PARIGI
Cette histoire est inspirée de faits réel
mais les noms ont été changés pour protéger les
coupables
10/12/2013, Parigi
Ore
10.40 – Arrivals
Lei
Mentre prende il primo boccone di brioche,
con il naso pieno di profumo di burro e vaniglia, sorride tra sé: questo é
“cupio dissolvi”, si dice, dopo almeno una settimana di dieta buttata all’aria
senza rimpianti. Altro che esseri multidimensionali: abbiamo bisogno di
mangiare, di ballare, di sballarci. Abbiamo bisogno della musica e di amore, di
occhi e di sguardi che ci arrivano come pugni nello stomaco, e ci fanno cadere
sulle ginocchia.
Non pensa a occhi in generale, no. Pensa a
due occhi in particolare. Il guaio è che ormai ci pensa talmente spesso, che
quando parla con le persone non riesce sempre a nascondere che spesso si
perde nel suo mondo popolato di creature bellissime, chitarre rosse e smalto
nero.
Mentre pensa a tutto questo, in un bar
dell’aeroporto, cerca sul display del cellulare un segnale di pace. Perché
quando, alla fine, il suo ragazzo non ha potuto accompagnarla per un impegno di
lavoro, e lei ha minacciato di andare comunque a quel concerto a Parigi, hanno
litigato, come sempre, ma anche in maniera diversa. Come se lo avesse detto a
parole, lui ha capito che lei con la testa era già da un’altra parte e che
non c’era trattativa.
Perciò, quella mattina, è sola al tavolino
di un bar all’interno dell’aeroporto, e aspetta di trovare il coraggio di
uscire fuori in quella che ha sempre pensato essere la città più bella del
mondo.
Poiché ha gli occhi bassi, fissi sullo
schermo del telefono, non vede che lui è entrato, e avvicinandosi al bancone,
con gli occhi bassi, fissi sullo schermo del suo telefono, ha sbadatamente
urtato il vassoio della colazione, pericolosamente sporgente dopo che lei ha
fatto spazio per leggere il tablet, versando in terra quello che resta della
brioche e il bicchiere pieno di succo di arancia.
“Merde! Mi dispiace, sono mortificato…”
L’espressione del viso, anche se protetto dagli occhiali scuri, dice un’altra
cosa. E’ solo sincero fastidio per il casino che c’è in terra, ma nessun
dispiacere per chi siede al tavolo. Pantaloni e giubbotto neri, un cappello
morbido calcato sulla testa, lei lo guarda, ma il suo cervello si rifiuta di
farglielo riconoscere. Forse è la voce, quella voce che per chiunque altro
proprietario sarebbe strana, se non decisamente sgradevole, a costringerla a
capire chi si trova davanti.
Quella voce, che stia minacciando la fine
del mondo che conosciamo o promettendo un nuovo domani, cantando, parlando o
ridendo, ha il potere di scuoterla fini dal primo giorno in cui l’ha sentita.
Ricorda perfettamente la sensazione di stupore
e disagio che ha provato, ascoltando la radio, mentre una mattina assolata
andava – correva, sempre in ritardo – al lavoro. Una voce che le ha insegnato
in tre minuti che i confini tra bene e male, tra gli angeli e i demoni, tra un
uomo ed una donna, sono davvero labili.
E passarlo nel modo sbagliato, il confine
che ha davanti ora, sarebbe facilissimo. Così respira profondamente alzando lo
sguardo su di lui, cercando di farlo apparire il più possibile neutro, e risponde:
“Nessun problema, avevo comunque finito.” Brian alza vistosamente un
sopracciglio, e getta uno sguardo scettico a terra, indicando i testi della
colazione. “We made a fine mess…” annota mentalmente lei, sorridendo tra sé a
quella vista.
Lui
All’inizio, Brian non è davvero sicuro di
volersene occupare. Potrebbe fare un cenno alla cameriera per dire di metter
tutto quello che è andato sprecato, e tutto quello che lei potrebbe ancora
desiderare, sul suo conto, senza neppure guardarla, o preoccuparsene davvero.
