Capitolo 1
My dear Sister
“Si
corre lo stesso rischio a credere troppo che a credere troppo
poco.”
(D.
Diderot)
I momenti precedenti alla scoperta della mia attitudine ai ruoli
principali e all’incontro con il mio
“impresario”, con quello strano essere che tutti
chiamano Conte, li ricordo solo vagamente.
Da quello che ne so, ho sempre lavorato. Anche parecchio, con fatica e
difficoltà, in ambienti impossibili, in condizioni disumane,
ma con la forza di chi deve mangiare e può farlo solo con il
sudore della fronte. Un bambino semplice e davvero infelice. Ma non
certo un eroe o una vittima, solo un triste caso della sorte, pensavo.
Poi c’è uno spazio vuoto. Ricordassi almeno come
ho incontrato Frank e Momo… Non ne ho idea… Ma
credo che mi abbiano avvicinato un po’ per lo stesso motivo
per cui io ho cercato di proteggere Iizu… Un bambino
piccolo, solo e abbandonato a se stesso faceva tenerezza,
credo… Soprattutto poi se non ha altro modo di sopravvivere
che faticare in lavori umili e pesanti come quelli degli
adulti…
La vita con loro divenne migliore. Ho degli ottimi ricordi di quei
momenti di vera amicizia. Furono i miei amici i primi a farmi sentire
una persona. Per questo associai a loro la mia sola famiglia.
Poi trovammo il piccolo Iizu… Loro dicevano che assomigliava
moltissimo a me, solo che non aveva la mia stessa testa calda e fisico
da minatore. Era piccolo, minuto e molto più debole di
salute. Riuscimmo addirittura a non farlo più avvicinare al
lavoro e alla fatica e cominciammo a mantenerlo con il nostro
stipendio. Non ci pesava, anzi, ci appariva una vittoria: stavamo
proteggendo un bimbo dalla sofferenza.
Quando pensavo alla mia situazione vedevo solo un uomo, quando guardavo
Iizu vedevo qualcuno che meritava di essere difeso da quel
mondo… A quei tempi ero ancora una persona vera…
Poi è di nuovo tutto vago. Solo un episodio spicca ancora
tra tutti. Lo ricordo come se fosse ieri.
Iizu si era ammalato ma aveva cercato di nascondercelo, come al solito.
Alla miniera era un periodaccio: dato che il padrone non aveva ancora
trovato il giacimento che cercava, ci aveva dimezzato lo stipendio,
già bassissimo. Eravamo di pessimo umore, ma non potevamo e
non volevamo licenziarci, per paura di dover di nuovo girare a vuoto e
aspettare di trovare un nuovo posto. Per questo probabilmente aveva
ancora più paura a mostrarsi malato, o forse fummo noi ad
essere troppo occupati a pensare al nostro sostentamento per
accorgercene da soli.
Un giorno, però, quando suonarono per il pranzo, non lo
trovammo. Andai al suo letto e cercai di svegliarlo. Continuai a
scuoterlo, ma non reagiva in alcun modo. Aveva la febbre altissima e
sembrava delirare.
Eravamo completamente nel panico. Noi avevamo solo una minuscola
cassetta del pronto soccorso e nient’altro. In miniera non
c’era di certo nessuno avesse medicine o qualcosa di utile
per curare un bimbo. Dovevamo assolutamente cercare qualcuno in
città, che per fortuna non distava molto.
Presi in braccio Iizu e mi allontanai di corsa. Gli altri volevano
seguirmi ma li obbligai a restare: lasciando il mio posto
all’improvviso avrei certo perso il lavoro, ma almeno loro
sarebbero riusciti a guadagnare abbastanza per permetterci di
sopravvivere.
