//Giorno XDDDDD
Mia prima long
sui MyChem, incentrata sul personaggio di Mikes *-* ai tempi del liceo.
So che a circa
metà storia il tempo verbale cambia, me ne sono accorta solo dopo ma l’ho
riletto fino alla nausea e secondo me dà un po’ di realismo, e quindi l’ho
lasciato così.
Spero di
aggiornare presto.
Come al solito
abbiate pietà, questo è scritto ieri a mezzanotte in un attacco di ira (non
riuscivo a capire un tubo de ‘L’Host’ della zia Meyer >_>’’)
Commentate, pliiiz +.+
Ossessione.
Sì, la mia era un’ossessione. La gravità di ciò pendeva soprattutto dal fatto
che dopo due anni me ne sia accorta solo ora. Idiota, sono decisamente una grandissima
idiota.
‘Belleville, NJ. November 16th
1996’
Questo, signori. Questo era tutto ciò che ero riuscita a
scrivere durante il compito di chimica per il quale avevo studiato assiduamente
per giorni. Arrivata in classe -Il corso
del Signor Trombal alla Belleville
High School – pensavo persino, non che quella non
fosse solamente un’idea malsana frutto di troppe ore passate a ripetersi la
formula per un non so quale composto, di riuscire a strappare una B. Invece
avevo passato tutto il tempo a fissare un punto vuoto e a riflettere. Non che
fissassi realmente una superficie a caso, quella era semplicemente la scusa con
la quale mi assolvevo ogni volta, da due anni ormai, io fissavo lui. No, fissare non era la parola
adatta. Io mi limitavo a seguirne i tratti da dietro, accontentandomi di un
posto lontano dal suo banco, tra Edwin Scott che gli lanciava foglietti di
carta e lo derideva assieme a tutti i babbuini della squadra di rugby e Melissa
Jarves che si rifaceva il trucco, totalmente
incurante di lui : le spalle ossute cinte in un maglione poco costoso che si
allungavano con spigolosità fino a congiungersi un collo alto, fiero, nascosto
da una massa più o meno informe di capelli ispidi, poco curati. Mi perdevo
nella sua imperfezione e sospiravo su quanto facesse schifo la mia vita.
Mickey Way non era una persona facile da avvicinare. Aveva una
cerchia ristrettissima di amici, tutti con quello che, a me, sembrava lo stesso
carattere, timido, impacciato ed introverso. Perlopiù stava con suo fratello,
un ragazzo dell’ultimo anno la cui fama di ‘sfigato’ precedeva il proprio
passo, nei corridoi. Non
era bello e per quanto ne sapessi
(veramente poco, a dire il vero) nessuna ragazza l’aveva mai invitato ad
uscire, però dovevo ammettere che le sue caratteristiche fisiche ,per quanto
strane, mi affascinavano a tal punto faticare per non ammirarlo continuamente,
risultando poi una maniaca totale, livello persino più grave del ‘maniaca
riservata’ titolo che al momento, provvisoriamente mi sono regalata. Era molto
magro. Ai limiti dell’anoressia. Delle labbra sottili, perennemente imbronciate
e degli occhi nocciola, adornati da un paio di spessi occhiali sghembi, sul
naso aquilino, perfetto e maestoso, ma fragile, fine, allo stesso tempo. Con
lui non avevo mai parlato molto, nonostante frequentassi quasi tutte le sue
stesse lezioni. Ricordo che il massimo a cui ero arrivata era avvenuto il mese
scorso con un mio impacciato: «Mi impresti la penna?» E un suo altrettanto poco
abile «Ecco. Tieni» Adorabile, tenero. Ma non verso di me. Il suo era un
comportamento etereo, immacolatamente silenzioso. E a me sarebbe piaciuto,
diavolo quanto sarebbe piaciuto, capire veramente chi era quel ragazzo. Con
cosa si divertiva, chi frequentava, insomma. Il mio scopo, capì mentre consegnavo il foglio vuoto (una F-
assicurata) a Trombal, era conoscerlo.
Driin. L’ora di pranzo.
Mi alzai svogliatamente dal banco, dovevo ancora capacitarmi
del fatto di aver consegnato uno dei compiti più importanti del semestre in
bianco. Ora ero troppo impegnata a divenire, silenziosa spettatrice, di uno
spettacolo raro. Un sorriso. Un sorriso proprio di Way. Un sorriso per il quale
avrei dato un organo interno, se fosse indirizzato a me. Un sorriso che invece
era tutto di un ragazzo, che gli aveva appena consegnato un fumetto. Qualcosa
di speciale, data la rara luce di gioia nei suoi occhi. Gioia che per un po’ mi
invase profondamente, come se aspettassi qual momento. Sapere che lui era
felice mi infondeva un assoluto stato di benessere, era una cosa molto strana.