Come al solito, in effetti. Sarebbe decisamente poco educato, e perciò ancora
più in sintonia con quella voglia sottile di rovesciare il tavolo
(metaforicamente, nelle sue intenzioni originarie), con cui si è alzato quella
mattina.
Non è un giorno qualunque. L’ha detto, sì,
l’ha fatto credere a tutti, dicendolo con quello sguardo un po’ annoiato, molto
blasé, con cui, di solito, riesce a nascondere i suoi veri pensieri agli altri.
E come tutti i mentitori di professione, come tutti gli attori veri, ha quasi
convinto anche l’ultimo spettatore dei suoi show, che dall’ultima fila lo
guarda pronto a rimproveragli il minimo errore nelle espressioni e nelle
battute: sé stesso.
Ma quel compleanno è un po’ diverso da
tutti quelli che l’hanno preceduto. Quella sera suonerà in un città che ama, e
che lo amava. E la paura di essere troppo vecchio per incantarla ancora, di
mostrare le crepe, di non avere più la luce nello sguardo, per stordire chi ne è
il fortunato beneficiario, si è infilata nella sua anima, o qualsiasi cosa di
essa abbia resistito al tempo, alle droghe, alle medicine e al disagio di
vivere di cui si è riempito i giorni. Quello sguardo che difficilmente ormai
rivolge in alto, ad evocare ogni volta un dio o un fantasma diverso e sempre
ugualmente terribile. Sa che un limite è stato superato. Il tempo è andato
avanti fino ad arrivare ad un punto invisibile, che ha separato il Brian
perfetto, bellissimo e immortale nelle suo indulgere nei vizi, dal Brian
maturo, responsabile, pulito, e sempre più fragile nel suo ostinarsi a tenersi
lontano da quelle miserie.
Perciò, che senso ha quel compleanno? Non può,
semplicemente, ignorarlo convincendo a fare altrettanto tutto il fottuto resto
del mondo? Con un solo sguardo?
Ora come ora, non riesce a reggere nemmeno
quello della ragazza che ha di fronte… Ha davanti l’espressione gelida e gli
occhi giudicanti che gli si sono conficcati addosso milioni di volte, fin da
quando, sedicenne, girava in abitini corti e trucco ammiccante.
Ma il sorriso involontario di lei, che rompe
quella maschera quando lo riconosce, scioglie in un istante il malessere,
stretto come un nodo nel suo stomaco e pesante come una pietra sul petto, primo
regalo al risveglio di quella mattina; e gli dice che forse potrebbe valere la
pena di rischiare un altro giro di carte, prima di abbandonare il gioco.
Lo guarda scostante, ma sembra più una
scena provata e riprovata anche quella. Sa bene che, se sei un tipo che non può
contare sulla statura per mettere in soggezione gli altri (e lei, anche se
seduta, sembra rientrare in quella categoria), un sorriso sottilmente arrogante
e due occhi azzurri socchiusi possono farti sentire la prossima preda… al
minimo sbaglio. Ma, povera ragazza,
quella era ancora una sfida che può vincere facilmente; è il suo terreno di
gioco preferito.
”C’è qualcosa che
posso fare per rimediare a questo?” domanda con una intonazione fredda e
lievemente infastidita, mascherata da un adorabile finto sorriso educato.
Lei, inaspettatamente,
contraccambia con lieve sarcasmo: “No, a questo, non credo.”
Brian spalanca
leggermente gli occhi, anche se lei non può vederlo, dietro le lenti scure.
E poi aggiunge,
con un sorriso altrettanto adorabile sulle labbra: “Ma potrebbe fare qualcosa
per questa sera.” Gli occhi di lui sempre più spalancati, e lei sempre più
audace: ”Potresti rendere quello di stasera lo spettacolo migliore che abbia
mai avuto.”