Arrivato all’ospedale sperai di trovare un minimo di
assistenza, ma mi guardarono storto e chiesero senza mezzi termini se
potevo permettermi di pagare. Mi ribellai, sbraitai, mi offrii di fare
tutto per ricambiare le attenzioni rivolte al piccolo. Nulla. Rabbioso,
ma sempre più preoccupato ed agitato, bussai a tutte le case
dei dintorni, ma nessuno mi offrì aiuto. Disperato, offeso,
frustrato, con il mio amico che tremava vistosamente tra le mie
braccia, arrivai fino ai confini della città. Quando mi
trovai di fronte ad un edificio stranamente enorme, non mi feci
domande, ma angosciato bussai con tutte le mie forze, a lungo. Il
silenzio totale sembrava provenire dall’interno, ma continuai
imperterrito, senza arrendermi.
Solo dopo molti minuti, si aprì un piccolo spioncino
attraverso il quale due occhi verdi sospettosi si posarono su di me.
- Vi prego! – urlai nel panico – Vi prego, sta
male! Aiutatemi! -
Ma subito, il piccolo foro si richiuse con uno schiocco.
Sapevo di non essere per nulla rassicurante per il mio aspetto povero e
sciupato: i capelli mossi spettinati, pieni di polvere a coprirmi parte
del viso, la carnagione pallida di chi lavora alla luce delle fiaccole,
i vestiti sudati e laceri e gli occhiali finti, inventati un giorno per
scherzo con due fondi di bottiglia ma che da allora tenevo sempre
addosso, anche perché decisamente utili a proteggere gli
occhi durante il lavoro. Però una cosa simile non potevano
farla. Non potevo sopportare di ritrovarmi di nuovo una porta sbattuta
in faccia. Come poteva non far pena a nessuno quel povero bambino
malato? Come potevano ignorarci così?
- Ma che razza di persone siete!? Non vi vergognate!? Lo lasciate
morire così, maledetti!? -
Il rumore delle mie urla coprirono lo sferragliare della serratura.
Sulla soglia apparve una suora dal velo e dal lungo abito blu che senza
dire una parola mi tolse di mano Iizu e mi fece il cenno velocissimo di
entrare. Fece poi scattare in fretta e furia la chiave nella toppa e
prese a correre senza fare alcun rumore per il lungo e scuro corridoio.
Le stavo dietro a fatica, attento a non far scricchiolare le scarpe
usurate sul pavimento di pietra. Giunti di fronte ad una anonima porta,
mi fece entrare per primo, poi lanciò uno sguardo inquieto
da una parte e dall’altra prima di richiudere
l’uscio.
Ci trovavamo nella sua cella. Era spoglia, ma accuratamente pulita.
Appoggiò il bambino sul suo letto e lo coprì con
cura con tutte le coperte che riuscì a trovare. Poi
tirò fuori la sua bacinella piena di acqua e un fazzoletto
candido. Mi lanciò uno sguardo scuro e mi mise in mano il
pezzo di stoffa, poi per la prima volta mi rivolse la parola, con
asprezza: - Allora, volete darvi da fare!? Bagnatelo e passateglielo
sul viso! –
Poi, con un sonoro sbuffo uscì velocemente dalla stanzetta.
Io rimasi basito, ma feci come mi aveva ordinato. Iizu tremava ma la
sua pelle scottava…
Dopo lunghi minuti, tornò trafelata, in mano vari barattoli
di quelli che sembravano decotti, infusi e simili. La osservavo senza
parlare. Si comportava come chi si trova suo malgrado a fare qualcosa
che in realtà non vorrebbe, con irritazione. La cosa mi
faceva arrabbiare moltissimo, ma dato che sembrava volesse aiutare Iizu
mi trattenni e seguii le sue istruzioni.
- E’ chiaro!? Dovete fargli prendere questa medicina ogni tre
ore! Bagnate la garza in continuazione! Tenetelo per bene al caldo! Non
permettete che si scopra! Io sarò di ritorno tra parecchie
ore, per cui cercate di ricordarvi tutto! E non potete assolutamente
uscire dalla stanza, chiaro!? -
Ero sicuro che il mio sguardo tradisse il fastidio, ma mi sforzai di
sfoderare il mio più convincente sorriso falso e biascicai
un faticosissimo: - Si… Grazie… -
Lei sembrò placarsi per un attimo, poi immagino che
notò la mia sceneggiata e la sua espressione
tornò ostile. Uscì dalla porta senza aggiungere
altro.
