SETTEMBRE
by
Chiara (lealidiicaro@libero.it O http://lantrodidedalo.iobloggo.com)
Sono
passati anni, da quella sera di settembre, eppure la pioggia che ticchetta
sembre la stessa di quel giorno.
Sono
passati anni, diciotto, a contarli, da quella sera di settembre.
Sono
passati anni, che sembrano secoli o momenti a seconda dell'umore.
Trunks
ha sedici anni, e ogni giorno ti somiglia di più.
E'
in camera coricato in terra, lo so, con gli occhi chiusi e le cuffie nelle
orecchie. Ascolta un grupppo che non conosco e non apprezzo, di quelli rumorosi
che mettono a tacere le guerre intorno.
Di
quella musica che si ascolta e si dimentica. Dentro cui ci si perde, e non si
pensa ai Cyborg.
Trunks
ascolta musica e io sto qui in questa cucina, seduta sulla stessa sedia di
quella sera.
Quando
la corrente è andata via Trunks non ha detto niente. Il buio fa piacere, quando
è autunno e tutto oltre che grigio è distrutto.
A
tutti e due questo buio piace. A Trunks perchè fa dimenticare, a me perchè
ricorda quella sera.
Sono
passati anni, da quella sera di settembre.
Eppure,
se guardo fuori dalla finestra, mi sembra che l'edera sulla parete del gt non
sia mai cresciuta.
E
che la città sia ancora tutta intera.
Era
una giornata tiepida e serena. Il sole appena tramontato lasciava che gli
ultimi raggi accarezzassero lentamente le foglie ormai sul punto di cadere. Era
una sera magica, straordinariamente rossa e d'ambra. Ricordo i riflessi perchè
tornando a casa quella sera non notai altro.
Ero
a piedi, con la rabbia e la frustrazione che spingevano le mie gambe a muovere
ogni passo.
-Credo
sia inutile continuare a stare assieme. Lo sappiamo entrambi che non è più come
prima.
L'avevo
detto.
Avevo
preso coraggio, ero uscita di casa ed ero andata fino a campo da baseball
rigirandomi quella frase tra le dita della mente. L'avevo detto. Ma non era
vero che mi sarei sentita meglio.
Lo
sapevamo entrambi, io e Yamcha non eravamo più una coppia. Lo sapevamo
entrambi, ma nessuno dei due voleva addossarsi la colpa di essere "il
cattivo".
Lo
sapevamo entrambi, ma ogni volta c'era sempre un ma...
-Non
sono io che non sono più come prima, Bulma. E non guardarmi così, sai benissimo
a cosa mi riferisco.
Ancora
quella storia.
-Piantala
con queste stronzate, Yamcha. O credi di darmi a bere che sei andato a letto
con quella puttanella perchè sei geloso che io parli, e attenzioni, parli,
niente di più, con Vegeta?
Perchè
tu gli davi fastidio. Vegeta. Tu hai idea, di quanto Yamcha non soportasse la
tua presenza.
Eppure
tu eri un pretesto, un pretesto perchè usato da chi non voleva capire che ti
parlavo solo se avevo bisogno.
Per
dirti che uscivamo tutti tranne te, per dirti di lasciare le scarpe
all'ingresso. Per dirti che se volevi il cibo era in frigo.
Ma
per Yamche tu eri il pretesto di ogni cosa. Per litigare, per scoparsi
un'altra, per giustificare, il fatto che si scopava un'altra.
Era
sempre la stessa storia, come una canzone col repeat per giorni e mesi e
settimane.
Qualche
mese prima avevo creduto di essere in grado di perdonare. Avevo creduto di
essere in grado di non comportarmi da Bulma Brief, una volta tanto.
Ma
avevo fallito.
Miseramente,
oltretutto.
Quella
sera sono arrivata in cortile senza rendermene conto.
La
frustrazione era diventata rabbia. Sentivo le lacrime premermi sugli occhi.
Sempre
la stessa storia. E non la storia che lui mi tradiva.
La
storia che io, magari, avevo pensato di tradirlo.
Pensato.
Solo
pensato.
Entrai
in cucina sbattendo la borsa sul divano.
L'umiliazione
era una bestia esotica che non conoscevo. Non mi era mai successo, di essere
umiliata.
Mi
sedetti su una sedia senza accendere la luce.
Sul
tavolo un post-it bianco diceva in mezzo a cuori e fiori stilizzati: "Io e
papà siamo andati a cena con i Lambert. In frigo c'è lo stufato. Baci
baci."
Lo
stufato a settembre, come il gelato a Natale. Fuori dalla casa c'era un tempo
splendido, fuori era una giornata splendida, e io riuscivo solo a pensare a
quanto fosse sbagliato tutto quanto, a cominciare dallo stufato per cena a
settembre.
