Titolo:
Nihil
a me alienum
Autore:
PotterWatch
Fandom:
Puella Magi Madoka Magica
Citazione:
Negli
uomini non esiste veramente che una sola coerenza: quella delle loro
contraddizioni. (Guido Morselli)
Personaggi:
Homura
Akemi, Madoka Kaname, Sayaka Miki, Kyoko Sakura, Mami Tomoe
Wordcount:
1526
(OpenOffice)
Generi:
Introspettivo
Avvertimenti:
Missing Moments, Spoiler
Rating:
Verde
Nihil
a me alienum
Negli
uomini non esiste veramente che una sola coerenza: quella delle loro
contraddizioni. (Guido Morselli)
Mami
credeva nella propria fortuna.
Intorno
a una preghiera, caduta sul vuoto dell’asfalto
così tanti anni prima, aveva ricostruito una vita da zero.
Era impresso in lei, palpabile, l’atto viscerale di quel
desiderio; era una luce che rinasceva ogni volta, nei suoi occhi e nei
suoi movimenti. Di ciascun combattimento, Mami faceva un rito, come se
la vittoria non fosse mai abbastanza per onorarlo.
In
fondo, il vero premio era già stato un dono.
Mami
era ancora viva. Era la prima certezza a guidarla in battaglia, e
l’ultima a rimanere nella scia del finale.
Faceva
del suo meglio, Mami, per non perdere di vista la propria benedizione.
Cercava di farsi bastare il battito del cuore e il respiro affannoso,
unici compagni sulle ali del vento. Accadeva, però, che il
suo sorriso si incrinasse; il bagliore dei suoi capelli si spegneva, in
quei momenti, per lasciare posto a toni diversi. Un’ombra
velata le passava sul cuore, inesorabile – anche la
più salda delle fedi, oltre la luce, conosce le tenebre.
Mami
non combatteva, in quelle notti. Lasciava cadere le lacrime su un
pavimento freddo, credendosi stupida e incosciente. C’era una
crudeltà innata nel suo odiare se stessa; ricercava
attraverso i rimproveri la gratitudine quasi perduta, intrappolandosi
nel pensiero, circolare e solido, che il prezzo di un miracolo si paga
per sempre.
Mami
piangeva fino all’alba, attendendo, come un dono, i primi
raggi del sole. Non li rifiutava mai – accoglieva il loro
calore ogni volta, perché lenissero la battaglia che
infuriava in lei.
*
Kyoko
sapeva di aver fatto la scelta giusta.
Quando
il labirinto svaniva, riportandola all’aria fresca
della notte, si sentiva pronta ad andare avanti per sempre. Al di
là della stanchezza, e della fatica di nasconderla ogni
giorno, durante la notte riusciva a sorridere come non era capace in
nessun altro tempo.
A
battaglia finita, Kyoko non mancava mai di conservare
quell’attimo per sé. Si immergeva nella piena luce
lunare, dall’alto dei tetti della città; cercava,
nel riflesso dei lampioni, le finestre spente della propria casa, con
le labbra aperte come un fiore. Laggiù, dietro le tende, la
sua famiglia sognava di costruirsi una vita migliore. Ora era lei, si
diceva con orgoglio, a vegliare sui loro sogni.
Si
domandava cosa sarebbe accaduto – se solo avesse potuto
condividere con loro, come tutto il resto, questa metà della
sua vita. Si chiedeva sempre, sfiorandosi i capelli umidi, se sarebbero
stati ancora fieri di lei.
Kyoko
non aveva paura, non ne voleva avere. Saltava da un grattacielo
all’altro, in volo verso casa, con la fiducia sincera di chi
crede nel futuro; per quanto giovane, affaticata e debole, avrebbe
sempre fatto del suo meglio. Era questa certezza a darle, ogni notte,
la forza di ricominciare.
Lo
credette con costanza, fino all’ultima volta. Lo credeva
ancora quando, con il lume tenue della sua magia, planò
verso la finestra; sentì il coraggio fremere, per poi
svanire in un battito d’ali, davanti alla sagoma di suo padre.
Eppure,
mentre lo guardava – un fascio di nervi piantato sulla
soglia, con occhi svegli e disfatti dalla solitudine – si
tenne ancora aggrappata alla speranza.
Prima
di lasciarla per sempre, nel cuore di un labirinto di strega, Kyoko
avrebbe visto morire molto altro.
*
Lungo
il sentiero di guerra, Homura aveva smarrito qualcosa.
Era
un frammento, un ritmo lieve e costante, del quale aveva smesso di
accorgersi. Era scivolato via nelle infinite ore di veglia; si era
disperso, a gocce, nel cerchio di luce della lampada. Si era spezzato
in combattimento, per poi sfracellarsi nella sconfitta. Lo aveva
lasciato andare senza saperlo, quando non aveva occhi a sufficienza; e
nel momento in cui aveva capito, ormai assordata dal dolore, non si era
domandata neppure perché.