Iizu migliorava a vista d’occhio. Ero davvero felice che le
cose andassero meglio e sentivo anche una certa riconoscenza verso
quella suora… In un certo senso…
Non ero mai stato un tipo religioso, per nulla. Strano per uno che
veniva dal Portogallo, paese cattolico molto praticante. Onestamente,
però, non avevo mai trovato alcuna soddisfazione nella
pratica religiosa. Immaginavo che fosse una cosa totalmente vuota,
priva di calore, irrazionale. Una buffonata, fatta apposta per mostrare
agli altri come un trofeo la propria figurata virtù. Ecco un
altro motivo per cui la “fede” non faceva per me:
le entità religiose mi davano ai nervi. Forse era stata
colpa di Fra Santiago, che ai tempi ci guardava dall’alto al
basso ogni volta che per necessità ci recavamo da lui a
chiedere un pezzo di pane. Oppure dalle figure ecclesiastiche che
sventolavano ai quattro venti la gioia che deriva dalla
carità e poi vivevano negli enormi palazzi senza neanche
considerare gli sfortunati che chiedevano le elemosine vicino alle loro
porte. Tutte falsità. Tutta apparenza. Tutta incuranza.
Tutta idealizzazione inutile.
Lo stesso per la concezione del divino. Ero sempre stato scettico,
più che dubbioso… Come poteva
quell’entità suprema guardarci, eppure accettare
ogni cosa che accadeva? Superstizione, stupida superstizione. In
effetti potevo ritenermi un ateo, anche se non era certo il caso di
andarlo a spiattellare in giro. E’ sempre stato pericoloso
pensarla diversamente dagli altri…
L’idea di trovarmi quindi ad avere a che fare con una
religiosa mi rendeva ancora più indigesta la
situazione… Però bisognava riconoscerle la
schiettezza di mostrare apertamente il proprio disgusto per noi, per i
poveracci della situazione. Tuttavia, avrei preferito trovarmi di
fronte una persona più simulatrice, ma anche più
collaborativa… Avrei deciso di testa mia se sondare il suo
animo e vedere la verità dietro il suo comportamento o
accettare per gratitudine la sua squallida facciata
misericordiosa… Mi rendeva molto difficile nascondere il mio
astio…
Quando tornò nella cella, mi allungò velocemente
in mano un piatto di minestra e un pezzo di pane e chiuse accuratamente
la porta a chiave.
- Quello è per il bambino. Il pane è per voi.
– disse, secca.
Io rimasi interdetto su cosa dire. “Grazie?”
“Non dovevate disturbarvi?” Non mi suonavano bene
visto l’atteggiamento pesante che mi stava usando. Mi imposi
di tacere e svegliai con delicatezza Iizu. Si strofinò gli
occhi assonnato. Aveva ripreso un colorito abbastanza sano, ma aveva
ancora un po’ di febbre.
- Hai voglia di mangiare un po’? -
Annuì piano.
Lo imboccai con il cucchiaio finché non mi disse basta.
- Sei sicuro…? -
- Si… Tu non mangi, Tyki? –
- Non ti preoccupare per me. Ho un bel panino che mi aspetta.
Piuttosto, cerca di finire la minestra… Ti fa
bene… -
- Non sforzatelo se non vuole. Quelle medicine danno problemi di
digestione. Se ne ha abbastanza, non insistete se non volete che stia
male. –
Solo in quel momento mi ricordai della sua presenza. Fino a quel
momento era rimasta seduta per terra, in silenzio, nel lato opposto
della stanza. Mi scrutava compunta e serissima.