In quella giornata tutto andava male, a cominciare dal tempo troppo bello.
Ma
la notte scese in fretta, e in due ore si oscurò il cielo.
Verso
le dieci cominciò a tuonare, poi a piovere.
I
tuoi passi verso la cucina erano i soli riconoscessi sempre. una cadenza come
ritmica, se avessi misurato la frequenza l'avrei trovata perfetta, lo so.
Sono
passati tanti anni, eppure di notte mi sembra ancora di sentirli, i tuoi passi.
La
tua voce no, poco per volta sta sparendo, ma quel ticchettio è un ticchettio
che non potrò dimenticare.
Sono
passati tanti anni, eppure, di notte, sogno ancora di sentirli.
I
tuoi passi.
Lo
scroscio dell'acqua copriva tutto, ogni singolo rumore, ma quando sei rientrato
ti ho sentito forte e chiaro. La cadenza lenta e l'appoggio deciso sul
pavimento. Il cik ciak degli stivali intrisi d'acqua e fango. Dio, quanto
odiavo vederti camminare sul pavimento con gli stivali sporchi.
Ho
nascosto la mano con la sigaretta in mezzo alle ginocchia, un gesto istintivo e
involontario. Non avrei potevo sopportare il tuo sarcasmo, non in quella sera.
Ricordo
di aver tenuto la testa china, quando sei entrato in cucina. Nel buio più
totale, un lampione fuori sulla strada proiettava una lama di luce sulla mia
schiena. La sigaretta bruciava lenta sotto l'incavo del mio ginocchio, speravo
solo che te ne andassi.
Avevo
mangiato e letto e passato l'aspirapolvere e cucinato una torta e mangiato un
pezzo della torta, pur di non pensare.
Ma
non ho mai sopportato la pioggia.
Avevo
fatto mille cose per convincermi, ma la pioggia coglie sempre impraparati.
E
quando la corrente era saltata aveva posato il piatto, mi ero seduta sulla
sedia e avevo acceso una sigaretta.
Volevo
solo che te ne andassi. Volevo restare sola, in quel buio, a piangere senza che
nessuno lo sapesse mai.
Ma
tu sei rimasto. Con noncuranza ti sei appoggiato ai fornelli proprio dietro a
me. Sentivo in rumore delle tue palpebre che battevano.
-Voi
donne terrestri siete proprio sciocche. Non avete paura di prendere in casa
sterminatori di interi pianeti ma avete paura di parlare con uno stupido
terrestre.
La
tua voce dura. Quel tono di accusa, di scherno. Ti stavi divertendo, ammettilo,
a vedere Bulma Brief piangere in silenzio?
Avrei
voluto dirti di andare al diavolo, che non stavo piangendo, che io potevo avere
uomini duecento volte migliori di Yamcha.
Avrei
voluto dirti che ero forte. Che non stavo al buio per paura che qualcuno mi
cogliesse in quel momento.
Eppure...
-Forse
perchè voi sajan se vi scopate un'altra non date la colpa a noi che non vi
capiamo.
E
tu sei rimasto lì, appoggiato al quel cazzo di fornello. Le braccia conserte e gli
occhi su di me.
Non
m'importava di Yamcha, non me ne importava, davvero.
Stavo
male per me, come sempre, stavo male per me e basta.
Perchè
io non gli bastavo. Perchè dentro me sapevo che, Vegeta o non Vegeta, lui mi
avrebbe tradito comunque.
L'immagine
di quella diciannovenne bionda e alta come un palo della luce mi fluttuava
davanti. Bella, bellissima, mortalmente stupida. Ma pur sempre bellissima.
Cos'aveva...
Lei
che mi porgeva la collana impacchettata e mi dava il resto. Lei che non sapeva,
chi ero io.
quelli
lì...
Lei
che mi salutava con il sorriso idiota di chi vede il mondo a cuori e stelle e
fiori.
Cosa
aveva lei più di me?
Cosa?
Volevo
che mi lasciassi in pace. Che capissi che non era il momento per litigare.
Che
non avevo nè la forza nè la voglia di discutere con te, Vegeta.
Volevo
che capissi, e per una volta provassi pietà e mi lasciassi sola.
Ma
tu sei rimasto lì, appoggiato ai fornelli, con il panino che mia madre ti aveva
preparato prima di uscire in una mano. Senza mangiare, solo immobile a
guardarmi.
Sentivo
il tuo sguardo perforarmi la schiena.
Il
rombo di un tuono mi fece sobbalzare. La mano che stringeva la sigaretta scattò
verso l'alto. La parte accesa colpì la pelle nuda della coscia.
-Ah!
Ed
eccole lì, le bastarde. Lacrime grandi e grondanti lungo le mie guance. Lacrime
di dolore fisico e mentale. Di rabbia. Di rancore.