Era
difficile ricordare la sensazione di vivere. Quando rientrava da notti
intere di cammino – molte spese a inseguire, come foglie
secche, le strade tracciate ogni volta dal fato – Homura
guardava il cielo, cercando un segno nelle sue profondità.
Tentava, nell’ordine ormai distrutto dei suoi pensieri, di
separare inizio e fine, distinguendo a malapena il buio dal mattino.
Il
tepore dei sensi le ricordava, a tratti, cosa significasse la
realtà di un essere umano. Conservava a fatica
l’eco dei giorni passati al sole; il suono delle voci, una
mano calda, l’immagine di un volto amico. Tutto, inesorabile,
sbiadiva con lo scorrere del tempo.
A
renderla umana era stato un sogno – l’incoscienza,
fragile e quieta, di credere nell’eternità della
gioia. Tanto aveva pagato, Homura, per scambiarla con
un’altra illusione.
Non
erano previsti errori, questa volta. Non potevano esistere
cecità, incongruenze, errori di calcolo; esistevano le
regole, ma non ll’occasione di infrangerle. Ciò
che era concesso nel mondo là fuori, nel suo aveva perso
qualsiasi significato. Si pagava diventando infallibili, come gli
dèi.
Homura
non era più un essere umano; ma da molti cicli, ormai, aveva
perso la certezza di poter cancellare gli errori. Ed era questo, forse,
il peggiore di tutti gli inganni.
*
Sayaka
capì all’ultimo momento. Fu proprio il tempo di
quella rivelazione, così netto e puntuale, a renderla
spietata.
Non
si sarebbe accorta di nulla, forse, se non fosse stato per la musica.
Passò rapida come un sospiro, riversandosi dentro e fuori di
lei; da sempre in circolo nella sua anima, il ritmo delle sue emozioni
la abbandonò senza freno.
Non
c’era modo di tornare indietro, non c’era mai
stato. Fu l’ultima certezza che il dolore le
suggerì.
Non
appena toccarono il mondo, le note si fecero colori. Caddero al suolo
come lacrime, contorte e alterate, trasformando l’aria in un
pianto disperato di archi. Ciò che Sayaka aveva perso
divenne leggibile – si incise nei loro riflessi, scritto in
un alfabeto senza tempo.
In
quei pochi istanti, nel suo cuore passarono mille secoli di sofferenze.
La verità fulminò la sua coscienza; il male del
sapere, intollerabile, si confuse con il lacerarsi della sua anima. Ma
del vortice di lamenti che Sayaka avrebbe voluto ripetere al mondo, per
preservare e guarire anime simili alla sua, neppure una parola
passò il confine delle sue labbra.
Era
stata soltanto ingenua. Si era convinta che, alla fine del suo
percorso, la ricompensa sarebbe stata il nulla – aveva
creduto di potersi spegnere nel mezzo dell’abbandono, lenta e
indisturbata. Sayaka avrebbe voluto cancellare se stessa, eliminando
qualsiasi traccia dal suolo di un mondo tanto ingannevole.
Tuttavia,
nell’ultima ferita della coscienza, l’intera
realtà era differente ai suoi occhi. Si convinse di averlo
meritato, fin dall’inizio; quel corpo e quel respiro, quei
doni che aveva ridotto a guscio vuoto, non le spettavano
più. Si rese conto di quanto avesse perso – si
vide altrettanto falsa, nell’errore e nella cecità.
Il
gioco era grande, le condizioni avvolte nell’ombra. Lei, come
tante, non era stata all’altezza.
La
disperazione non smise mai di echeggiare, piena di contrasti, in
quell’orchestra mossa dalla furia. Continuò a
salire in vortici, a tingere la sua pelle, ad annodare il tessuto
deforme della sua immagine – nessuno dei suoni conobbe
più alcun riposo, fino a che una voce lontana non si
sacrificò per lei.
Un’eternità
dopo aver perso la speranza, Sayaka si risvegliò.
Ascoltò la preghiera, accolse la tregua; e finalmente, con
una gratitudine senza più voce, ritrovò il
silenzio.
*
Madoka
non aveva alcun rimpianto.
Slegata
dal tempo e dallo spazio, nel limbo senza confini del divino, si
rendeva ancora conto del peso del proprio sacrificio. Ogni istante
speso a contatto con il mondo, scorrendo nella trama
dell’essere, risvegliava le immagini della persona che era
stata; la placida malinconia del conoscersi, del ricordare quel mondo,
stemperava in saggezza la gioia del suo incarico.
Conosceva
davvero, ora, l’importanza dell’equilibrio
universale. Non avrebbe potuto mai intervenire, se non riscrivendolo
– era una costante, e persino lei era costretta a vivere
nella traccia dei suoi confini. Eppure, nell’immensa energia
del proprio desiderio, Madoka sapeva di averlo corretto nel profondo; e
il risultato, nella sua rinnovata perfezione, era riuscito persino ad
oltrepassare la sua originaria speranza.