Ricambiai il suo sguardo con un po’ di ostilità e
riappoggiai il piatto sul comodino:
- Allora va bene così… -
- Si. Grazie, Tyki. Grazie, signora suora. –
Intravidi un mezzo sorriso, sul suo volto scuro, ma tornò
immediatamente cupa.
Iizu si addormentò di nuovo molto in fretta.
Allora immersi di nuovo la garza nell’acqua e la rimisi al
suo posto, per poi sedermi per terra poco lontano dal letto per
mangiare quel po’ di pane. Restavo zitto per ignorare la
presenza della giovane, che continuava a guardarmi. Ogni tanto
anch’io alzavo gli occhi e incrociavo le sue iridi verdi che
scrutavano ogni mio gesto. Mi dava l’impressione di un
animale braccato da un cacciatore: schiacciato in un angolo, senza via
d’uscita, che fissa con timore crescente colui che lo
minaccia… Così era anche lei, appoggiata, o forse
sarebbe meglio dire addossata, al muro, avvolta stretta in una coperta,
inquieta nei confronti del casuale ospite… In questo non
potevo darle torto. E poi stava anche cercando di mettersi a dormire
per terra per lasciare il letto al mio piccolo amico malato. Dopo tutto
non poteva essere cattiva…
Quando alla fine decisi di sdraiarmi per terra per prendere un
po’ di sonno, mi resi conto di non riuscire a farlo. Era
insopportabile sentirsi così osservati! Per quanto cercassi
di pensare ad altro, di concentrarmi su qualcosa di diverso, sentivo
quella sottile insofferenza e irritazione pungermi la pelle. Quando
infine non ce la feci più, mi alzai in piedi, deciso ad
affrontarla.
Non mi importava più nulla di essere scortese o
irriconoscente. Volevo capire fino in fondo cosa accidenti aveva contro
di me. Io sapevo bene perché non avevo alcuna fiducia in
lei, in una suora. Ma lei non aveva alcun stramaledettissimo motivo di
fare altrettanto! Aveva o no deciso di aiutarmi!? Poteva lasciarmi
fuori! Piuttosto che aiutarmi e poi trattarmi in modo così
dannatamente insopportabile!
In realtà, mi alzai e andai verso di lei perché
non volevo svegliare Iizu parlandole da un capo all’altro
della stanza. Non voleva certo essere un’aggressione. Per
quanto non la stimassi granché, non le avrei mai torto un
capello.
Eppure la sua reazione fu immediata e impaurita. Ero ancora lontano un
paio di metri, ma lei si schiacciò al muro, si
coprì il volto e la bocca con le mani trattenendo un grido.
Uno strano tremore la sconvolse ed ebbi l’impressione di
sentire anche qualche basso singhiozzo.
Allora non osai andare più vicino e mi sedetti in quel
punto. La guardavo incuriosito, ormai, più che arrabbiato.
Mi resi allora conto che avevo avuto ragione. Lei aveva paura di me.
- Perché? – la domanda mi sfuggì di
bocca senza che me ne accorgessi.
Ci mise qualche momento a calmarsi. Attraverso le dita semi-aperte vide
dove mi trovavo e credo valutò che fossi ancora a distanza
di sicurezza. Si passò frettolosamente una mano sugli occhi
e poi cercò di recuperare la sua compattezza. Non
riuscì però a risultare di nuovo gelida quando mi
chiese, piano: - Perché cosa…? –
Con un leggero sorriso feci un gesto plateale: - Perché
tutto questo… Voi avete una paura incredibile di me e mi
siete totalmente nemica e ostile. Eppure mi avete fatto entrare e avete
aiutato Iizu. Perché? –
- Non avete capito un bel niente. -
- Come? Vorreste dirmi che non mi temete…? – con
un sorriso sghembo mi sporsi solo leggermente verso di lei. La reazione
fu immediata e tornò a schiacciarsi contro la parete.