Lacrime
di umilazione, di cocente umiliazione.
Un
segno rosso e circolare pulsava sulla mia pelle ma il dolore non era nulla, in
confronto a quel che avevo dentro.
Presi
a frizionarmi la ferita con la frenesia di chi vuole farsi ancora più male per
non sentire la ferita originaria.
Frega
frega, e intanto lacrime che cadevano dalle guance sulle gambe e dalle gambe
scivolavano fin sulla pelle dei sandali.
Ero
patetica, a pensare che tu potessi pensare quelle lacrime fossero solo per la
bruciatura, ma avevo bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi.
Ero
come un guerriero nudo sul campo di battaglia. Se qualcuno mi avesse detto
anche per scherzo che avevo una spada mi sarebbe andato bene.
Non
avevo più nulla da perdere, l'orgoglio scivolava via in ogni nuova gocca
d'acqua salata.
Ed
è stato allora che ti sei staccato dai fornelli, che hai aperto la credenza e
preso l'aceto. Che ti sei tolto uno dei guanti per versarti il liquido giallo
su un dito.
Io
piangevo e mi frizionavo la gamba come se così facendo me la fossi potuta
staccare e con essa avessi potuto staccare anche il ricordo di quella puttanella alta
come un palo della luce.
-Piantala
di dimenarti così per un taglietto. Non ti hanno mica frustata a sangue.
A quelle parole mi sono bloccata.
Non
ti hanno mica frustata...
Ti
ho guardato.
Mi
hai intimato di alzarmi, di girarmi e darti le spalle.
-Adesso
non ti muovere. D'accordo?
Non
avevo paura, lì da sola al buio con te. Uno sterminatore. Un assassino. Ma pur
sempre meglio di Yamcha, pensavo in quel momento.
Ho
sentito che ti chinavi sulle ginocchia in modo di avere il viso all'altezza
delle mie cosce. Ho sentivo una tua mano appoggiarsi sulla pelle sopra il
ginocchio per farmi cenno di divaricare leggermente le gambe.
Non
avevo paura.
Non
ne avevo, neanche un po'.
-Voglio
solo tapparti la ferita. Quindi non pensare nemmeno di mollarmi un calcio,
capito, donna?
Ho
fatto cenno di sì con la testa, poi d'improvviso un dolore lacerante mi ha
invaso il corpo.
Un
dito intinto di aceto su una bruciatura appena fatta.
Un
male che non avevo mai sentito. Il male inflitto da chi non si cura di
soffrire. Da chi non sa neanche cosa sia, un'anestesia.
Non
ero abituata a soffrire. Non ero abituata a non bastare a qualcuno. Non ero
abituata a sentirmi in colpa.
Tutto
quella giornata mi coglieva alla sprovvista.
Eppure
il dolore si è placato in un momento subito. Una scarica poi più nulla.
E
tu che ti alzavi di nuovo, che mi tornavi davanti, ti reinfilavi il guanto e
posavi l'aceto nella credenza.
Da
quanto conoscevi la credenza? Da quanto sapevi dove trovare le cose?
Da
quanto ti muovevi come se fossi in casa tua?
Ti
muovevi con la naturalezza del padrone di una casa. Come se fossi qui da
sempre. Come un leone nel terreno attorno alla propria tana. Con una mano mi
tastai la parte dietro della coscia. Una piccola bolla gialla era ora al posto
della bruciatura.
-Gli
acidi sono vasocostrittori, è per questo che non senti dolore.
Ti
guardai senza sapere cosa dire. Non era mai successo.
Il
tuo tono freddo. Come quello di chi ti ritiene troppo stupido per curarti da
solo.
Come
quello di un sayan verso una stupida terrestre.
Ma
c'era una nota diversa, il solo fatto di avermi aiutata era stato bello.
Il
solo fatto di non avermi schernito troppo. Avesti potuto fare di peggio, se
avessi voluto.
Avresti
potuto ridere ancora delle mie lacrime, ma non l'hai fatto, come se per una
volta avessi capito il mio dolore in quel momento fosse poco per i tuoi canoni
ma fin troppo per i miei.
Ti
ho visto prendere il panino e fare per uscire dalla stanza.
La
nostra converazione sarebbe finita lì. Forse tutto sarebbe stato diverso, se
fosse finita lì.
Ma
avevo bisogno di saperlo. Avevo la possibilità che aspettavo.
Avevo
bisogno di capire.
-Vegeta?
Tu
che ti voltavi. -Cosa?
Uno
sguardo al cadavere di sigaretta sul linoleum. Poi gli occhi fissi in terra.
-Tu pensi che...se fossi il mio ragazzo...mi tradiresti?
Quando
le luci si abbassano le difese vanno giù, diceva una volta qualcuno.