Brian alza leggermente le spalle, con
noncuranza: “Bene, ci proverò...” Inspira, tornando serio. “Hai dei buoni
biglietti?” Lei solleva lo sguardo verso un punto imprecisato, come a
riflettere sulla risposta. “Bè, penso di
sì. Sono sul parterre”. Lui cerca con gli occhi la ragazza alla cassa,
facendogli segno di scrivere qualcosa sulla mano aperta, e ne riceve
prontamente una penna ed un foglietto, su cui scribacchia un nome ed un numero.
“Ti piacerebbe sedere in un posto molto
vicino al palco e guardare il concerto da lì?” No, pensa lei, se stessi molto
vicino al palco non sentirei probabilmente nemmeno una nota, e rimarrei fissa
su di te per due ore, completamente priva di intendere e volere. Ma ha la
prontezza di guardarlo in modo tranquillo, e di rispondere continuando quel
gioco di cortesie che ormai hanno iniziato: “I’ll be delighted, indeed.”
Brian stavolta si
concede quasi una risata vera: “Mi piacciono le parole che dici, e come le
pronunci…“
“Delighted.
Indeed.”, ripete, senza traccia di derisione.
Potrei dire
proprio la stessa cosa di lei, signor Molko, pensa lei. “Credo che sia a causa
della mia passione per Jane Austen”. Brian alza gli occhiali sulla fronte;
oramai si guardano apertamente, senza più imbarazzo o sufficienza.
“Bene, allora chiama
questo numero quando arriverai a Bercy, io parlerò con Mark perché ti procuri
un posto. Va bene?”
Non va bene per
niente, invece. E’ chiaro che sono arrivati alla fine, e il volto di lei si
scurisce improvvisamente. Equivocando il suo cambio di umore, Brian aggiunge:
“Solo se ti fa piacere, naturalmente. Allora, verrai?” Quando lei alza di nuovo
gli occhi nello sguardo enorme dell’altro, le sembra che il mondo si sia
davvero fermato. Tutto intorno è sfumato, come se si trovassero all’interno di
una grande palla con la neve artificiale. Con uno sforzo enorme, perché le
sembra che il sangue non arrivi più alle braccia, né alle gambe, si alza
poggiandosi sulle mani, che sono ancora abbandonate sul piano del tavolo, e fa
un occhiolino scherzoso al suo interlocutore. “Se è così importante, cercherò
di venire.” e lui annuisce, unendo la sua alla risata di lei.
“Bene.
Fantastico.” risponde Brian, atteggiando la bocca in quella smorfia “100% Brian
Molko”, che sembra voler dire “Non c’è nulla di vero, in quello che hai creduto
di vedere e capire, e non ti sei preso nulla di me.”, il che, quasi sempre,
drammaticamente, è la realtà delle cose.
Ore 11.30 - Le jardin
Des milliers et des milliers d'années
Ne sauraient suffire
Pour dire
La petite seconde
d'éternité
Où tu m'as embrassé
Où je t'ai embrassèe
Un matin dans la lumière de
l'hiver
Au parc Montsouris à Paris
Paris
Sur la terre
La terre qui est un astre.
Jacques Prévert
Sta sorridendo. Lui sorride sempre. E lei, è
naturale che sorrida. Sarebbe il momento perfetto per accomiatarsi, un saluto
frettoloso e sarebbe tutto finito, uno in più di un milione di piccoli incontri
inutili che ha già fatto, piccoli contatti casuali tra esseri umani che non
vale la pena raccontare.
Per un attimo, lo coglie una fottuta paura
di uscire da quell’aeroporto e trovarsi troppo tempo davanti libero prima delle
prove, troppo tempo per ricominciare a pensare, troppo per immaginarsi come sarà
fantastica quella serata e poi ripetersi come un dottore premuroso: non
pensarci, sai che non è più come prima. Non contarci, o dopo farà troppo male.