Era come un legame invisibile, che ci legò, anche se lui era ignaro di questo,
fin quando Caroline, la mia migliore amica –per quanto io abbia evitato di
averne una per un anno, lei si è imposta nella mia routine con la sua allegria
e le sue battute, superficiali ma discrete – non mi trascinò letteralmente
verso la mensa cianciando del nuovo taglio di non so quale giocatore della
squadra di pallanuoto.
«Allora che ne dici?» Chiede, entusiasta, alla fine di un
discorso che apparentemente mi aveva esposto fino alla sua domanda
«Dicevi?» Mi ci volle poco per notare che mi sventolava
sotto il vassoio dieci unghie color verde mela con dei ricami floreali di
smalto madre perla, decisamente alla Caroline.
Lei si volta, alla ricerca del mio motivo di distrazione. Ma
non vede nessuno, o almeno, per lei il tavolo a cui era seduto Mickey non
contava. Troppe nullità.
«Uhm, si carine.»Borbotto io, per rimediare all’episodio per
il quale, altrimenti, mi avrebbe tenuto il muso per giorni.
Dopo la mia riflessione, durata tutto il pranzo, escluse le
uscite della mia compagna di tavolo sulle nuove scarpe di uno e sugli affari
amorosi dell’altro, arrivo ad una conclusione: dovevo parlargli entro la fine
della scuola, oggi.
Finita la breve pausa, e seminata Caroline, mi infilo nel
primo bagno e, con estrema cautela, alzando di poco in poco la testa, squadro me stessa, riflessa nello specchio
sudicio, poco illuminato da delle luci al neon scadenti. Il solito schifo,
ovvero il ‘carina, ma mai abbastanza’ con il quale dovevo fare i conti ogni
giorno. Capelli neri, troppo vaporosi e
crespi, raccolti da una forcina colorata con velocità, gli occhi verde gatto,
che nessuno ha mai realmente apprezzato e una spruzzata di acne, odioso e
letale, mal coperto da make-up da grandi magazzini. Passo, lentamente per
evitare troppo shock, lo sguardo verso la mia figura. Normale, non troverei
altro aggettivo che mi si addice di più. Banale, tremendamente banale. Magra,
dai fianchi minuti e il seno odiosamente troppo prosperoso, che non mi ha mai
realmente portato al successo in amore.
Cosce striminzite dentro un paio di jeans scuri, un dolcevita viola. Mi
odio.
Odio non poter far
nulla, mi sento talmente inutile. Non posso rimediare all’imminente divorzio
dei miei, non posso rimediare ai pianti ricorrenti di mia madre. Non posso
neanche rimediare alla sofferenza di mia sorella, per quanto ancora all’oscuro
della cruda realtà, troppo volubile per
sopportarne anche solo il riflesso.
Devo cancellare la mia sofferenza, probabilmente Mickey
rivolgeva la parola solo alle ragazze allegre, quelle sempre ridacchianti e
squallidamente divertite, anche dagli avvenimenti peggiori. Nel mio immaginario
l’avevo sempre pensato un ragazzo che se ne fregava, ma d'altronde era un
maschio. Dopo tutto quello che era successo con mio padre la mia fiducia nel
genere era degenerata e mi ero ripromessa di non fidarmi più di loro, per
quanto potessero sembrare di natura buona. Mi stavo lavando il viso da dieci minuti, che
stupida, avevo di nuovo divagato. Esco, spedita, veloce, sicura, verso il suo
armadietto ma tutto il mio coraggio sembra diluirsi ad ogni mio passo. A pochi
metri da lui, che stava sistemando dei libri con la sua sorprendente calma,
credevo di non farcela.
Mi sono bloccata.
Sono immobile, come una statua, in mezzo al corridoio,
mentre un paio di studenti più piccoli mi guardano come una ritardata mentale,
che infatti, sospetto di essere. Alla fine strizzo gli occhi, sforzandomi di
non mettermi a piangere o ad urlare, a differenza di come avrebbero reagito i
miei nervi al loro crollo totale, se non ci fossi riuscita. Muovo un passo, poi
un altro e sono davanti a lui, ora non si può più tornare indietro. Inghiotto
l’aria con bramosia e in un impeto di faccia tosta evoco un poco sonoro e
stranamente acuto «Ciao» Oddio, e ora? Durante il percorso ero stata talmente
impegnata a trovare il coraggio per avvicinarmi che non avevo minimamente
progettato qualcosa, una scusa o una frase idiota, per rompere il
ghiaccio.