In
quell'oscrità non esistevano più Bulma Brief e Vegeta, Solo due sagome scure su
uno sfondo indefinito e traballante.
Ma
sentivo la domanda gravarmi addosso.
Sentivo
il mio muro sgretolarsi troppo in fretta.
Non
avevo avuto paura a saperti chinato con una mano tra le mie gambe, ma ora mi
sentivo male.
Avevo
paura di cosa avresti potuto rispondermi. Della stupidità della mia stessa
domanda. Avevo paura che quella conversazione sarebbe stata ripresa, di giorno
per schernirmi.
Come
avresti riso. Quanto avresti riso, di me grazie a quella domanda.
Mille
camice rosa non sarebbero bastate a sotterrare la vergogna. Ti avevo dato la
vendetta in mano.
Ero
il guerriero che ti aveva sbeffeggiato e ora stavo solo e nudo in mezzo a un
campo di battaglia.
Ti
avevo definito il mio ragazzo. Il mio ragazzo. Avevi sterminato migliaia di
persone e io ti avevo definito ragazzo.
Come
avresti potuto ridere, se solo avessi voluto.
Non
quella sera non sapevo, quel che sarebbe venuto dopo.
Mi
aspettavo di vederti andare via ridendo. Invece sei rientrato nella cucina. -In
che senso tradirti?
Non
mi aspettavo mantenessi un tono serio. Non mi aspettavo, volessi darmi una
risposta.
-Nel
senso di tradirmi. Andare con un'altra perchè io non sono abbastanza qualcosa.
Un
respiro.
-Insomma,
voglio dire...
Forza.
-...io...
No,
non ce la faccio.
Di
nuovo occhi a terra, Di nuovo lacrime.
-Perchè
io non sono abbastanza?
Non
ero abituata a soffrire. Non ero abituata a non essere abbastanza.
Non
ero abituata come te, a vivere nel male.
E
mi aspettavo mi avresti deriso. Mi aspettavo che mi avresti voltato le spalle
come facevi sempre e te ne fossi andato.
Con
quel cik ciak di stivali infangati e intrisi d'acqua e sudore. Lasciando orme
che poi avrei pulito pensando a quanto fossi stata stupida.
Non
mi avevi mai vista debole e insicura, mi ero imposta, che tu non mi vedessi mai
debole e indifesa. Me ne ero curata, di non mostrarti mai il fianco da colpire.
Ma
la pioggia è sempre la pioggia.
Quando
anche il cielo piange come si fa a essere forti?
Ho
continuato a fissare il pavimento e la sigaretta morta. Poi ho sentito i tuoi
passi.
La
tua mano che posava il panino sul lavello. Tu di fronte a me, immobile.
Ho
alzato di nuovo gli occhi. Avevi un'espressione diversa. Profonda.
Per
la prima volta mi sono resa conto di quel buio così avvolgente.
Tu,
io, tu, immobile di fronte a me.
Per
la prima volta.
Tutto
quel buio.
Non
dimenticherò mai quella frase.
-Il
problema di voi terrestri è che vi preoccupate troppo di cosa pensano gli
altri.
E
poi il primo bacio. Stranamente lento e profondo. Come il fragersi di un'onda
sulla battigia di una spiaggia sabbiosa.
E
tutto quel buio, che di colpo diventava bello. Con le lacrime ormai asciutte,
per quel contatto che era tutta la mia risposta.
-Specialmente
gli insulsi terrestri.
Fuori
la pioggia batte sui vetri e sull'erba del cortile. E' novembre ma sembra
quella sera. La stessa luce dello stesso lampione proietta la stessa lama sulla
mia schiena.
Mi
alzo dalla sedia e vado alla finestra. Sono passati diciott'anni, da quella
sera, eppure sembra ieri.
Lascio
che il mio sguardo accarezzi quel cortile sempre uguale, che non vada oltre,
verso la strada coperta di buche e i palazzi crollati in lontananza.
I
cyborg sono arrivati dopo, quando la magia di quella sera aveva lasciato il
posto all'indifferenza.
Quando
era tornata la luce, ed eravamo tornati ad essere Bulma Brief e Vegeta, non più
della sagome indistinte.
Se
fossi qui in questo momento rideresti, dell'impegno che sto mettendo in quella
macchina del tempo.
Mi
manda avanti il pensiero, la speranza, che in una qualche dimensione resterai
con me.
Che
mi ringrazierai.
E
in fondo avevi ragione.
Noi
terrestri ci preoccupiamo troppo di quello che pensano gli altri.
Ma
mi manda avanti la speranza, e il ricordo dei tuoi passi.
Mi
manda avanti il ricordo, amaro e bellissimo, della sera in cui tutto è
cominciato. Stranamente e d'improvviso.
Come
un temporale dopo il sole di settembre.