Il moribondo.

di Hybris_
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Fine ottobre. Il padre di comare Immacolata, ormai molto anziano, stava per morire.
Nella vecchia stanza dalle pareti macchiate di umidità, tra mobili d’altri tempi e pelli di pecora a mo’ di tappeto come si usava una volta nelle case dei pastori, tra l’odore della malattia e i sospiri delle donne, i parenti del moribondo, radunati accanto al letto, aspettavano che esalasse l’ultimo respiro.
La situazione era stabile da settimane ormai. 
Esasperate dalla lunga attesa, le donne non sapevano più a che santo rivolgersi perché ponesse fine alla sofferenza del pover’uomo. 
In ogni paesino non  può mancare una figura: la donna di chiesa, esperta nelle cose del mondo, quella a cui ci si rivolge nei momenti delicati della vita: nascite, morti, malattie, miracoli, voti da portare a termine. Spesso non sposata, una di quelle vecchie vergini sempre con il rosario in mano, che adotta come figli i suoi compaesani e passa il suo tempo a casa dell’uno o dell’altro, a chiacchierare dell’ultimo “fatto” accaduto in paese o a dispensare consigli.
Questo era il tipo di persona che si trovava appunto a casa di Don Peppe,  (il moribondo) quel pomeriggio: comare Nunzia. Bassa, pingue, dall’aria autoritaria, con i capelli grigi legati in una treccia avvolta intorno alla testa: la tipica acconciatura “a corona”. Tutta vestita di nero, gonna dritta e camicia, al collo una catenina d’oro, l’immancabile rosario nella mano destra. 
Discuteva animatamente con comare Immacolata e sua sorella:
“Madonna mia della montagna, un uomo così forte! Tutta la vita ha faticato, ora non si può vederlo, Immacolà!”
“E che possiamo fare, Nunziatì? Io prego, prego tutti i giorni, il Signore non lo vuole chiamare a sé”
“Gliel’avete fatto il caffè? Così gli schiatta il cuore e se ne va prima, è un atto di carità!”
“L’abbiamo fatto, l’abbiamo fatto, tutto abbiamo fatto povero padre mio!” comare Angela scoppiò in lacrime, mentre la vecchia Nunzia le accarezzava la schiena con fare consolatorio e l’aria di chi queste situazioni le vive tutti i giorni. Difatti, da donna pratica che non si lascia scoraggiare alla prima difficoltà le disse:
“Dobbiamo capire perché non si decide a morire, Angela! Non potete andare avanti così! ”
“E come facciamo, comare?”
“Interroghiamo l’anima.”
Detto ciò si avvicinò al capezzale del moribondo e gli gridò:
“Anima! Anima, perché non esci?? Hai bruciato il giogo o hai ammazzato gatti??”
Don Peppe, sentendosi apostrofare in quel modo comprese che era veramente giunta la sua ora:
 “Amen” disse tra sé e sé, rassegnato.
Le comari ne dedussero che l’uomo aveva in passato ucciso un gatto, cosa che nella tradizione popolare, insieme all’atto di bruciare un giogo, costituiva una sorta di sacrilegio. Decisero quindi di portare la gatta di casa al capezzale del moribondo, affinché lo perdonasse e l’uomo potesse finalmente morire in pace. 
Ecco quindi le tre donne correre per la cucina alla ricerca della povera bestiola che, sebbene restia, alla fine si fece convincere a concedere il suo perdono a Don Peppe.
La mattina dopo, l’uomo spirò.
Comare Immacolata però, signora moderna quale è, ci tiene a far sapere alle amiche che non crede a queste superstizioni “Altrimenti - dice - mio padre sarebbe morto la sera stessa, non avrebbe aspettato il giorno dopo”.




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