mi è stato concesso un assaggio di felicità.
Ora, che stringo un corpo esanime, straziato, deturpato, mi
rendo conto che non mi basta.
Non mi basta ciò che ho avuto, non mi sono saziato con
quello che mi è stato concesso dal Fato e che molti non otterranno mai, non mi
capacito di come tutto sia potuto finire così.
Accarezzo con dolcezza i capelli chiari, chiarissimi, che
con questa luce sembrano bianchi, e mi accorgo di quanto siano soffici e
leggeri, e osservo gli ultimi raggi di una luce che si sta esaurendo perdersi
sulle sue ciglia, sfiorare le sue labbra semidischiuse, come per accoglierle in
un bacio leggero.
Gli occhi, quelli che mi hanno rapito, sono chiusi, ma se
non lo fossero il loro vuoto mi ucciderebbe, mi distruggerebbe vedere che, in
realtà, neppure quegli occhi sono eterni; forse allora è meglio così.
L’espressione del suo volto è distesa, invidio la sua
serenità, per lui è tutto finito, non rivedrà nessuna alba implacabile, non
sentirà il resto del mondo risvegliarsi e ricominciare a vivere.
Mi accorgo di piangere, mi accorgo che non sono abbastanza
forte da impedirlo, non sono abbastanza forte da ricomporre quella maschera, quell’
armatura, perché non sarò capace di raccoglierne tutti i pezzi. “Fay… Fay…” Mi
accorgo che è infantile, lui non risponderà, non lo farà mai più. “ti amo” è un
singhiozzo strozzato, quasi mormorato sulla sua pelle perfetta, macchiata dal
suo stesso sangue, dal sangue che scorre inarrestabile da troppe ferite sparse
sul suo corpo.
Ho scelto di osare.
Ho scelto di avvicinarmi a qualcuno.
Ho scelto di provare a curare le mie mille ferite.
Ho scelto di mettermi in gioco…
E ho perso tutto.
No, non è sufficiente, non è sufficiente avere solo un
assaggio, non è sufficiente per continuare, per ricominciare, perché l’armatura è
caduta, e io non potrò mai più ricostruirla.
Stringo forte un corpo esanime e la sola speranza che ho è
che tutto questo non sia vero.
Un altro corpo che in mezzo a tanti altri come lui sembra
fragile e delicato -o forse è solo un’anima?- è
disteso su quel campo di battaglia, ancora saturo dell’odore del sangue da poco
versato, è un’altra vittima della guerra? No. È stato il peso di una vita di ricordi che gli ha donato la morte, è stata
una vita vuotata di un calore che per tanto tempo si era negato a distruggerlo.
È stato il pensiero, solo il pensiero, di una vita da condurre da solo, perché
la gioia appena conosciuta che gli ha sottratto la vita, ciò che ha avuto non
gli è bastato
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