E poi, come lo scaldo il pubblico ora che
sul palco non riesco quasi più nemmeno a guardare Stefan e quando mi giro verso
la mia band incrocio solo occhi che sfuggono?
“Io vado a fare un giro in città prima del
soundcheck, vorresti accompagnarmi?”
La fottuta paura si trasferisce
istantaneamente da lui a lei, che si vede annuire, senza sapere cos’altro
aggiungere.
Per fortuna, per qualche minuto, è necessario
soltanto seguirlo mentre si fa strada verso l’uscita e poi ferma un taxi.
Brian scambia qualche parola con il guidatore e lei si chiede com’è che riesce
a capirlo, non solo quando parla inglese, ma spesso anche in francese,
conoscendo male la prima e nulla della seconda lingua…
Sorride tra sé, guardando fuori il cielo
tutto sommato abbastanza luminoso per essere dicembre. Pensa che le piacerebbe
tanto fermarsi a passeggiare sugli Champs-Élysées addobbati per il Natale.
Trasale quando lui le dice: ”Ora mi
dovresti dire come ti chiami, miss Bennet”. “…Elizabeth?”. Sorridono entrambi e
lui scuote la testa. “Conosci il parco Montsouris?”
Non è così freddo; ed è piacevole
passeggiare, mentre lei cerca di raccontargli delle sue precedenti visite alla
città e che no, non è certa di esserci stata, in quel parco. In realtà in quel
momento non è certa di nulla, che cosa sta accadendo, che cosa è accaduto prima
o se quella sensazione di conoscere alla perfezione quale espressione di volta
in volta lui farà alle sue parole è un deja vù, o cosa.
Poi finisce le parole. Le muoiono in bocca,
perché a parlare non è brava come la storia del capire, e lui non sembra avere
nessuna voglia di condividere con lei i ricordi che ha di quella città.
Così, ad un certo punto, si trovano seduti
su una panchina, l’una accanto all’altro, con lo sguardo nel sole tiepido, che
getta una luce innaturale sulle foglie degli alberi, e nell’aria.
Lui si accende una sigaretta, e sbuffando
il primo tiro di fumo le chiede: ”Per essere una fan dei Placebo, ti comporti
in maniera piuttosto… inusuale, a giudicare dai segni.” abbassando lo sguardo
sul polso di lei, che senza volerlo si è scoperto. Si è fatta fare quel
tatuaggio identico, nello stesso posto dove l’ha anche Brian, solo un mese
prima.
“Che poi scusa, che cazzo c’entra una come
te con il simbolo della sobrietà?” le dice con un tono di voce più duro di
quanto intendesse.
“Oh, ma il mio non significa sobrietà.
Significa dipendenza. Da cui, sinceramente, mi dispiacerebbe uscire proprio
oggi ”.
Sarebbe facile rispondere che non sa di
cosa sta parlando. Ma, in effetti, che senso ha ora rimproverare lei, dopo essersi
dannato l’anima tutta la vita per eseguire alla perfezione la parte “Sono il
più sexy del mondo”?
Alza gli occhi dal polso e non dice niente.
Lei, abbassa velocemente la manica fino a coprire le dita della mano.
“Mi aspettavo comunque qualcosa di più
classico, che farmi sentire un cretino per la storia della colazione…. Che so,
urla, mani nei capelli, foto a raffica…” “Dici che ti sarebbe piaciuto? Non
credo. Se insisti comunque ho un pezzo… ma devi toglierti gli occhiali.”
Brian scuote la testa ridendo: “Non
posso…”. La ragazza alza il sopracciglio e si gira a guardarlo con la testa
inclinata come si fa con un bambino capriccioso, che non vuole fare quello che
gli viene detto.
Allora lui si gira verso di lei, con il
fianco ed un braccio appoggiati allo schienale della panchina, e la testa sulla
mano. Con l’altra, getta la sigaretta, solleva gli occhiali sulla fronte e poi
la tende di lato al viso per schermarlo dal sole e da chissà quali sguardi
curiosi... A parte un paio di bambini a passeggio con la loro tata, sono soli!
