Note
dell’autrice:
non
li posseggo, tutto ciò non è vero, e non ci
guadagno nemmeno una sottile
increspatura sulla superficie del mare del nulla.
Dedicata
a Doralice che l’ha richiesta, e poveretta se la deve cuccare
scritta da me
<3
Sherlock
aveva imparato il codice Morse in cinque minuti, a dieci anni, nel
bagno dello
studio dentistico dove stava attendendo il proprio turno.
Non
che ai tempi pensasse a un’eventuale utilità
pratica di quello sforzo
intelletuale, ma qualunque cosa era meglio che aspettare insieme a
Mycroft in
quell’orrenda saletta dalla moquette color senape.
*
Il
dentista si era poi rivelato un inetto – lui
l’aveva capito subito dal modo in
cui appendeva i quadri, ma nessuno l’aveva ascoltato.
Nonostante i vari
apparecchi il suo sorriso negli anni non migliorò affatto.
Per
fortuna non era mai stato uno da sorridere tanto. Preferiva di gran
lunga
ghigni di studiata arroganza. Difatti le labbra serrate equivalevano a
minore
espressività, che agli occhi degli altri equivaleva a
maggior controllo di sé.
E
così almeno non si sarebbero visti gli incisivi leggermente
distaccati.
*
La
prima volta che John gli aveva sorriso, durante la loro prima corsa in
taxi, vedendo
quelle due belle file regolari di denti bianchi Sherlock aveva pensato
(forse
per un’associazione mentale retaggio
dell’infanzia): John è
punto linea linea linea, linea linea linea, punto punto
punto punto, linea punto.
*
Ogni
tanto si sorprendeva a suonare il suo nome al violino. Piccoli colpi
d’archetto
seguiti da brevi pause, o da note più prolungate, a
ricalcare i dit e i dat del
codice Morse.
Non
sapeva se ne venisse fuori una musica piacevole, o di un qualche merito
artistico; ma la cosa non gli importava più di tanto.
*
Poi
si sorprese a tamburellare quelle quattro lettere mentre aspettava che
John gli
preparasse il toast la mattina. Poi, qualche volta, sul finestrino dei
taxi.
Poi, quasi sempre, sulla base del microscopio – un tic
nervoso di
concentrazione, quasi involontario.
Alla
fine smise di sorprendersi di sé stesso e trasmise il suo
nome ovunque gli
fosse possibile.
*
Si
era spesso ripromesso di non dire mai ti
amo a nessuno, nemmeno se un giorno si fosse accorto di
essersi innamorato
davvero. Troppa esposizione: sentiva che si sarebbe rovinato, come una
pellicola fotografica al sole.
John
d’altro canto sembrava così portentosamente,
stupidamente impermeabile a tutti
i segnali che Sherlock gli lanciava, che la prima volta in cui il
detective
batté l’archetto del violino sul divano a comporre
quelle due parole, quasi non
sentì nessuna ondata di terrore – le quali
l'avrebbero sicuramente sommerso se anche solo
le avesse sussurrate nel buio della propria stanza, da solo, di notte.
John
stava guardando Doctor Who, e rideva, e non se ne accorse nemmeno.
*
Una
sera lo stava guardando leggere nella sua poltrona davanti al camino,
ticchettando come suo solito le unghie sul pc che teneva aperto di
fronte a
lui, quando John si schiari la voce e prese a battere le nocche sul
camino.
Sherlock,
perplesso, alzò lo sguardo su di lui. Sorrideva, ed era
arrossito un poco in
faccia.
Aggrottando
le sopracciglia, gli ci volle un po’ per capire che John gli
stava rispondendo.
Sei…
un… idiota.
Il
sorriso di John si allargò. Sherlock, con il cuore che
pareva volesse
sfondargli la cassa toracica, lo guardò alzarsi e chinarsi
sul divano dove lui
era seduto.
Con
uno sguardo colmo di calore (il
sole, che rischia di rovinare la pellicola - ti sei esposto troppo - John è un militare,
certo che conosce il codice Morse, sei così sciocco -silenzio,
Mycroft!)
John allungò un braccio oltre la sua testa.
Sherlock temette - cioé spero - cioé temette di
sperare - che John volesse abbracciarlo. Invece si limitò a
battere di nuovo le nocche , molto lentamente, sul muro alle loro
spalle.
A…
n… c… h…e… i-
Oh.
Note
dell'autrice: ispirato a
un post su Tumblr, che maledizione non riesco a linkare, il quale
suggeriva uno Sherlock che tamburella ti amo ovunque gli sia possibile,
pur di buttarlo fuori in qualche modo, e un John che un giorno gli
risponde.
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