- Appunto. –
- Io… non ho… paura di voi… -
- Beh, diciamo che oggi non lo dimostravate, ma ora si. Anche questo
non mi è chiaro. –
Abbassò la testa per fissare il pavimento e il velo
scivolò a coprirle il volto.
Io attesi una risposta invano per un po’. Poi decisi di porre
una domanda diversa: - Dite un po’, si può sapere
perché siete così insopportabile nei miei
confronti…? –
- Insopportabile!? - l’ostilità era tornata a
colorire la sua voce.
- Si esatto. –
- Avete il coraggio di dire una cosa simile!? Vi ho aiutato, no!?
–
- Si si… - annuii vigorosamente – Ma come se vi
fosse stato ordinato. Con irritazione. –
- Beh, certo! Non vi rendete conto in che guaio mi avete messa!
–
Manteneva la voce bassa per non fare rumore, ma questo non danneggiava
minimamente il tono delle parole.
Sfoderai la mia migliore gamma di sorrisi ironici per
l’occasione: - Guai!? Che guai!? Ecco, il classico
atteggiamento della gente di Chiesa! Fanno sempre le vittime in ogni
occasione. Per quanto siano nel torto. –
- Non vi siete reso conto che questo è un convento di
clausura, quando avete bussato!? -
Devo dire che quella frase mi lasciò un attimo confuso.
Allora tutto tornava. Tuttavia, non mi era sufficiente: - E quindi!? Se
c’è un poveraccio che rischia di morire lo
lasciate per la strada!? Tanto predicare, tanto parlare, e
poi… -
- Le mie sorelle se sapessero che voi, un uomo, passate la notte nella
mia cella… Il fatto che accompagniate un bambino malato non
cambierebbe nulla! Sarebbe la mia fine! -
- Certo! Perché è questa la cosa più
importante! La vostra posizione! E della gente che ha bisogno di aiuto
ve ne fregate! Sono le solite chiacchiere da preti! Si può
sapere che razza di ragionamenti sono!? Sono queste le cose che vi ha
insegnato QUEL VOSTRO DIO!? –
Lei sgranò gli occhi, allibita. Toccò a me allora
abbassare lo sguardo, sapendo di aver parlato troppo.
Dopo qualche secondo di silenzio mi rivolse la parola, con un tono
calmo e distaccato: - …Voi non siete cristiano…?
–
La guardai vagamente indispettito e decisi di stuzzicarla fino in
fondo: - Non credo neanche in Dio se è per questo.
–
Mi studiò per un po’ ma senza più
alcuna sorpresa o confusione, solo asprezza: - Quindi siete il classico
individuo che crede di contare solo su se stesso… -
- Qualcosa in contrario…? -
- Trovo irrazionale credere di essere soli nell’Universo
della creazione. –
- Siete una suora. E’ naturale. Sarebbe strano la pensaste
come me. –
- Sarebbe naturale, invece, che portaste un po’ di rispetto
all’Essere che vi ha donato la vita! –
- Sentite… -
- Come potete non percepire la sua grande forza?! –
- Non potreste provare ad essere un po’ più
diplomatica!? –
- Non è questione di diplomazia ma di giustizia! –
- Se cercate di predicare con me non avete speranze,
“santità”! –
- Lo vedo! Siete solo un arrogante blasfemo! –
- Non crediate di offendermi… Non mi importa un bel
niente… -
- Bene! Allora continuate a vivere nella vostra disumanità!
–
- …Amen… -
Fece un verso che assomigliava vagamente ad un ringhio e si richiuse
nel suo sdegno.
Non riuscii a trattenere una risata: - Eppure vi battete come una
leonessa! E dire che sembra davvero abbiate paura di me! –
- Non credete di essere speciale per questo! Io temo tutti gli esseri
umani… -
- Come prego? -
Teneva gli occhi bassi a terra mentre parlava in un sussurro triste: -
Ho una paura incontenibile delle altre persone, da sempre. Il fatto che
aggredisca spesso verbalmente gli altri è una forma di
autodifesa. Mi viene spontaneo e quando lo faccio riesco anche a
dimenticarmi il mio senso di inferiorità. –
- C’è almeno una ragione per tutto questo?
