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{Veronica voleva volare}
Veronica non era una ragazza normale, sotto molti
punti di vista.
Veronica amava il cioccolato. Possedeva
un’intera scorta di tavolette di contrabbando del
più raffinato cioccolato fondente in commercio, nascosta in
un angolo remoto dell’armadio dove sua madre non guardava
mai. Eppure era magra e senza l’ombra di un brufolo.
Veronica considerava uno spreco le pareti bianche.
Non che fosse una graffitara, ma lì dove c’era un
po’ di spazio, la ragazza disegnava, colorava o scriveva. Ne
erano una prova le pareti della sua stanza, ricoperte di foto e
citazioni: tutte assurde, profonde, divertenti.
Non credeva nell’amore. Che cosa
sciocca, ripeteva alle amiche. Non pensate, però, che fosse
senza cuore. Era buona, gentile e affidabile. Solo, non si era mai
innamorata. Non ancora.
Veronica pensava che cogliere al volo qualunque
tipo di occasione la vita ti offra sia d’obbligo.
Può confermarlo quell’incauto giovanotto che aveva
deciso di assecondarla quando la ragazzina aveva decretato che voleva
imparare a sciare, oppure la povera signora del secondo piano che se
l’era vista rotolare ai piedi dopo ben tre rampe di scale,
seguita a ruota da uno skateboard. Per non parlare di quella volta che
era sicura di poter praticare surf in salotto. Il gatto di casa non era
mai stato più lo stesso.
Possedeva un intero armadio stracolmo di jeans,
t-shirt azzurre e felpe blu. E basta. Solo numerosi jeans, molteplici
t-shirt azzurre e svariate felpe blu. E non dimentichiamoci della
biancheria intima, delle cinture, degli orecchini e delle borse. Tutto
rigorosamente color del cielo, a parte le scarpe, sempre bianche e da
ginnastica. La madre ringraziava di continuo il Signore che almeno
quelle tonalità le donassero.
Veronica aveva una tartaruga che chiamava ogni
giorno con nomi diversi. La monotonia uccide, ribadiva alle amiche, e
siccome non può cambiare il guscio, le cambio perlomeno il
nome. Qualcosa da obbiettare?
Le piaceva suonare la batteria. Non ne possedeva
una, ma ogni tanto strimpellava con quella di un suo vicino di casa.
Oramai nel quartiere erano tutti armati di cuffie insonorizzanti. Solo
il suo migliore amico, JJ, che poi era anche il famoso vicino di casa,
trovava il coraggio di dirle che faceva veramente schifo e che prima o
poi qualcuno sarebbe morto a causa del frastuono. Lei non ci badava
affatto.
Veronica era certa che i giochi di
società nocessero alla salute quasi quanto il fumo e la
droga, se non di più. Il motivo? Nascosto a chiunque non
fosse JJ, ma se volete, potete provare a indovinare. Una volta il padre
le aveva comprato un Monopoli, che era finito dritto dritto nella
spazzatura, ancora sigillato. Quel pover’uomo non avrebbe mai
scordato le urla indignate della figlia. E nemmeno il gatto.
Beveva sempre una tazza di caffé alle
quattro in punto del pomeriggio, ovunque si trovasse. Il
caffé non le piaceva neppure, ma secondo lei doveva pur
avere un vizio, visto che non considerava tale mangiarsi le unghie. Era
una questione estetica, ripeteva. Lunghe o ben limate non le stavano
proprio bene; mangiucchiate, invece, le donavano. Si sentiva se stessa,
mentre sorseggiava quella tazza di caffé e si mordicchiava
le unghie.
Veronica amava la musica rock. Non musica
qualunque, però. Melodia senza parole. Sosteneva che la
maggior parte dei testi delle canzoni fosse banale, davvero privo di
originalità e particolarmente sciocco. E poi quasi tutte
parlavano d’amore. Lei odiava le canzoni che parlavano
d’amore. Un assolo di batteria valeva molto più di
centinaia di quei testi senza un vero e proprio significato.
Aveva un debole per le matite. Le collezionava.
Più strane, usate, stemperate e mordicchiate erano,
più affascinanti le parevano. Le raccoglieva per strada, le
“prendeva in prestito” dagli astucci dei suoi
compagni di classe, le comprava oppure aspettava che piovessero dal
cielo. Un paio di volte era capitato. Sul serio. Non sto scherzando.
Veronica dormiva al contrario, con i piedi sul
cuscino e il viso sul materasso duro e scomodo. È con i
piedi che cammino tutto il giorno, spiegava. Meglio che siano loro a
riposare comodamente.
Ah, ma non dimentichiamo le famose cene la vigilia
di Natale. Un tormento, per la nostra ragazza! Una ventina di parenti
di sua madre, pettegoli e perfidi, riuniti nella stessa stanza,
incoraggiati nel malignare da un bicchiere di vino di troppo.