Lei esegue le stesse mosse, e si trovano
l’uno di fronte all’altro, il viso troppo vicino, nascosti al mondo da
quell’improvvisato nascondiglio creato dalle loro mani, che quasi si
toccano. Sente il fumo della sigaretta
appena gettata sulla bocca di Brian, sulla mano, tra loro, a costringere il suo
cervello a pensieri razionali, causa-effetto, qui, ora, e pensa che sì, il fumo
uccide, ma in quel momento la sta tenendo in vita, perché impedisce alla sua
mente di svuotarsi del tutto.
Può vedere finalmente i suoi occhi da
vicino, senza che nessuna telecamera ne cambi i colori. Ma non riusce a essere
così sfacciata, che per un paio di secondi.
Abbassa lo sguardo, sul naso di Brian.
Poi sulla bocca, imperfetta…. Perfetta.
Appena increspata in un sorriso. Innocente. Sensuale. Indecente. Sei solo tu
che la guardavi a doverlo scegliere. “Brian… Vuoi passare il resto della tua
vita con me?”. Ora la bocca di Brian non sorride più, mentre si morde il
labbro, come se non sapesse decidere la risposta giusta.
“Uhm, tutta la vita non so. Ma posso fare
qualcosa per le prossime due ore.” e volta la testa oltre il cancello. “Lì c’è
il mio albergo. Sali con me?”.
Lei si volta, appoggiando rigidamente tutta
la schiena sulla panchina, e guarda verso l’edificio che lui le indica.
“Così, Brian… Questo è il tuo programma
normale per un giorno qualsiasi durante i tour? Raccattare qualcuno nel primo
bar e portartelo in camera?”.
Lui attende qualche secondo, con lo sguardo
fisso verso il palazzo stile liberty, di quelli che ti fanno sembrare ogni via
di Parigi, più elegante del corso di qualsiasi altra città.
“Così… Elizabeth, hai detto. Così,
Elizabeth, quando sei a Roma sei solita presentarti con un nome falso e offrire
il tuo amore eterno a tipi che conosci da… vediamo…”, guarda ostentatamente lo
schermo del cellulare “… un’ora?”
Ora è il suo turno di scuotere la testa.
“Touché.” Si alza, e comincia lentamente a camminare per uscire dal parco.
Ore
12.10 – Protège moi
Sommes-nous les jouets
du destin
Souviens-toi des
moments divins
Planant, éclatés au
matin,
Et maintenant nous
sommes tout seuls.
Quando entrano
in camera e Brian si chiude la porta alle spalle, dopo averle ceduto il passo,
l’atmosfera è cambiata e decisamente meno naturale, di poco prima. Lei è
visibilmente imbarazzata; sente che il gioco le ha preso un po’ la mano e
davvero, davvero non se ne sente all’altezza.
Lui sembra distante; forse, un po’
annoiato. La parte razionale di entrambi comincia ad avvertire qualcosa di
simile al rimorso; e per metterla a tacere Brian si avvicina al tavolino
accanto ad un bel divano, sotto una grande vetrata schermata da tende scure, e
versa due dita di liquido ambrato per sé e per lei.
La ragazza dà un silenzioso assenso al
tacito invito implicito nell’offerta, e prende il bicchiere dalle sue mani con
un breve contatto, che le trasmette un brivido nelle braccia e le fiacca le
gambe. Cerca dove sedersi; mentre Brian, intanto, si è quasi steso di fianco sul
divano, facendole cenno di appoggiarsi sul letto di fronte a lui.
“Sarebbe carino ora, da parte tua, aiutarmi
ad eliminare lo svantaggio, e dirmi qualcosa in più di te.”