–
Astiosa: - No! Non c’è! –
Sospirai, sconfitto: - Allora va bene... –
Di nuovo i suoi occhi verdi si allargarono a dismisura: - Cosa? -
- Beh è decisamente controverso, ma spiega tutto. Non siete
neanche voi a volervi rendere così antipatica, è
una questione naturale. Quindi non ci metto più becco. -
Annuì, un po’ confusa e tacque.
Mi sembrò di aver dormito poco o nulla quando venni
svegliato da una campana. Non era ancora l’alba. La suora si
alzò subito e senza esitazioni, come chi era abituato. Io,
invece, ero distrutto.
- Che cos’è…? – chiesi
durante un lungo sbadiglio.
- La campana del Mattutino. Devo andare a messa. –
Si lisciò leggermente l’abito e prese dal comodino
un libretto.
- Perdonatemi, ma dovete proprio andare? -
Mi squadrò con rabbia: - Sentite un po’ voi,
signor ateo… Capisco che per voi andare o non andare ad una
messa… -
- No, non è per quello. – aggiunsi subito
– Solo che non so quando si sveglierà e vorrei ci
foste anche voi per controllarlo. -
- Voi tenete molto a quel bambino. – lo disse senza cambiare
tono ma anche come se ne fosse profondamente stupita.
- Certamente. E’ un mio carissimo amico. –
- Credevo fosse vostro figlio… Anche se non vi chiamerebbe
per nome… -
- No. –
- Ho capito. –
Mi fissò per qualche momento come se mi stesse rivalutando.
La cosa, non so perché, mi fece piacere.
- Comunque tornerò all’ora di pranzo. Non so se
riuscirò di nuovo a portarvi qualcosa da mangiare. -
- Non importa. –
- Vi prego di non fare rumore. Ora devo andare. Sono già in
ritardo. – e uscì.
Ben due giorni passarono in quello strano modo. Con il tempo, la
ragazza si faceva sempre meno ostile, ma non comunque propriamente
gentile. La cosa, però, strano a dirsi, non mi offendeva
più. Finalmente mi era chiaro ciò che era
nascosto dietro quello strano comportamento.
Tuttavia un giorno non potei fare a meno di chiederle, cercando di far
apparire la domanda il più naturale possibile, per quale
ragione ci avesse aperto la porta nonostante rischiasse così
tanto e d’altra parte non amasse minimamente gli esseri umani.
Ci pensò più seriamente di quanto avevo sperato.
Pensavo mi avrebbe liquidato con un pallido “non lo
so”.
Poi mi guardò molto intensamente, con i grandi occhi verdi
che brillavano sulla sua pallida carnagione, e rispose: -
Destino… -
- Come, prego…? – una parola simile non me
l’aspettavo proprio.
- …Io la chiamo Provvidenza, ma voi vi sareste lamentato
come al solito, così vi rendo accettabile il
concetto… -
- Avete capito cosa intendo. Voglio dire, perché non un
semplice caso? –
- Perché quel giorno dovevo andare a cantare nel coro, ma la
notte stranamente non ero stata bene. Ero andata a preparare uno
sciroppo e stavo giusto rientrando in camera quando sono passata
davanti al portone e voi avete bussato. –
- Si, ma non avreste voluto e dovuto aprire. –
- Lo so. Però fui presa dalla curiosità e anche
questo è decisamente anomalo. –
- Ma capita. -
- Si, certo. – si stava un po’ innervosendo, ma
volevo smentire il suo fatalismo. Era troppo divertente contraddirla.