Prima
e ultima, Madoka aveva conosciuto le radici di quella sofferenza
millenaria. Aveva visto generazioni di donne, dall’anima
afflitta e splendente, crollare sotto un’unica maledizione;
aveva ascoltato il loro canto, mentre i salmi di gratitudine morivano
in pianti senza tono e misura.
Più
di tutte le loro lacrime, era stata una sola certezza a far scorrere le
sue – da sempre, attraverso l’inganno, il male
nasceva dai loro stessi desideri.
Alto,
eterno, era stato il prezzo da pagare. Ma la ricompensa splendeva nei
loro sorrisi, e Madoka poteva soltanto esserne felice.
Non
le lasciava mai. Da un mondo tessuto in altri spazi, stringeva le loro
dita mentre piangevano. Gettava raggi di luce, inondando le loro
vittorie; neppure un istante di trionfo doveva essere dimenticato.
Combatteva perché non dovessero più, per alcun
motivo, vedersi tinte in luce ed ombra, ma solo come realtà
complete.
Non
avrebbero più creduto di mancare al loro dovere. Le cadute
erano parte della loro natura, tanto quanto lo era, ogni volta,
rialzarsi e ricominciare a lottare.
Con
le fila dell’universo in mano, Madoka sorrideva in eterno.
Era serena, stabile, nella sua scelta infinita –
l’aver dato se stessa perché, in ogni tempo e
luogo, ciascuna di loro potesse ritrovarsi.
___
Salve
a tutti i fan di Madoka Magica!
Firmo
il mio esordio nella sezione italiana partecipando al contest di Setsuka,
Alla
ricerca dell'umanità.
Non
scrivevo fanfiction in italiano da mesi, e non sono abituata a
partecipare a contest; ma il tema - l’umanità,
appunto - mi ha catturata da subito, soprattutto per la sua assonanza
con lo splendido anime di cui ho scritto. Madoka è una delle
opere che mi hanno colpita maggiormente in tutta la mia vita, ed
è innegabile che una grandissima parte del suo fascino venga
esattamente dalla sua profonda esplorazione dell’animo umano.
Si tratta di un’esplorazione a tratti ragionata, ma
soprattutto emotiva e viscerale; ed è per questo che, nei
nostri cuori, è risuonata così vera e
condivisibile.
La
citazione da me scelta esprime un concetto a me molto caro e ricorrente
nell’anime. Sono diverse le realtà che davvero ci
rendono umani; ma l’origine di tutte loro, a voler ricercare
fino in fondo, sarà sempre il limite. Siamo, in quanto
uomini, limitati; e a rompere l’equilibrio, proprio come
succede in Madoka e in infinite altre storie, è la
consapevolezza di non poterlo superare, unita al desiderio di farlo.
Dai
nostri limiti vengono gli errori e le contraddizioni, ma viene anche il
nostro fascino. A rendere la vita degna di essere vissuta è
la capacità di riconoscerli ed accettarli, in quanto parte
di noi; e ciò che mi ha colpita di più nel corso
dell’anime, con Sayaka in primo luogo, è
l’evidenza di questa verità. Le ragazze si perdono
quando perdono se stesse; o meglio, perdono la capacità di
accettare il loro essere, prima e dopo il cambiamento. Il vero dono di
Madoka è stato restituire a tutte loro la
possibilità di non cadere in preda allo sconforto. Di
credere in loro stesse, come Madoka chiede, fino alla fine.
Per
questo ho strutturato la mia storia in cinque parti, scegliendo una
Puella Magi per i diversi stadi di alienazione - o, possiamo dire,
perdizione e allontanamento dalla realtà umana. Da Mami a
Homura, passando per Sayaka ormai strega, Madoka ritorna alla fine, a
ristabilire l’equilibrio che ogni ragazza magica del mondo ha
dovuto rompere.
Questo
è anche il senso della citazione che ho scelto;
l’unico modo che abbiamo di essere umani, la nostra unica
coerenza, è la via della contraddizione e del limite. Per
quanto ci appaia restrittivo, abbracciarla è il solo modo
che ci sia concesso per vivere in modo completo e sereno. Una
curiosità: dal punto di vista etimologico,
“perfetto” significa completo. Il più
grande dono che un essere umano possa fare a se stesso è
ricercare la perfezione giusta; quella familiare, raggiungibile,
già dentro ad ognuno di noi. Probabilmente, questa
è la più grande lezione
sull’umanità trasmessa da Madoka; sono davvero
felice di aver avuto un’opportunità per
svilupparla.
Una
nota sul titolo: come molti di voi sapranno, la citazione è
parte di una celeberrima commedia di Terenzio, l’Heautontimoroumenos.
Terenzio caratterizzava, a differenza dei commediografi
dell’epoca, i suoi lavori con una forte impronta umanitaria e
un’attenzione singolare alla profondità dei
personaggi. La battuta intera è Homo
sum: humani nihil a me alienum puto,
ovvero Sono
un uomo, e ritengo parte di me qualsiasi cosa umana.
Grazie
per l’attenzione!
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