Lei alza gli occhi al soffitto come a
cercare ispirazione. “Vediamo… Sono nata nel 1972. Bella presenza; punti
deboli, l’altezza; punti forti: gli occhi. Ho una figlia di 8 anni, ma non sono
sposata. Mi sono laureata e ho
cominciato il mio lavoro, senza più cambiarlo. Penso che i Placebo siano la migliore
rock band di sempre e Brian Molko la creatura più fantastica mai apparsa sulla
Terra.”
Brian ha ascoltato tutto tenendo gli occhi
bassi, con un mezzo sorriso sul volto ed esclama: ”Avevo chiesto di raccontarmi
la tua vita, non la mia!” scoppiando in una risata convinta. Pensa che forse il
gioco può valere la candela; e si accende una sigaretta, tirando la prima,
lenta boccata.
Lei gli chiede se può averne una; lui si
sfila la sua dalla bocca e gliela porge, ripetendo il gesto di poco prima,
immerso sempre più nella sua migliore interpretazione di “ho venduto la mia
anima al diavolo per avere questo sex-appeal, ma faccio finta di non esserne
consapevole”. Che poi, il diavolo doveva avere fatto un pessimo affare: l’anima
di un santo non valeva la visione che ha davanti in quel momento, figurarsi
quella del giovane Brian.
Non cerca neppure di far finta di non
esserne attratta; siede di nuovo sul letto senza staccare gli occhi da quella
sigaretta, tra le mani e la bocca di Brian, spettacolo che probabilmente farebbe
riconsiderare non solo a molte donne l’idea di fedeltà di coppia, ma anche a
molti uomini il proprio convincimento sull’eterosessualità.
La sua, di sigaretta, continua a consumarsi,
senza che abbia potuto farne più di un tiro. Tenerla tra le labbra è già
un’idea abbastanza sconvolgente, essendo stata tra quelle di lui. E tenendola
semplicemente tra le labbra, continua a guardarlo, mentre Brian si gode il suo
primo regalo di quel compleanno, quello sguardo adorante che in mille copie lo ha
accarezzato da quando ne ha memoria, ricambiandolo con un’espressione
indecifrabile (un’espressione regalatagli dal diavolo nell’affare di cui sopra,
di cui si serve talmente spesso da non ingannare più nessuno sulla sua
autenticità o spontaneità, a parte lei in quel momento).
Non vede un portacenere vicino: quindi si
alza, cercando di tenersi sufficientemente ferma sulle gambe, e si avvicina al
tavolino dove ne ha visto uno. Spegne la sigaretta, si inginocchia di fronte
all’uomo sul divano e avvicina il viso al suo, la sua bocca a quella di lui,
senza toccarla, pensando: ”Toccami, e salvami, o uccidimi, ma fallo in fretta”.
Brian è attraversato dallo stesso pensiero,
ma si chiede al contrario se deve baciarla e farle male, o lasciarla andare e
così proteggerla da quel veleno che sente dentro, come sempre. Quando si trova
così vicino a lei che la scelta non è più rimandabile, è debole come lo è
sempre stato in momenti simili, è egoista, ed è bugiardo nel dirsi che in fondo
lei sa benissimo cosa sta per succedere…
Se lo sapesse, o potesse immaginarlo, in
quel momento non sarebbe in quella camera con lui.
Non rischierebbe di finire in quell’infinita schiera di
sfortunati che hanno creduto di potere avere qualcosa indietro per l’amore, il
tempo, la fiducia e l’anima che gli hanno dato; e si terrebbe lontana,
lontanissima da quella bocca a cui invece si è consegnata.
Il primo contatto è breve, e lei sente solo
l’alcol e il tabacco. Poi Brian si avvicina di nuovo, e di nuovo poggia le
labbra sorridendo sulle sue, inclina la testa e chiude gli occhi cercando la
sua lingua, per dirle che la vuole. Che ne ha bisogno, meglio. Che è quasi,
anche se non esattamente, la stessa cosa, ma lei non è lucida abbastanza per
accorgersene.