– Però non mi interesso mai a nulla che esuli i
miei doveri. Aprii lo spioncino solo per quello strano istinto. Quando
vi vidi, pensai che dovevo esservi d’aiuto come potevo. E
anche se mi irritava permettervi di entrare, vedere il bambino privo di
conoscenza, mosse qualcosa… Non saprei cosa…
–
- Istinto materno…? –
- Perché no…? – chiese con irritazione.
- Ed è tutto qui? –
- Vi sembra poco!? Tenete conto che io tengo anche una certa naturale
distanza dalle mie sorelle! E invece nel vostro caso vi ho accolto
nella mia cella! Questa per me è una ispirazione divina!
Tanto più che avendo tirato fuori poco prima le cose utili
per il mio lieve malessere non ho dovuto usare sotterfugi per entrare
in erboristeria. Sembrava tutto costruito ad arte! –
- Sarà… -
Iizu ci guardava dal letto ridendo in silenzio. Io gli lanciavo ogni
tanto sguardi complici, fino a che lei ci vide. Mi preparai ad una
tremenda scenata e invece… Semplicemente mi
guardò per un attimo con espressione indecifrabile e poi si
girò verso Iizu indirizzandogli il primo e più
bel sorriso che avessi mai visto.
Era la notte del terzo giorno di permanenza al convento quando uscimmo
in silenzio dalla cella della suora e ci fiondammo verso la silenziosa
ala principale. Aprì il portone con estrema delicatezza. Io
e il mio amico eravamo pronti a scattare fuori per evitare che il
rumore richiamasse qualcuno, ma lei ci fermò e ci mise in
mano due gigantesche pagnotte a testa.
- Ma… - tentai di biascicare.
- Nessun problema. Sono la mia scorta personale. –
- Beh, ma vi abbiamo già portato via il cibo dal piatto per
tre giorni… -
Mi guardò un po’ stupita. Credeva che non avessi
capito che in quei giorni io e Iizu ci eravamo divisi la maggior parte
del suo pranzo e della sua cena.
Abbassò lo sguardo: - Non ha importanza. Questi sono un
regalo. –
Non aggiunse niente e si piegò verso il bambino: - Cerca di
stare bene… -
- Si! Grazie, signora suora! – e le schioccò un
bacio sulla guancia.
Rimasi colpito dal gesto perché Iizu non era solito alle
smancerie, ma mai quanto lei, che divenne rossissima e
riuscì solo a rivolgergli una leggera carezza.
Aprì il portone e noi due uscimmo.
Solo a quel punto mi girai e le porsi la mano.
Lei la guardò, indecisa. Mi ricordai allora dei suoi
problemi di rapporto con gli altri, anche se avevo agito
così convinto che li avesse, almeno in parte, superati.
Ritirai la mano e mi accontentai di dirle, sinceramente questa volta: -
Grazie davvero per tutto quello che avete fatto per Iizu… e
per me. Forse non diventerò mai un cristiano, ma mi
ricorderò delle vostre parole. In fondo è un
compromesso. –
Sorrise gentilmente e fu lei questa volta ad allungare la mano: -
Grazie a voi, Tyki. Grazie a voi ora ho un po’ meno paura. Vi
sono riconoscente, a voi e a Iizu. –
Dopo averla stretta con calore, ci allontanammo di qualche metro e le
rivolgemmo entrambi un cenno di saluto mentre stava per accostare la
porta che si chiuse poi con un leggero tonfo.
- Tyki… -
- Umh. –
- Non le hai neanche chiesto come si chiamava. –
Sbattei gli occhi. Aveva ragione.
- Be’, pazienza. Tanto il mondo è piccolo e la
gente si rincontra prima o poi. -
Lo dissi senza pensarci, anche se interiormente non ci credevo
minimamente. Lei aveva consacrato la vita al suo Dio, non sarebbe mai e
poi mai uscita da quel convento, quindi non avrei mai potuto
rincontrarla.
Non credevo al Destino, né tanto meno alla Provvidenza. Un
giorno me ne sarei ricreduto…
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