Credetemi, nessuno, e dico proprio nessuno, avrebbe voluto passare
anche solo un Natale in balia di certa gente. Figuriamoci tutti gli
anni! La ragazza detestava quasi tutte quelle persone. Soprattutto le
zie. Oh, Veronica odiava le zie! Fu per questo, si pensa, che un anno
si presentò alla fatidica cena con indosso una maglia blu
con la scritta in verde fosforescente PARENTI SERPENTI. La madre
svenne, quando Veronica si sbottonò la felpa che portava per
nascondere quello che poi definì “uno
scherzo”. Il padre, invece, scoppiò a ridere e
quell’anno le raddoppiò la paga settimanale. Anche
il gatto si divertì un mondo schizzando via tra le gambe dei
parenti inorriditi.
Per rimanere in tema, Veronica aveva una teoria
tutta sua sull’esistenza di Babbo Natale. Babbo Natale
esisteva, ma andava solo dai bambini che non avevano una famiglia che
potesse far loro un regalo, e che credevano ciecamente nella sua
esistenza. Lei stessa ammetteva che Babbo Natale negli ultimi decenni
aveva ben poco lavoro da svolgere, ma meglio così. Non le
piaceva l’idea che le renne si ammazzassero di lavoro
trainando su e giù quel ciccione. Con tutto il rispetto per
Babbo Natale, una bella dieta avrebbe anche potuto seguirla, visto che
non aveva niente da fare per tutto l’anno.
La nostra ragazza non andava molto
d’accordo con i suoi compagni di classe. Una classe
è un po’ come la famiglia, non puoi sceglierla e
ti tocca accontentarti. I suoi migliori amici, infatti, frequentavano
scuole diverse, tranne JJ, che era il suo compagno di banco e non
condivideva la filosofia “classe uguale famiglia uguale
rompiscatole”, ma forse perché a lui andavano a
genio tutti. Forse per i maschi è più facile,
pensava Veronica. Loro hanno un “codice”. Fatto sta
che le discussioni erano pane quotidiano, e poco mancò che
un giorno scoppiasse una vera e propria rissa da strada. Veronica
sarebbe stata contenta di mettere in pratica quel po’ che
sapeva di arti marziali. Nonostante questo, voleva a tutti un bene
dell’anima. Insieme ne avevano passate tante, e qualche
piccola scaramuccia non basta a far dimenticare anni di risate.
Inoltre Veronica vantava una collezione di romanzi
da far invidia alla biblioteca del paese. Dovete ammettere che intimare
ai propri genitori di eliminare il televisore dalla camera da letto per
far posto ai libri non è da tutti gli adolescenti. In cima
alla libreria capeggiavano in bell’ordine quattro o cinque
volumi scritti da James M. Barrie, evidentemente i suoi preferiti.
Veronica credeva nelle favole. Ma non in tutte.
Solo nelle più bizzarre e magiche, naturalmente. E credeva
in Peter Pan, ma non come ci credono i bambini di cinque anni. Non era
stupida. Molte persone sostengono di credere in una certa religione,
nell’oroscopo o nei tarocchi, ma sono pochi quelli che lo
fanno con il cuore, oltre che con la mente. Se Veronica credeva in
Peter Pan, c’era un motivo, ed era anche un motivo
validissimo.
Nessuno, a parte JJ, ne era a conoscenza, ma
Veronica vedeva le fate. Sul serio. All’inizio credeva di
avere le allucinazioni, o di essersi fatta influenzare dalla sua
passione per l’Isola Che Non C’è, ma
quando quelle cominciarono a rivolgerle la parola, non poté
più ignorare la cosa. Le fate esistevano. Il più
delle volte pronunciavano semplicemente il suo nome, le svolazzavano
intorno e sparivano fuori della finestra, altre volte le facevano
compagnia mentre leggeva o parlava al telefono con JJ.
Fu così che un bizzarro sogno, un
desiderio, le si insinuò pian piano nel cuore. JJ era felice
per lei, e la incoraggiava a non arrendersi, anche se avrebbe
significato perdere la sua migliore amica. Veronica credeva
nell’Isola Che Non C’è, e JJ aveva
fiducia in lei.
Quasi tutte le sere, Veronica sedeva vicino alla
finestra della sua camera da letto, e guardava fuori. In alto, cercava
con gli occhi le stelle, soffermandosi sulla seconda a destra. Una
strana determinazione si faceva largo nella sua mente, e la ragazza
sorrideva all’idea.
Combatteva una piccola battaglia, e non si sarebbe
mai arresa. Mai.
Perché? Perché
c’era una cosa che la strana ragazza vestita di blu
desiderava più di ogni altra.
Veronica voleva volare.
E ci sarebbe anche riuscita.