Dapprima è la sola morbidezza di quel bacio
a occuparle tutta la mente e i sensi. Ma dopo qualche secondo, in cui il
cervello si spegne e il corpo si accende, finalmente comincia a sentire il
sapore di Brian e l’ultimo pensiero razionale è: no, non potevo immaginare una
cosa così.
Semplicemente, smette di chiedersi tutte le
domande del mondo e di tormentarsi con la più giusta (perché? perché io?) ed è
solo un seguire l’istinto, che le dice che avvicinarsi in quel modo al cielo
non può essere peccato, in nessuno dei percorsi e con nessuno dei compagni
possibili.
Sdraiata tra le gambe di lui, l’androgino
Brian, Brian la “diva”, l’angelo senza sesso, Brian il “diverso”, si sente
morire ad ogni gemito, ad ogni sospiro, al tocco delle sue mani sulla testa che
la guidano nel ritmo e nei movimenti, gli stessi gesti e la stessa urgenza di
ogni altro uomo sulla Terra.
La vera differenza con gli altri era che
lui può entrare dentro di te molto più profondamente, dandoti molto più piacere
e dolore di quanto potesse mai fare su quel letto, usando solo la voce, gli occhi
o un sorriso.
E quando, non potendo più sostenere quelle
carezze, le ferma le mani e si stende accanto a lei, attirandola in un bacio
lungo e quasi straziante per il bisogno che esprime, le sembra che non c’e mai
stato, e sa che non ci sarà mai più, un motivo per vivere più vero e più valido
di quello che sentiva dentro in quel momento.
“TELL ME WE BOTH MATTER, DON’T
WE?” Che importanza aveva sapere se è amore o sesso o cosa, qualunque parola
non può comunque raccontarlo.
E lei, se glielo chiedessero, non avrebbe
mai tempo e parole a sufficienza per spiegare quello che è successo e il motivo
per cui, da quel giorno in cui l’ha sentito cantare per la prima volta, la sua
vita non è stata più la stessa, lei non è stata più la stessa, come se avesse
una luce nello sguardo e nel sorriso, che li rende più brillanti di quanto possano
mai essere, con qualunque mascara e rossetto.
Si stacca da quel bacio con la stessa
sensazione dentro del naufrago, che, esausto, si stacca dal relitto che lo tiene
a galla e capisce lucidamente, alzando gli occhi al cielo, che lo sta guardando
per l’ultima volta, e che quella distesa infinita di acqua limpida, gelida e di
un colore incredibile, sospeso tra il verde e l’azzurro, lo ucciderà tra poco.
Non è certa se sia stato un sogno o quel
mare l’abbia visto davvero, negli occhi di Brian steso su quel divano, una
mezz’ora prima, e sorride fra sé al pensiero ridicolo di poter misurare il tempo,
quel tempo, in qualche modo.
Si stacca da quel bacio e si gira,
nascondendogli il volto e premendo la schiena contro il petto di Brian,
lasciando che lui la abbracci e immagini di stringere lei o chiunque altro voglia
che sia al suo posto. Che differenza fa, comunque?
Brian non può vedere le sue lacrime, mentre
entra dentro di lei, che piange per tutta la vita che le scorre nelle vene e le
da alla testa in quel momento e che l’abbandonerà tra poco – secondi, minuti,
non sa quanto possano resistere – piange per tutto quello che è accaduto e sta
per accadere, e per le macerie che sa che lascerà, anche se è tardi per correre
via e nascondersi da qualche parte.
E il suo cervello, usualmente così perfetto
nel proteggerla e coprirla di una corazza di freddezza in situazioni
emotivamente difficili, è incapace di fornirle qualsiasi schermo e anzi le
sembra di sentire il tocco delle mani di Brian come se fosse bollente e lei non
avesse nemmeno la pelle ma solo carne viva.
Quando lui le viene dentro, con lei, un po’
prima, un po’ dopo (è complicato essere precisi mentre il mondo si rovescia),
in quell’attimo sfuggito al tempo capisce che di nuovo – come quel giorno di un
paio di mesi prima, sentendo quella canzone alla radio – è morta e rinata,
diversa, grazie a lui.
Ore 14.40 – The bitter end
See you at the bitter end.
Se fosse riuscita a mantenersi lucida.
Forse, senza quel whisky e quella sigaretta.
Se non avesse avuto quell’idea stupida di
dirgli del concerto. Se avesse accettato le sue scuse per la colazione, e
basta.
Ma anche, se lui fosse stato un altro. Non
Brian, cioè. Se non avesse avuto quel modo assurdo – gelida arroganza in un
involucro di perfetta cortesia – di chiedere scusa. Se non l’avesse fatto con
quella voce e quello sguardo di distaccata sufficienza, e quel vezzo di
scandire tutte le parole.
O se lei fosse stata proprio quello che
Brian voleva, e si fosse innamorato in due ore come era successo a lei. Se
questa luce nell’aria di Parigi non avesse questa maledetta capacità di
spandere oro su tutto – tutto.
Gira intorno al palazzetto di Bercy, una
gigantesca piramide azteca coperta di verde e stagliata nel sole del primo
pomeriggio, terrificante come se dovesse essere il teatro di qualche sacrificio
umano.
Metro. Champs-Élysées. Bancarelle per il
Natale che arriva. Palazzi - non negozi, semplici vetrine, boutique - palazzi
della moda altissimi e inquietanti nello sfarzo esibito e sbattuto in faccia ai
turisti. L’Arco di Trionfo. Un monumento alla vittoria accanto all’emblema
della disfatta, nella foto che ha chiesto ad un passante di farle per
immortalare il momento – come se ci fosse modo o bisogno di fotografare quel
cuore a pezzi, per inviarlo su Twitter. Guardate cosa ci ho guadagnato.
Guardate quello che ne è rimasto. Accontentatevi delle canzoni, delle smorfie e
degli ammiccamenti, dello sbattere di ciglia e degli occhi al cielo. Tingetevi
e tagliatevi i capelli come lui, e imparate a scostare le ciocche dal viso con
il mignolo. Se non vi arriva ancora abbastanza veleno, leggete le fanfiction.
Scrivetele. Sognate di incontrarlo e di avere una storia con lui. Ma, per
l’amore del cielo, non lo fate. Davvero. Io ora non chiamerò nessun Mark o come
diavolo si chiama. Non rischierò di trovarmi ancora davanti a lui. Voglio
almeno uno schermo di qualche migliaio di persone davanti. Stasera voglio stare
tra i fan dei Placebo e strillare e cantare “joyeux anniversaire, Brian”, come se non me ne fregasse nulla.
Il concerto è già finito da un quarto d’ora
ma esita ad uscire. Ovviamente ci vorranno ancora molte ore prima che quel
miele (fiele?) che ha dentro sparisca del tutto. Ovviamente non l’incontrerà
più, e quel ricordo sfumerà fino a non poter essere certa che non sia stato un
sogno. Ovviamente un giorno riderà di quello sguardo da gatto che ha il topo
tra le zampe e gli dice: “Sei morto; ma prima giochiamo un po’”, o di quello
falsamente ingenuo, stillante miele, da bambola di porcellana.
Brian sembra semplice da capire da lontano.
Finché non ti avvicini, e scopri che lui è molto più complesso. E’ tante cose diverse tutte insieme, è
qualcosa ed il suo contrario, senza apparente confine e in eterna lotta. La
perfezione assoluta ed il vaso di Pandora. Sua Maestà la Grazia ed Eleganza,
autore di versi immortali intrisi di sesso e droga. L’angelo senza sesso e
l’Idea Platonica di Attrazione. Un uomo che sembra una donna che sembra un
uomo, in un infinito gioco di specchi in cui la mente si perde. Quello che
stava cercando da tutta la vita. Quello che non avrebbe mai più ritrovato in
nessun altro.